Alpinismo

Nanga, montagna del destino o dell’ipocrisia?

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BOLZANO — "Per 35 anni sono stato accusato di aver sacrificato all’ambizione la vita di mio fratello. Allora, per giorni, non ho fatto altro che cercare di salvarlo. Una scelta talmente ovvia che per me non c’era bisogno di altre spiegazioni. Solo i miei compagni e molti moralisti vedevano la cosa in modo diverso". Sono queste le parole che Rehinold Messner usa oggi per raccontare della tragica scomparsa del fratello Guenther, nel suo ultimo libro sul Nanga Parbat. Una montagna, di cui ripercorre la storia, costellata di morti, crudeli polemiche e falsità, senza citare le tragedie estive, ma fornendo una chiave di lettura che può aiutare a capirle.

E’ una storia che brucia ancora, quella del Nanga Parbat. Brucia per Messner, che lassù perse il fratello e poi dovette sopportare trent’anni di accuse. E brucia nell’attualità, dopo la spedizione sul versante Rakhiot dove qualche mese fa perse la vita Karl Unterkircher. Due episodi lontani, ma uniti da fattori come l’esplorazione, la tragedia, gli strascichi polemici.
 
In questo libro, annunciato da mesi ma uscito solo ora nelle librerie, Messner racconta il Nanga Parbat dai primordi dell’alpinismo ai giorni nostri, attraverso le parole dei protagonisti delle spedizioni che ne hanno scritto la storia. Ma il cuore del volume, la sua chiave di lettura, è senz’altro la tragedia del fratello Günther, che nel 1970 morì sotto i suoi occhi. E che, oltre al dolore della perdita, gli portò quello dell’infamia.
 
"Durante la salita non c’erano problemi – ha detto Messner, intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa domenica sera -. Le liti nascono dopo, quando la gente cerca le scuse, si fa prendere dall’invidia".
 
I fratelli Messner (nella foto) raggiunsero la vetta, nel 1970, salendo dal versante Rupal: la parete più alta del mondo, 4.500 metri di dislivello. Ma lassù, Guenther non si sentì bene, e così Reinhold decise di scendere dal versante Diamir, più semplice. In discesa, la tragedia: Guenther precipitò e il suo corpo scomparve tra le gole della montagna. Reinhold tornò da solo, e per anni venne accusato di mentire, e sospettato di aver abbandonato il fratello per inseguire la sua gloria personale.
 
Solo nel 2005, quando riaffiorarono i resti di Guenther alla base della parete Diamir, Reinhold venne scagionato. Ora, dopo tanti anni, Messner cerca di ricostruire la dolorosa storia di questa montagna e di rimettere insieme i pezzi della sua tragedia personale. Alla quale solo adesso riesce a dare una spiegazione.
 
"Credo sia stato il senso di colpa dei miei compagni – racconta Messner -. Erano convinti che fossimo morti perchè eravamo spariti da giorni. Hanno pensato che fosse impossibile scendere dal Diamir, che fossimo morti vicino alla cima e che quindi fosse impossibile venirci a prendere. Così non si sono mossi. Ma quando mi hanno visto ritornare, hanno capito il loro errore. E per "scusarsi", per soffocare il senso di colpa di non averci aiutato, hanno inventato queste storie che mi descrivono come un mostro. Una situazione molto simile al caso di Bonatti, sul K2, che venne accusato di aver rubato l’ossigeno e di aver imbrogliato dai due alpinisti che arrivarono in cima e che lo abbandonarono al bivacco a ottomila metri".
 
Il libro racconta molte verità scottanti, con documenti inediti, come la foto della scatoletta di Pervitin, l’eccitante assunto ripetutamente da Hermann Bhul, durante la prima salita alla montagna. Riporta incredibili fotografie, che costituiranno la base sul film in lavorazione sulla storia dei fratelli Messner.
 
Ma non accenna alle tragedie estive, che però risultano forse più comprensibili dopo un’attenta lettura del volume. Messner lo ha spiegato, ancora una volta, nell’intervista su Rai 3.
 
"Unterkircher era un grande alpinista – ha detto Messner a Fazio – La gente deve capire che noi andiamo nei posti più pericolosi del mondo per non morire, per vivere. Oggi l’alpinismo è diverso da quando io ho iniziato. Si può comprare la salita all’Everest, che resta rischiosa
ma vale poco se vissuta come una gita preconfezionata. Io lo chiamo "alpinismo di pista", che non ha niente a che vedere con l’alpinismo di Cassin, Bonatti e spero il mio. Un alpinismo che va dove gli altri non vanno, che cerca il contatto tra l’uomo e queste montagne nude, non messe in scatola dall’uomo".
 
Messner non risparmia accuse agli ipocriti dell’alpinismo, che pretendono di giudicare alla luce di moralismi, ideologie, supposizioni. Una tentazione a cui molti cedono spesso, anche ai giorni nostri, e che finisce per dividere e rovinare le storie. Ma che Messner spera possa sparire presto, in nome della verità e della purezza dell’alpinismo.
 
"Se solo si riuscisse a spogliare questa montagna della morale e degli ideali sbagliati che gli hanno cucito addosso per trent’anni – scrive Messner nel suo libro -, il Nanga Parbat smetterebbe di essere la montagna del destino, e sarebbe di nuovo il Diamir, una delle montagne più affascinanti del mondo".
 
 
Sara Sottocornola

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