Alpinismo

Kofanov: ecco come ho salvato Epis

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BERGAMO — "Mentre mi avvicinavo alla tenda di campo 4, ho visto che quindici metri più sopra, su un pendio, c’era un alpinista riverso nella neve". Così Sergey Kofanov ricorda di aver trovato Marco Epis sulla parete Nord dell’Everest, a quota 8.300 metri. E così è iniziata l’estenuante ma provvidenziale operazione di soccorso che ha visto la giovanissima guida russa, solo 29enne, salvare la vita all’alpinista bergamasco.

Guarda il video del salvataggio

"Dopo la cima – racconta Kofanov – credo di essere stato quasi un’ora e mezza sulla cresta di 8.500 metri. Stavo aspettando Sergey Larin, che era l’ultimo del nostro gruppo. A mezzogiorno circa mi ha informato che aveva superato il Second Step, così, visto che aveva superato la parte più pericolosa della discesa, mi sono avviato verso il campo, posto a 8.300 metri.

 
L’ossigeno nella mia ultima bombola era particamente finito, ma la cosa non mi preoccupava troppo visto che mi sentivo bene, nonostante avessi lavorato tutta la notte per aprire la traccia nella neve profonda e recuperare le corde fisse sepolte. Quando sono arrivato al campo, la maggior parte dei clienti avevano già iniziato la discesa con il nostro sirdar Mingma e gli altri Sherpa. Erano rimasti solo Israfil Ashurly e Curt Myers.
 
Mentre mi avvicinavo alla tenda, ho visto che quindici metri più sopra, su un pendio, c’era un alpinista riverso nella neve. Non aveva ramponi, nè imbrago, e la sua maschera dell’ossigeno era staccata dal viso. L’uomo non rispondeva alle domande, cercava debolmente di alzarsi senza capire dov’era o cosa fosse successo. Nel suo zaino ho trovato una bombola targata "Summit Oxygen", usata per due terzi.
 
L’ho trascinato nella neve fino alla tenda e, dopo avergli tolto lo zaino ed essermi liberato anch’io del sacco e della maschera d’ossigeno, l’ho portato dentro e messo a faccia in giù. Per prima cosa gli ho fatto un’iniezione di dexametazone e poi ho provato a fargli bere del caffè che era rimasto nei miei thermos. Li avevo lasciati nella tenda la notte prima di partire per la vetta, per lasciare spazio, nello zaino, a 3 bombole d’ossigeno e ad un set di primo soccorso. Era la soluzione migliore: scaldare la neve per avere l’acqua calda e farne di nuovo, avrebbe richiesto troppo tempo.
 
Poi ho guardato nel set di primo soccorso, c’erano due siringhe di dexametazone di 40 milligrammi ciascuna. Sfortunatamente, erano congelate e ho dovuto spacchettarne una e scaldarla tra i palmi delle mani. Poi Israfil mi ha informato che lui, partendo per la discesa, lasciava una bombola piena d’ossigeno.
 
In quel momento una ragazza che non conoscevo si è avvicinata e mi ha messo in mano una siringa piena di prednizalon. Da lei ho saputo che l’alpinista che stava male era un italiano, perso due giorni prima. Il suo team era sceso il giorno prima, pensando di non trovarlo più. La ragazza era francese, parlava sia italiano che inglese.
 
Sono tornato in tenda e gli ho fatto un’iniezione. Allora si è avvicinata un’altra ragazza francese. Io sono uscito e ho guardato nello zaino dell’italiano: accanto a una bombola d’ossigeno c’erano circa 10 chilogrammi di cose inutili, tra cui persino una foto del suo cane. Le francesi, intanto, lo hanno preparato per il trasporto a valle. Abbiamo tolto tutto quello che c’era nello zaino a parte la macchina fotografica. Una delle ragazze è andata nella sua tenda, poi ha trovato i suoi ramponi e il suo imbrago.
 
Nel frattempo, le medicine hanno iniziato a dare effetto e l’italiano ha cominciato a tremare e a tentare di sedersi. Ci abbiamo messo circa dieci minuti per vestirlo, mentre tentava di dirci il suo nome: Marco. L’ho forzato a prendere una tavoletta di diamox e … trental… insieme al caffè, perchè le due dita avevano congelamenti piuttosto gravi.
 
Poi l’abbiamo spinto fuori. Gli ho messo gli occhiali, uno zaino con una bombola e la maschera, e lo stesso ho fatto io. L’abbiamo messo in piedi, ma ho capito che non sarebbe riuscito a camminare. L’ho assicurato ad una corda e l’ho caricato sulle mie spalle, poi abbiamo iniziato a scendere. Dopo cento metri ero esausto e l’ho appoggiato nella neve. L’unico modo per proseguire era trascinarlo, visto che il pendio era piuttosto ripido. In questo modo abbiamo sceso in fretta cinquecento metri, fino ad incontrare uno Sherpa che stava salendo senza zaino.
 
Lo Sherpa parlava inglese e mi ha spiegato che faceva parte dell’altra spedizione italiana. Era pronto ad aiutarmi a portare in basso il ferito, così abbiamo iniziato a scendere trascinandolo in due. Abbiamo incontrato il secondo team della mia spedizione che doveva tentare la cima durante la notte. Volevano aiutarci, ma con lo Sherpa ero certo che ce l’avremmo fatta a portare Marco fino al campo posto a 7.700 metri.
 
Al pianoro successivo abbiamo interrotto la discesa, perchè era necessario fargli una seconda iniezione di  dexametazone. Ho scaldato la siringa tra le mani e gli ho iniettato la dose direttamente attraverso i pantaloni. Le due ragazze francesi sono arrivate dall’alto, portando dieci metri di corda per assicurarci sui pendii più ripidi".
 
"Abbiamo continuato a scendere – continua Kofanov -. Io ero ancora davanti, praticamente portavo Marco sulle spalle. Lo sherpa, che nel frattempo avevo scoperto che si chiamava Mingma, era dietro e ci teneva assicurati con la corda. Le due francesi erano in coda ma, intuendo che per noi potevano fare ben poco di concreto, ci hanno superato dicendo che sarebbero scese a 7.700 metri per cercare di trovare qualcuno della spedizione dell’italiano.
 
Le mie forze cominciavano ad andarsene, soprattutto quando incontravamo i gruppi in salita. La traccia era molto stretta e in quei momenti di ingorgo, il peso dell’italiano era completamente su di me. per fortuna il deximetazone e l’ossigeno hanno iniziato lentamente a fare effetto, e il carico è gradualmente diminuito. A dire la verità, in quel momento ero davvero esausto perchè il mio ossigeno era finito. Al campo di Russell Brice, posto a 7.900 metri, sono arrivato confuso, facevo fatica a capire cosa stava succedendo".
 
"Siamo caduti in mezzo alle tende del campo, quasi perdendo i sensi. Gli sherpa di Russell si sono raccolti intorno a noi, cercando di capire chi salvava chi. In quel momento probabilmente Marco sembrava star meglio di me e di Mingma. Io avevo la bocca secca, non riuscivamo a parlare, a gesti abbiamo fatto capire che volevamo qualcosa da bere. Dopo dieci minuti siamo riusciti a spiegare la situazione.
 
Sapendo che Brice non nega mai un aiuto, gli ho chiesto via radio se poteva darci una bombola d’ossigeno per completare il salvataggio. Sapevo che io e Mingma avremmo anche potuto proseguire senza ossigeno, ma Marco avrebbe potuto morire. Fortunatamente Brice ha acconsentito e ci hanno dato una bombola senza problemi. L’abbiamo regolata si una quantità di tre litri al minuto e abbiamo continuato a scendere. La traccia diventava sempre peggio: affioravano speroni di roccia ed era impossibile trascinare Marco".
 
"Ho dovuto, di nuovo, caricarmelo sulla schiena. Iniziavo a vedere tutto nero: non dormivo e non mangiavo da più di un giorno, avendo raggiunto la vetta dell’Everest durante la notte e avendo aperto la traccia nella neve. Quando abbiamo raggiunto il campo a 7.700 metri, ero mezzo delirante.
 
Siamo inciampati nei pressi della prima tenda, e tutti e tre siamo rimasti lì, sdraiati, per circa mezz’ora. Gli sherpa della vicina spedizione coreana ci osservavano sorpresi e ci hanno portato un po’ di tè caldo. Mingma, che era il più fresco, si è alzato ed è andato nelle tende dei coreani mentre io mi sono sforzato di aprire una tenda e mi sono trascinato dentro. L’italiano era rimasto fuori, nella neve.
 
Il ritorno di Mingma mi ha fatto riprendere da quella sonnolenza in cui ero caduto. Dovevamo andare, perchè l’ossigeno sarebbe finito presto e allora nulla avrebbe più potuto salvare Marco. Mingma ha legato Marco a sè e l’ha trascinato in discesa. Io ho deciso di restare un momento di più in tenda, per riprendere i sensi".
 
"Ricordo che mentre scendevo, le persone che salivano mi chiedevano dov’era il mio sherpa o la mia guida. Probabilmente avevo un aspetto orribile, ma la mia risposta era: andate per la vostra strada, sono io la guida e lo sherpa, non ho bisogno d’aiuto. La gente, sorpresa, alzava le spalle e mi offriva un po’ d’ossigeno.
 
Dopo circa venti minuti mi ero un po’ ripreso e ho iniziato a scendere, dopo aver gettato via la bombola vuota e altro materiale dal mio zaino. Ho incontrato Mingma poco dopo. Sono passato avanti, assicurandomi, e ho notato che il coordinamento dei suoi movimenti migliorava. Vicino al campo di Colle Nord, 7.000 metri, Marco si muoveva praticamente da solo.
 
Al campo ho detto al nostro cuoco Gumbi di preparare minestra e tè caldi, ho messo l’italiano su una sedia e sono andato a cercare notizie del mio gruppo. Tutti i clienti erano lì al campo e dormivano nelle loro tende. Solo Israfil Ashurly, dell’Azerbaijan, e il tedesco Dirk Feige erano già scesi al campo avanzato, quota 6.400 metri".
 
"Era tutto a posto, e sono tornato dall’italiano. Dopo la minestra, gli ho chiesto di prendere altre compresse di diamox e trental. Sfortunatamente non parlava inglese, così io e Maxim Shakirov non abbiamo potuto avere nessuna informazione da lui. Marco rispondeva alle nostre domande dicendo solo "non comprendo", e Max in italiano conosce solo le parole "pinocchio" e "cipollino".
 
Nel frattempo era calata la notte. Parlando con Mingma, avevamo deciso di non lasciare Marco al Colle Nord, e continuare la discesa verso il campo avanzato a 6.400 metri. Aveva praticamente ripreso i sensi e dissi a Mingma di iniziare a scendere con lui.
 
Avevo pianificato di partire poco dopo di loro e sorpassarli. Ma probabilmente le mie forze erano davvero finite, visto che, partendo solo dieci minuti più tardi, li ho raggiunti al "punto ramponi" a quota 6.600 metri. Da lì, il campo avanzato è a circa mezz’ora di camminata.
 
Sulla via uno sherpa della spedizione italiana ci è venuto incontro con thermos di tè caldo – conclude Kofanov – e io ho preseguito da solo. Ho solo chiesto a Mingma di venire al nostro campo la mattina dopo. Ma sfortunatamente non l’ho più visto, perchè nella notte Hannah Shields si è sentita male e la mattina dopo abbiamo iniziato a scendere molto presto verso il base".
 
Sergey Kofanov, 29 anni, è una guida delle spedizioni commerciali "7 summits club" organizzate da Alex Abramov. Laureato in Fisica all’Università degli Urali, Kofanov ha un’esperienza pluriennale nelle spedizioni in alta quota ed è uno degli atleti più in vista del mondo alpinistico russo.
 
 
 
 

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