Alpinismo

Il crepaccio, la frattura, i soccorsi. Marco Majori racconta la sua disavventura sul K2

L’alpinista lombardo, che ha rinunciato alla vetta a quasi 8500 metri di quota, ha raccontato al Festival di Trento le ore drammatiche che ha vissuto sul K2. E’ stato il momento-clou di “Consapevolmente (in)sicuri”, l’evento della Società di Medicina di Montagna

“Sono caduto nel crepaccio all’improvviso, scendendo nella nebbia verso il campo 3. E’ stato un volo di una decina di metri, l’atterraggio è stato attutito dalla neve morbida, ma mi sono conficcato nella neve fino ai fianchi. Nella caduta mi ero rotto una spalla, e per un po’ non sono riuscito a muovermi. Mi è dispiaciuto aver dovuto rinunciare alla vetta, ma le energie risparmiate mi hanno permesso di sopravvivere al crepaccio”. 

Quel che è accaduto sul K2 negli ultimi giorni di luglio del 2024 è stato raccontato solo in parte. Si è parlato della rinuncia delle quattro alpiniste italiane del team CAI diretto da Agostino Da Polenza. I protagonisti hanno raccontato dell’arrivo sugli 8611 metri della vetta, a qualche ora di distanza, di Federico Secchi e di Tommaso Lamantia. 

Dell’incidente occorso a Marco Majori si è parlato di rado, soprattutto per elogiare Benjamin Védrines e gli altri che sono risaliti ad aiutarlo. Ascoltare il protagonista raccontare l’accaduto, con la massima calma e davanti a un pubblico emozionato e silenzioso, è stato il momento emotivamente più forte di “Consapevolmente (in)sicuri”, l’evento della Società di Medicina di Montagna. 

Ad affiancare Majori sul palco c’erano Stefano Trinchi, medico del Corpo Nazionale Soccorso Alpino, e Lorenza Pratali, che in quei giorni era al campo-base del K2 come medico della spedizione CAI al K2. Sullo sfondo si alternavano le splendide immagini scattate, da terra o con un drone, da Ettore Zorzini.

La rinuncia alla vetta

Marco Majori ha raccontato l’accaduto tutto d’un fiato, con una serenità sorprendente.  Quando sono partito dal campo-base stavo bene, e mi sentivo alla pari con Federico. Oltre il campo 4, invece, lui mi ha progressivamente staccato. Mi sono accorto che, se avessi proseguito, sarei arrivato in cima troppo tardi. Via radio, Agostino Da Polenza mi stava dicendo già da un po’ di rinunciare”, racconta l’alpinista lombardo. 

Ho spento la radio per un’ora e ho continuato la salita. Non volevo scendere perché me lo aveva detto qualcun altro, e mi serviva tempo per far sbollire la rabbia. Poi ho capito che era finita, ho salutato la cima e sono sceso sereno. Federico mi ha visto, e mi ha fatto un cenno di saluto dall’alto. Ero lucido, tra il Collo di Bottiglia ho pensato alla spedizione italiana del 1954, cercando di capire dove avevano bivaccato Bonatti e Mahdi, e dove fosse stata piantata la tendina di Compagnoni e Lacedelli”.   

Nelle ore che seguono, Federico raggiunge Marco al campo 4, dove i due passano la notte. La mattina decidono di non scendere per la via Česen, anche a causa delle nuvole che la renderebbero difficile da individuare. Si abbassano sulla normale verso il campo 3, ma vengono avvolti dal maltempo. Secchi va avanti, Majori non vede le tracce, cade nel crepaccio senza nemmeno accorgersene. 

L’incidente

Dopo essere rimasto bloccato, ed essersi agitato, l’alpinista si calma, ragiona, inizia a darsi da fare per uscire anche se non riesce a usare il braccio destro. Lo fa “in modo meccanico, senza rendermene conto, con movimenti dettati dall’esperienza e dall’istinto. In quel momento ero in un’altra dimensione”, racconta Marco ai medici e al resto del pubblico di Trento.
Majori lascia lo zaino che contiene la tenda, si toglie gli sci ma gli scarponi sprofondano, allora se li rimette e sale a scaletta fin dove le pareti diventano verticali. Poi traversa, toglie nuovamente gli sci, ne usa uno come corpo morto per salire. La piccozza non fa presa nella neve farinosa, ma serve a rompere una cornice di neve e a uscire. “Oltre alle energie risparmiate, è stata la calma a salvarmi. Sono sempre stato convinto che sarei tornato a casa”. “E’ stata una performance straordinaria!” commenta Stefano Trinchi dopo un lungo monologo del protagonista.


Il ritorno al campo base

Una volta fuori dal crepaccio, però, i problemi per l’alpinista lombardo non sono ancora finiti. Marco rimette gli sci, attende una schiarita per orientarsi, raggiunge il campo 3 dove Federico lo sta aspettando. Ma le tende delle varie spedizioni sono state smontate, e i due si devono riparare con il telo di una tenda sfondata. “Non ho pianto perché non avevo le energie per farlo” confessa Marco Majori. 

Poi arrivano i soccorsi, e tutto cambia. Benjamin Védrines, velocissimo, porta una tenda, dei medicinali, un fornello. Una bevanda calda e una iniezione di cortisone fanno miracoli. Poi un altro francese, Sébastien Montaz-Rosset, porta una bombola di ossigeno, preziosa per evitare che i lievi congelamenti alle dita di Marco si trasformino in un problema più serio.
L’indomani, scendendo lungo lo Sperone Abruzzi, raggiungono Federico e Marco anche Silvia Loreggian, Federica Mingolla e gli alpinisti della spedizione di Biella. Al campo base Maiori viene infilato in un sacco a pelo, e curato da Lorenza Pratali, sotto lo sguardo di Agostino Da Polenza. 

Forse ce l’avrei fatta a scendere anche da solo, magari in due giorni invece che in uno. Per aiutarmi si è creato uno spirito di complicità tra tutti gli alpinisti presenti, è stato bello”, conclude Marco Maiori. “L’incidente sul K2 mi ha arricchito, mi ha dato più fiducia in me stesso. Ora sto meglio, e sono pronto a tornare in luoghi belli e isolati come il Baltoro”. 

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