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In Valle Maira, alla scoperta di acciugai e raccoglitori di capelli

La vallata del Cuneese non si limita a sfoggiare imponenti pareti rocciose, ma racconta con interessanti musei un passato fatto di lavori inconsueti. Ma decisivi per la sopravvivenza

Lasciato alle spalle il borgo di Dronero (CN), la Valle Maira non manca di sorprendere chi ci mette piede per la prima volta. In alta valle, verso il confine con la Francia, il monte Chersogno si erge imponente con i suoi 3026 m ed è un invito all’ascesa per alpinisti e camminatori tenaci, che non temono lunghe ore di marcia, compensate da panorami notevoli. Ma anche l’Oronaye (3100 m) formato da calcare dolomitico rappresenta una sfida allettante. I sentieri lungo tutta la valle si snodano fra boschi, rare baite e un silenzio al quale non siamo più abituati. La Valle Maira è il posto giusto per tuffarsi in una wilderness autentica, per avvistare gli ungulati e le marmotte, per sentire il vento fra i larici, senza il rumore degli impianti di risalita, che qui non ci sono. Niente sci, soltanto sci alpinismo, ciaspole e trekking a stretto contatto con la natura. A questa straordinaria vallata la rivista Meridiani Montagne ha dedicato un intero numero proprio all’inizio di quest’anno.

La presenza antropica è discreta. La valle, attraversata da una strada di 45 km, conta 13 comuni. Gli abitanti sono legatissimi alla loro terra e alle loro radici: qui si parla ancora, infatti, una lingua antica, l’occitano. I piccoli musei locali assolvono egregiamente al compito di serbare la memoria per le generazioni future ma anche di rispondere alle curiosità dei turisti. Come mai in un paesino sperduto come Elva troviamo una stupenda chiesa affrescata da un pittore fiammingo, Hans Clemer? E come mai a Marmora o a Celle Macra ci si imbatte in signorili case di pietra, con la facciata a vela? Evidentemente, questa valle nasconde dei segreti. I valmairesi, gente tenace e ricca di inventiva, da secoli si sono scontrati con una natura con cui non è facile convivere, soprattutto d’inverno. Per cavarsela, hanno iniziato a emigrare per alcuni mesi all’anno, per cercare lavoro altrove. Se oggi il percorso più facile può sembrarci quello che porta verso Cuneo e la pianura, nel Medioevo non era così. La strada di fondovalle non esisteva e la gente era abituata a camminare lungo le mulattiere. Vari colli percorribili a piedi portavano velocemente nelle valli parallele, come la Varaita, oppute in Francia, in un territorio dove la gente parlava occitano.
Per cavarsela, si inventarono dei mestieri. Come quello dell’acciugaio, raccontato nel Museo multimediale Seles dedicato ai mestieri itineranti, a Celle di Macra.

Quando l’acciuga diventò motore dell’economia della valle

Cosa c’entrano le acciughe con una valle alpina? Ce lo spiega Roberta Allasia, coordinatrice dell’Ecomuseo dell’Alta Valle. «Ai primi del 1300, la Valle Maira era sotto il dominio dei conti di Provenza, i quali avevano un problema: la minaccia dei saraceni, che volevano invadere il loro territorio. I provenzali chiedono di formare delle squadre per andare a combattere al loro servizio. La borgata di Moschieres, che oggi fa parte di Dronero, risponde all’appello, inviando uomini al conte e alla fine il rischio è scongiurato. Per premiarli per il loro aiuto, il conte concede ai valmairesi di poter commerciare il sale senza pagare l’apposita tassa».

Per i valligiani è una manna dal cielo. D’estate potevano lavorare i loro campi e seguire il bestiame, d’inverno lasciavano per qualche mese mogli e figli e commerciavano in sale, che si procuravano in Francia attraversando il colle del Maurin e rivendevano viaggiando di paese in paese. Ma la pacchia finisce quando la Valle Maira passa ai marchesi di Saluzzo, che ripristinano il dazio. «Per mascherare il sale, nei barilotti mettevano del pesce sotto sale negli strati più alti», racconta Allasia. Un trucco da contrabbandieri, che permise loro, però, di scoprire il valore dell’acciuga come prodotto alimentare prezioso anche in pianura. «Inizia così la lavorazione delle acciughe, che coinvolge tutta la famiglia. Gli uomini si procuravano il pesce leggermente salato, che veniva portato nei borghi della Valle Maira dove tutti collaboravano a metterlo sotto sale e a prepararlo per la vendita itinerante». Il commercio ambulante richiede i carretti, o caruss: a produrli, si specializza il borgo di Tetti di Dronero. Per secoli, il carretto azzurro in giro in Val Padana è stato l’emblema degli acciugai della Valle Maira. «Una curiosità: esistevano anche i modelli smontabili, perché agli inizi del Novecento gli acciugai li caricavano anche sui treni», dice Allasia. 

Col tempo, gli acciugai si specializzano sempre di più. C’è chi diventa un grande importatore di pesce, anche dalle lontane isole Lofoten. «L’essere occitani favoriva i rapporti con la Francia e il nord della Spagna», puntualizza Allasia. «Negli anni Cinquanta del secolo scorso a seguito del calo delle acciughe nel Mediterraneo, si ricorre a quelle cantabriche. E vengono fondate industrie di confezionamento nel nord della Spagna». Non tutti potevano essere ricchi industriali. Nel tempo, il piccolo commercio rimane una presenza importante. «Esisteva un patentino e per legge i valligiani non potevano superare nei loro spostamenti un numero predeterminato di province limitrofe. Arrivano a Cuneo, Asti, Torino, Novara, Alessandria e Milano». Per andare oltre, verso Bergamo e Brescia, alcuni scelgono di insediarsi a Milano o a Pavia, da dove riescono a spingersi fino al Vicentino e nel Piacentino. I più ricchi assumono come lavoranti i giovani della valle, che finiscono a fare i venditori a Milano – dove si insediano in via Sarpi, prima dell’arrivo dei cinesi. Tengono banchi ai mercati rionali e viaggiano con furgoni. «Ancora adesso, restano attivi alcuni giovani. Il banco tipico dei venditori della Valle Maira proponeva presce salato, olive e acciughe. Ed era gestito da tutta la famiglia». Il Museo, allestito nell’ex chiesa di San Rocco (https://ecomuseoaltavallemaira.it/contatti), racconta la vita degli acciugai, ma non solo. In valle c’erano anche altri mestieri, scomparsi nel tempo. «C’erano i bastai, che producevano i basti per i muli», racconta Allasia. «E c’erano i bottai itineranti, i quali vivevano nelle stesse borgate degli acciugai e che andavano nelle Langhe e nel Roero. Quest’attività era nata perché in Valle Maira dal Medioevo fino al Novecento esisteva una produzione di vino». Le donne per lo più restavano a casa, con qualche eccezione. C’era chi andava in primavera in Provenza a raccogliere fiori e viole, che venivano usati per la creazione di profumi. Le mani femminili erano ritenute più adatte per questo lavoro. 

Raccoglitori (e venditori) di capelli

A Elva, un altro museo creato nel 2006 e gestito dall’Associazione culturale Ilamoun racconta un’altra storia. Avete presente i giudici dei tribunali inglesi, con i loro parrucconi bianchi? Queste capigliature posticce sono legate alla Valle Maira. Fino agli anni Novanta, le proponeva un pronipote di Jean Pierre Isaia, un abitante di Elva che aveva creato i suoi atelier di parrucche a Parigi e a Londra. Isaia non era l’unico valmairese a dedicarsi al business dei capelli. Il Museo di Pels (in occitano, dei capelli) racconta come gli elvesi, che commerciavano d’inverno tessuti e articoli di merceria in pianura, si sono inventati un lavoro che ha dell’incredibile. «Non sappiamo esattamente quando sia iniziato. La tradizione orale propone diverse versioni», spiega Sescia Mantelli, presidente dell’Associazione culturale Ilamoun. «Si racconta di un elvese che nel Settecento conobbe un commerciante di capelli a Venezia. Ma sembra più plausibile la storia di un altro elvese, che faceva il cameriere a Parigi e che riuscì a vendere le trecce delle sue sorelle, ricavandone una bella somma di denaro, tanto da provare a dedicarsi a quest’attività». Comunque sia andata, è certo che già intorno alla fine dell’Ottocento esistevano i raccoglitori di capelli detti caviè (in piemontese) o pelassier (in occitano). D’estate si dedicavano all’attività agricola e pastorale, d’inverno giravano con i tessuti, inizialmente di canapa e lino prodotti da loro. «Di solito convincevano le donne che incontravano a barattare i loro capelli con uno scampolo o un grembiule, oppure a venderli. Giravano il nord Italia, e riuscivano a procurarsi i capelli soprattutto nelle zone più povere, come il Friuli e o il Veneto. Una bella chioma era emblema di femminilità e le donne non si separavano volentieri delle loro trecce. Era la povertà a spingerle», commenta Mantelli. 

Ci sarà stata, forse, anche qualche donna di Elva che avrà venduto i suoi capelli, ma il ruolo delle valligiane in questo lavoro era diverso. I capelli che i mariti si procuravano venivano spediti in paese, dove venivano lavati, divisi per colore e preparati per essere spediti ai laboratori italiani e all’estero per produrre parrucche. Oltre alle preziose trecce, i pelassier compravano anche i pels del penche, i capelli che restavano sul pettine o sulle spazzole. Venivano raccolti intorno alle dita creando un bozzolo, poi venduto. A Elva le donne lavavano, districavano e pettinavano anche questi “gomitoli” di capelli. «Era un lavoro durissimo. I lavaggi erano effettuati i vasche di legno rivestite di metallo con acqua calda, sapone di marsiglia e soda. Le donne dovevano essere veloci, perché la soda li irrigidiva rendendoli taglienti. Poi con carde simili a quelle usate per la lana li pettinavano e districavano dei nodi, dividendoli per colore. A volte li tingevano, secondo quanto richiesto dalla moda del momento». Quali erano i più preziosi? «I capelli bianchi, difficili da trovare totalmente candidi. A lume di candela, li appoggiavano sulla carta del burro per creare contrasto e dividere al meglio bianchi, neri e grigi». Avevano occhi e mani d’oro, le donne elvesi. Ed erano veloci. «Un laboratorio di Saluzzo, gestito da elvesi, ha donato alcune parrucche al museo», dice Mantelli. «Ci hanno raccontato che riuscivano a confezionare una parrucca completa in un solo giorno, un vero miracolo». Le elvesi avevano la loro tecnica anche per ottenere dei boccoli, richiesti come extension. Arrotolavano i capelli su bigodini di legno, li bollivano nell’acqua calda creando le pieghe e poi li asciugavano nei forni: l’effetto era quello di una permanente. 

Il business dei capelli è andato avanti fino alla fine degli anni Settanta ed è stato recentemente celebrato nel romanzo L’inventario delle nuvole (Fazi editore) di Franco Faggiani. «Uno degli ultimi pelassier, scomparso tre anni fa, ci ha raccontato che arrivava persino in Calabria», aggiunge Mantelli. «Vendeva i capelli a un laboratorio in Sicilia, che aveva clienti in Austria, dove erano richiesti per le bambole di ceramica». Il Museo di Pels testimonia la fatica degli uomini e delle donne di Elva, ma anche la loro determinazione e la loro creatività. Perché era tutt’altro che facile inventarsi dei mestieri in alta montagna. Ma loro ci sono riusciti, come raccontano le sei sale del museo, che è visitabile su appuntamento (chiamando il 340 9846508).

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