Alpinismo

A tu per tu con Chiara Gusmeroli, dalla “sua” Val Masino al Pakistan

La forte alpinista valtellinese ha da poco aperto una notevole via in stile alpino sull’inviolato Sckem Braq, in compagnia di Matteo De Zaiacomo. Al suo ritorno l’abbiamo incontrata. Scoprendo una donna che guarda lontano, senza dimenticare le sue radici

Cresciuta a pane e granito, Chiara Gusmeroli ha una visione dell’alpinismo che parte dalle sue montagne di casa, quelle della Val Masino, ovvero uno dei templi mondiali dell’arrampicata. Chiara ha portato l’etica e il modo di andare in montagna della sua valle in giro per il mondo, con spedizioni in Georgia, Patagonia e nelle aree più remote del Pakistan.

Come è iniziata la tua storia con la montagna?

Sono sempre andata in montagna, e l’ho sempre frequentata in tutte le stagioni. La Val Masino e la Val di Mello, dove ho iniziato ad arrampicare, mi hanno trasmesso una certa etica, e un modo di vivere la montagna legato alla storia alpinistica della zona. Le vie storiche su pareti come quella del Badile o del Qualido, aperte da alpinisti di una volta come Bonacossa, Gervasutti, Vinci, con uno stile di scalata totalmente pulito, sono uno dei motivi per cui sono così affezionata a queste valli. Quando le ripercorro, sapendo che gli apritori sono saliti dal basso con il piantaspit, e hanno impiegato mezz’ora per piantare un solo chiodo, non vedo più solo le protezioni distanziate, ma do loro un significato. Se non sei dentro a quest’ottica, vedi solo il pericolo. Ho la massima stima per questi grandi che negli anni ’80 andavano ad aprire una linea senza nessuna certezza di riuscirci, andando incontro all’incognita di cosa avevano sopra la testa.

Questo approccio l’hai fatto tuo, e l’hai portato anche dall’altra parte del mondo

Apprezzare l’evoluzione di questa tipologia di scalata mi ha portato ad ammirarla e adottarla anche come tipologia di apertura, ovviamente nel mio super-piccolo. Aprire una via in questo stile permette di muoversi leggeri, senza trapano, con le proprie forze, e lascia anche un grande senso di avventura. Poi, a livello idealistico è tutto bello, ma in Pakistan (dove sono stata con Matteo De Zaiacomo in agosto) ci è capitato più di una volta di pensare che col trapano saremmo arrivati in cima di corsa, e invece magari siamo stati costretti a calarci e rinunciare perché non riuscivamo ad avanzare o a farlo abbastanza velocemente.

In un’occasione è accaduto che non riuscivamo a salire un passaggio, abbiamo dovuto fare un pendolo per spostarci e salire da un’altra parte, ed è uscito un tiro di scalata artificiale che abbiamo gradato A3. All’inizio sceglievamo i chiodi giusti per ogni fessura, poi è successo che ce ne rimanevano solo quattro: l’ultimo era un chiodo da 12 centimetri che è entrato per soli 4 centimetri, ci abbiamo messo una fettuccia a bocca di lupo però abbiamo dovuto staffare delle robe assurde. Se lì avessimo piantato due spit, sarebbe stato molto più sicuro. Però il punto di questo modo di aprire vie è che non hai la certezza, dici: provo, non è detto che ce la farò, se non vado avanti mi calo e rinuncio. È il bello della diretta, e personalmente mi dà più soddisfazione arrivare in cima sapendo di aver contato sulle mie forze.

Alla fine in Pakistan siete riusciti ad aprire la via, come è andata?

Abbiamo aperto questa linea sulla cima Sckem Braq, che significa cima secca. Il nome ci ha beffato, perché a 5000 metri ci aspettavamo di trovare solo ghiaccio o roccia, invece negli ultimi tiri abbiamo trovato la fessura piena di erba.

La parte bassa della via, lunga 300 o 400 metri, correva parallela ad un canale, con scalata non troppo dura, abbiamo salito anche qualche tiro in conserva. Poi si arrivava ad una cengia dove abbiamo trascorso tre notti: qui iniziava lo scudo verticale vero e proprio, che era quello che ci aveva attirato guardandolo dal campo base. Quando siamo riusciti ad uscire da questa parete verticale, al secondo tentativo, è stata un’enorme soddisfazione. Abbiamo bivaccato appena all’uscita e siamo arrivati in vetta il giorno dopo.

Abbiamo chiamato la via ‘Azzardo Estremo’, per un duplice motivo. Da una parte è un riferimento all’omonimo libro di Joe Tasker, che abbiamo letto al campo base, facendo una full immersion di alpinismo britannico. Ci è piaciuto molto l’approccio dell’autore all’Himalaya, perché negli anni 70-80 tutti puntavano sulle spedizioni commerciali, mentre Tasker e compagni andavano in due, in autonomia e in stile alpino. Dall’altra parte, il nome ha racchiuso una serie di rischi che più o meno inconsciamente ci siamo presi. Oltre a quelli classici, nel senso che era una parete difficile da proteggere, che i primi tiri erano bagnati e che ci sono stati spaventi vari, c’è stato il fatto che la parete scaricava. Quando eravamo già nella sezione verticale, abbiamo visto una scarica che ha investito tutta la parte bassa, e anche buona parte dell’avvicinamento: ci siamo trovati al posto giusto al momento giusto. Abbiamo sentito il rumore, e un po’ eravamo abituati perché la valle scarica tanto in generale, poi abbiamo guardato in basso e stava crollando tutto. La seconda grossa scarica non l’abbiamo nemmeno vista, avevamo lasciato la tenda sulla cengia del bivacco e quando siamo scesi l’abbiamo trovata crivellata di sassi. È stato abbastanza forte tornare nel posto in cui abbiamo passato tre notti, e constatare che nell’unica notte in cui non c’eravamo è scesa la frana.

Come è stata l’esperienza della spedizione in un luogo così remoto?

Spettacolare. Io non ho tutta questa esperienza di spedizioni, ed è una tipologia di viaggio completamente diversa. In Patagonia alla fine hai sempre un paese a portata di mano, ti muovi leggero, stimi le finestre meteo e in paese hai la connessione e tutte le comodità, in Pakistan è tutto diverso. Sei isolato, non hai contatti a parte il satellitare per il meteo, vivi in tenda e hai contatti solo con i compagni. Eravamo solo io, Matteo e due ragazzi pakistani che ci aiutavano al campo base.

Qui anche le cose più semplici, mangiare e bere, mantenersi idratati, problemi intestinali, la quota, gli avvicinamenti che non ci sono e te li devi creare, tutte queste cose si sommano. Tu parti un giorno con l’idea di scalare e magari non riesci a fare l’avvicinamento perché passi due guadi e non riesci a superare il terzo. Per esempio, noi a furia di andare avanti e indietro dalla sponda del fiume avevamo trovato una sequenza di rocce che si riuscivano ad attraversare, ma solo la mattina molto presto. Guadavamo con le scarpe per non tagliarci i piedi, e quindi si bagnavano tutte. La volta del tentativo buono abbiamo fatto l’avvicinamento sotto una pioggerellina, siamo arrivati con i piedi bagnati e congelati e non avevamo neanche i calzini di ricambio: Matteo ha tuttora i piedi non del tutto sensibili per un principio di ipotermia.

Uno pensa che la parte più difficile di una spedizione del genere sia la scalata, ma anche tutto il resto è molto impegnativo, è una somma di più fattori.

Come ti è venuta l’idea di imbarcarti in un’avventura del genere?

Il sapere di essere così lontano da casa e fare qualcosa che avesse una componente di esplorazione oltre l’arrampicata, mi attirava moltissimo. Al ritorno dalla Patagonia, a gennaio, ne ho parlato con Matteo, gli ho detto che mi sarebbe piaciuto andare in un contesto culturale molto diverso dall’Europa ma anche da quello che ho visto in Patagonia. Avevo fatto un’esperienza simile in Georgia due anni fa, erano i primi anni in cui questo Paese diventava conosciuto a livello scialpinistico e mi era piaciuto moltissimo stare in questo paesino sperduto collegato da un’unica strada, che se nevicava non tornavi a casa, in mezzo a persone che vivono nel modo più semplice che c’è. Essere in una valle e avere carta bianca, scegliere su quali cime salire in un posto che non si conosce affatto. L’ottica del Pakistan era più o meno la stessa. È stato Matteo a propormi la Nangma Valley, io avevo suggerito il Pakistan in generale e mi ero informata sulle Torri di Trango. Poi lui si è ricordato di aver visto delle foto di questa valle, che si è rivelata perfetta per la spedizione che avevamo in mente.

Avevamo trovato qualche articolo sulle due montagne principali della valle, l’Amin Brakk e lo Shingu Charpa. Il primo è stato scalato due volte, tutto in artificiale, e il secondo è stato salito nei primi anni 2000 lungo lo spigolo. La cordata aveva vinto il Piolet d’Or per questa salita, ma non si era poi presentata a ritirarlo dicendo di non aver raggiunto la cima. All’inizio il piano era aprire una via sullo Shingu Charpa, ma quando abbiamo visto quanto scaricava, non ce la siamo sentita e abbiamo abbandonato l’idea.

Come è andato il rapporto uno a uno durante la spedizione?

Il fatto di conoscersi già molto bene è stato vitale sia dal punto di vista umano che di scalata. Entrambi sapevamo come poteva reagire l’altro in varie circostanze. Prima di partire sapevamo bene che essendo in due, se uno ha qualche problema fisico non si combina niente, e su questo siamo stati fortunati perché nelle giornate in cui non stavamo bene il meteo non era buono. Inoltre, io vivevo in modo abbastanza intenso il fatto che se fosse successo qualcosa all’altro in parete, la responsabilità anche del soccorso sarebbe stata tutta su di me.

Ci sono però tanti lati positivi dell’essere in due: scalare in determinati ambienti, prendendomi determinati rischi, è qualcosa che voglio fare con qualcuno che conosco al 100%. In certe situazioni non hai la lucidità né il tempo di capire cosa sta pensando l’altro, devi essere chiaro e molto in confidenza.

Come hai vissuto le differenze culturali?

La differenza culturale si è sentita anche perché io sono una donna, e lì sono abbastanza ligi alla religione islamica. Sia i due ragazzi del campo base, sia le persone dell’ultimo paese da cui siamo partiti con il trekking, erano incuriositi da noi come turisti ed erano straniti nel vedere che c’era una donna. Mi trattavano sempre bene, ma io vedevo come venivano trattate le altre donne e mi sembrava strano, perché hanno degli aspetti culturali totalmente diversi dai nostri.

In paese c’erano delle bambine che erano molto attirate da me, un po’ perché volevano giocare, e un po’ percepivano il fatto che io abbia uno stile di vita totalmente diverso, anche solo per il fatto di non avere il velo. Mi guardavano il viso con molta curiosità, mi chiedevano della mia famiglia, se avessi fratelli, ma non mi hanno mai chiesto se lavorassi, perché lì le donne restano a casa, anche se vanno a scuola. Si conduce una vita semplice, in cui le persone fanno a meno di tutte le cose per cui noi ci angustiamo ogni giorno. Mi sono chiesta se queste bambine sarebbero mai uscite dal raggio di 100 km intorno al loro paese, insieme a tutti gli altri motivi di riflessione che questi luoghi mi lasciano.

Quando sei a casa come ti alleni?

In Italia mi alleno quando posso: lavoro, come tutti, e il tempo libero è sempre troppo poco rispetto a quello che vorrei. Cerco di fare il più possibile smart working, così riesco ad andare a scalare dopo cena o la mattina prestissimo. A volte nell’ultimo mese al ritorno da Pakistan sono andata a fare blocchi da sola, per non rompere le scatole ai miei amici in orari improponibili. Sono una persona abbastanza iperattiva, e cerco di sfruttare tutto il tempo libero che ho, incastrando quello che devo con quello che voglio fare. Poi va anche a periodi, mi sento molto fortunata ad aver avuto tutto il mese di agosto di ferie. Per il momento va bene così, poi si vedrà…

Progetti per il futuro?

Eh…mi piacerebbe fare una spedizione in un contesto simile a quello del Pakistan, in luoghi remoti e un po’ sconosciuti, con una differenza culturale importante. Mi piacerebbe molto l’Himalaya indiano, con il giusto tempo.

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