Alpinismo

“Come birilli su una pista da bowling”. Il racconto di Romano Benet e Nives Meroi di ritorno dallo Yalung

Una parete enorme, carica di neve fresca, pericolosa. La prima intervista rilasciata dai due alpinisti tarvisiani, appena rientrati dopo il loro tentativo allo Yalung Peak, 7590 metri, nel massiccio del Kangchenjunga

“Eravamo esposti come birilli su una pista da bowling”. Così Nives Meroi descrive la situazione in cui lei, Peter Hámor e Romano Benet si sono trovati durante la notte in tenda trascorsa nel cuore della parete a 6000 metri, prima di ritirarsi.

Meta della spedizione era lo Yalung Peak (7590 metri), insieme all’adiacente Kangbachen (7902 metri), nel gruppo del Kangchenjunga, che volevano salire percorrendo un canale-scivolo di 2300 metri che taglia con una linea ben incisa la parete Sud, ancora oggi inviolata.

Le pessime condizioni del terreno e il meteo instabile con abbondanti precipitazioni nevose hanno però portato lei, Romano Benet e Peter Hámor a ridiscendere dopo una sola notte di bivacco nel canale, trascorsa a spalare a turno la neve che via via si accumulava dai continui scaricamenti sulle loro teste. Il rischio era quello di essere schiacciati dentro la tenda.
La notizia della ritirata è stata resa nota grazie ai social di Peter Hámor il 16 maggio.

Il trio italo-slovacco ha effettuato il tentativo sul ripido canalone tra il 12 e il 14 maggio, risalendo con grande fatica 500 metri di dislivello in stile alpino fino 6100 metri di quota, per ridiscendere l’indomani al campo-base avanzato. Il 27 maggio Nives e Romano sono rientrati nella loro Fusine. Li abbiamo entrambi sentiti al telefono.

Il meteo avverso, la parete difficilissima, i cattivi presagi

“Il tempo è stato fin dall’inizio brutto”, riferisce Nives, “nevicava ogni giorno, anche se la mattina il tempo teneva. Abbiamo deciso comunque, in una finestra di bel tempo, di salire dal campo-base portandoci ai piedi della parete e di creare lì un piccolo campo avanzato sistemandoci in una tendina, per poi attaccare la mattina seguente il couloir vero e proprio”.

Ma le condizioni del terreno, su quel percorso di 2300 metri di dislivello, non erano ideali.Abbiamo impiegato un’intera giornata, dalle 7 del mattino a metà pomeriggio, per fare 500 metri. C’era neve fresca fino al ginocchio, con una crosta superficiale da rompere e sotto uno strato di ghiaccio vivo: una neve faticosa. In più si era continuamente a rischio, essendo la neve non assestata, di essere travolti da qualche scarica o, nelle ore più calde, anche da sassi. Uno l’ho preso io, fortunatamente sul casco”.

Una situazione simile i due tarvisiani l’avevano già provata sul Dhaulagiri, ricorda sempre Nives. “Anche lì la neve scorreva e si accumulava sulla tenda, con la differenza, però che eravamo già in discesa, non con tutta la salita da affrontare. Peter aveva già vissuto momenti simili, sempre sul Dhaulagiri, dove lui e il suo compagno erano stati sommersi durante la notte. Riuscirono a liberare la tenda dalla neve solo usando i coltelli che avevano in tasca. Un incubo. La nostra decisione di ridiscendere è stata unanime”.

Una rinuncia consapevole, dopo una notte insonne stretti in tre nella tenda ancorata a un terrazzino ricavato scavando la neve. “Scendere era la scelta giusta per salvarci la vita, non c’erano alternative senza correre grossi rischi. Certo, si poteva provare ad andare su, ma non è detto che poi saremmo riusciti a tornare”.

Anche Romano rimarca come il terreno fosse poco favorevole: “Le condizioni erano difficili anche se non estremamente pericolose. Ma è stata una buona decisione ritirarsi, perché l’indomani ha nevicato parecchio: ci saremmo trovati a metà parete con ancora più neve fresca e ancora più esposti”.

“Il problema di quella parete è la ripidezza. Se ti trovi su una via di 50-60° gradi di pendenza, ma un po’ più articolata, anche se è brutto tempo pianti la tenda e aspetti. Ma su uno scivolo di 2300 metri senza interruzioni, e senza posti sicuri per bivaccare, non puoi farlo”. In previsione, come ci aveva raccontato Romano prima di partire, c’era solo un secondo bivacco in parete, nell’altro unico punto possibile lungo lo scivolo.

Anche in Himalaya, come in Europa, un inverno molto secco, seguito da una primavera molto piovosa e nevosa, ha connotato fortemente l’ambiente.
Già il ghiacciaio su cui i tre avevano piantato il campo base era in condizioni poco favorevoli. “Nei giorni in cui – così racconta Nives – abbiamo cercato di fare acclimamento muovendoci alla ricerca della via migliore verso i piedi della parete, abbiamo segnato il percorso, che purtroppo mutava sempre, a causa dei crepacci, dei seracchi, dei penitentes e dei sassi che costellavano il tragitto. Era molto stancante muoversi in quel labirinto”.

Anche nei giorni precedenti si era capito che non sarebbe stata una spedizione fortunata. L’agenzia aveva fatto piazzare il campo-base in un punto sbagliato”, aggiunge Romano. “Al nostro arrivo sotto al Kangchenjunga, se non fosse stato per due portatori ventenni che hanno affrontato per tre giorni di seguito tre viaggi al giorno di 6 chilometri, per trasportare i nostri 500/600 chili di materiale fino al campo-base giusto, ci saremmo ritirati subito. Noi non ce l’avremmo fatta, loro alla fine erano distrutti”.

Come se non bastasse, a voler essere un po’ superstiziosi, anche il rito della Puja non è andato bene. “Nives ha faticato parecchio per accenderla, l’incenso si era molto inumidito. Non sono superstizioso, ma onorare i riti locali e avere segnali positivi è sempre incoraggiante. Lì vicino c’è il dio del Kumbhakarna (o Jannu), che è molto cattivo e, sai – aggiunge Romano scoppiando in una risata delle sue – ti lasci anche prendere un po’ da questa roba”.

Inoltre non è stato possibile fare un vero acclimatamento. “La nostra parete era troppo tecnica per fare su e giù, allora abbiamo provato ad andare verso il Kangch fino a 6000/7000 metri ma ci hanno chiesto 3000 dollari in più a testa. Troppi!”

“A Kathmandu, sia all’andata sia al ritorno” aggiunge Nives “abbiamo incontrato Billi Bierling, che gestisce l’Himalayan Database dopo la scomparsa di Elizabeth Hawley. Ci ha raccontato che al campo-base dell’Everest arrivano e ripartono 70 – settanta! – elicotteri al giorno”.

“E’ un campo base attrezzatissimo, ma deserto, perché tutti fanno una puntata in alto e poi tornano giù a Namche Bazaar o addirittura a Kathmandu, per quelle che chiamano le “Oxygen holidays” per poi tornare in quota quando si prospetta la finestra meteo adatta per tentare la cima. E poi ti danno il sacchetto per le deiezioni da portare a valle. Un approccio ecologico ed etico come minimo contraddittorio! La dimostrazione della deriva che ha preso l’alpinismo himalayano, almeno nel suo 90%”.

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