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Sessanta anni fa la tragedia del Vajont

Questa sera in 600 città italiane e del mondo, 2.000 attori metteranno in scena “Vajont S 23”, il nuovo spettacolo di Marco Paolini che ricorda una delle più drammatiche catastrofi del nostro Paese

Nella notte tra il 9 e il 10 ottobre 1963, il telefono squilla nella redazione milanese de “L’Unità”. Il lavoro è finito, il giornale è pronto per andare in stampa. Uno dei grafici risponde, e ascolta arriva un singhiozzo disperato: “Sono Tina Merlin. Non c’è più niente, non c’è più nessuno”. Poi la giornalista si riprende, e detta da Ponte delle Alpi, dov’è stata fermata a un posto di blocco, un articolo che entra nella storia.

“Le notizie giungono incerte, frammentarie, confuse, rimbalzano nella notte da un crocchio all’altro: si parla di decine di morti, qualcuno dice centinaia. Una ventata di terrore è passata, insieme al torrente impietoso, sprigionatosi dalla diga saltata. Venendo verso Ponte delle Alpi ho visto donne coi bambini in braccio fuggire nella notte, lontano dal Piave le cui acque si sono spaventosamente ingrossate”.
“Qualcuno dice che il crollo è stato parziale e che i danni forse sono più limitati di quello che pareva in un primo momento. Ma sono voci, soltanto voci. Quello che tutti dicono è che a Longarone i morti e i feriti sono molti. Duemila persone sorprese nel sonno dalla disastrosa inondazione; solo qualcuno ha udito il rombo minaccioso delle acque che stavano scatenandosi nella loro corsa di morte. La grande maggioranza è stata sorpresa a casa, nel letto. Secondo un testimone oculare Longarone è stata spazzata via per tre quarti della sua estensione”.

Articoli come questo escono su tutti i quotidiani italiani. Li firmano inviati famosi come Giorgio Bocca, Egisto Corradi e Giampaolo Pansa. Ai lettori del “Corriere della Sera” racconta la tragedia Dino Buzzati, giornalista e scrittore nato a Belluno. “Il monte che si è rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e mi rimarrà per sempre”. “Le parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele”.

Anche Clementina Merlin, Tina per gli amici e i lettori, è una giornalista speciale. Nei giorni del Vajont ha 37 anni, quando ne aveva compiuti 18 è diventata una staffetta partigiana. Da prima dell’inaugurazione della diga, nel 1960, denuncia le ingiustizie negli espropri dei terreni, le informazioni incomplete fornite agli amministratori locali. E il pericolo che incombe su Longarone e su altri piccoli centri.

Merlin scrive per un giornale di sinistra, viene ostacolata in tutti i modi, viene denunciata dalla SADE, la società che edifica e gestisce la diga, di “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. Viene assolta. Ma “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe” il libro in cui racconta la tragedia, esce solo nel 1983.
La storia dell’Italia del dopoguerra è scandita da grandi tragedie. Alcune sono naturali, come l’alluvione di Firenze (1966) e i terremoti del Friuli (1976), dell’Irpinia (1980), dell’Aquila (2009) e di Amatrice (2016). In altre, come nel crollo del Ponte Morandi di Genova (2018), pesano gli errori dell’uomo. La catastrofe del Vajont rientra in questa categoria. Raccontarla costringe a fare i conti con un dolore spaventoso, e numeri impressionanti.

La diga del Vajont, alta 261 metri, al momento della costruzione è tra le più alte del mondo. L’invaso artificiale è in Friuli, ai piedi delle Dolomiti d’oltre Piave. A valle la muraglia di cemento si affaccia su Longarone, in Veneto. Già prima dell’inizio dei lavori è stato segnalato il pericolo di frane dal Monte Toc. Ma le industrie di Marghera hanno fame di energia, e la diga si fa.
La tragedia arriva alle 22.39 del 9 ottobre 1963. Dal Monte Toc, a una quota tra i 1200 e i 1400 metri, si staccano 263 milioni di metri cubi di roccia, che piombano nei 710 metri di quota del lago. Si alza un’onda di piena mostruosa, alta tra i 260 e i 270 metri. Una parte dell’acqua, mista a fango, sale sul versante opposto e colpisce l’abitato di Erto.
Il resto distrugge il paese di Casso, scavalca la diga, percorre la forra del torrente Vajont e piomba sulla valle del Piave. Alle 22.43, quattro minuti dopo il distacco, un’onda alta 70 metri cancella Longarone, Castellavazzo e le loro frazioni. L’energia sprigionata dallo schianto è il doppio di quella dell’atomica di Hiroshima. Muoiono 1.910 persone, e 817 di loro non vengono mai identificate. Tra le vittime, 487 hanno meno di 15 anni.

Nelle settimane successive, a scavare nello spettrale greto che ha preso il posto di Longarone sono soprattutto gli alpini. Nelle foto e nei telegiornali in bianco e nero del tempo si vedono i soldati con la penna nera sul cappello recuperare cadaveri, soccorrere i pochi sopravvissuti, aiutare nella ricerca degli oggetti sepolti tra i ruderi delle case.
Al lavoro dei soccorritori segue una lunga agonia giudiziaria. Il processo viene spostato da Belluno a L’Aquila, difficile da raggiungere per i familiari delle vittime. La sentenza arriva nel 1971, due settimane prima della prescrizione.
Molti responsabili sono deceduti o non più perseguibili. Uno dei due condannati passa qualche mese in prigione, l’altro non sconta nemmeno un giorno. Per risarcire chi ha perso i propri cari vengono decise cifre bassissime. Un padre di famiglia “vale” 3 milioni di lire, una madre 2,5 milioni, un figlio 600 mila lire. Nella valuta di oggi sono 1.500, 1.250 e 300 euro. Molti destinatari rifiutano il denaro.
Gli anni passano, Longarone viene ricostruita, nella frazione di Fortogna nasce il commovente Cimitero delle Vittime del Vajont. Il lago non viene più riempito ma la diga resta lì, come un tragico e gigantesco monumento. Chi la percorre con le visite guidate, o la osserva dalla strada che collega Longarone a Cimolais, comprende la dimensione del dramma.

La memoria del Vajont torna davanti all’opinione pubblica 34 anni dopo la tragedia. Il 9 ottobre 1997, l’attore bellunese Marco Paolini recita il monologo “Vajont. Un’orazione civile” su un palcoscenico accanto alla parete interna della diga, dove i detriti della frana lasciano scoperti solo 40 metri della muraglia. La regia è di Gabriele Vacis, lo spettacolo viene trasmesso in diretta su Rai Due.
Nello stesso anno esce “Il volo della martora”, che porta al successo Mauro Corona, scultore in legno e guida alpina, che diventa in pochi mesi famoso. Molti tra i suoi libri successivi, da “Storie del bosco antico” a “Vajont. Quelli del dopo” contengono riferimenti alla tragedia. Nel 2001 arriva nelle sale “Vajont. La diga del disonore”, un film del regista lombardo Renzo Martinelli. Il ruolo di Tina Merlin è interpretato da Laura Morante.

Oggi, sessant’anni dopo la strage, due momenti pubblici ricorderanno la tragedia del Vajont. Alle 11 il presidente Sergio Mattarella visiterà il cimitero di Fortogna, e poi salirà sul coronamento della diga. Incontrerà gli scampati al massacro, i familiari delle vittime e i soccorritori del 1963 che sono ancora in vita.
“Vorremmo che la gestione del cimitero passi dal Comune allo Stato. Venti anni fa il presidente Ciampi l’ha reso monumento nazionale, oggi è un ossario civile, curato da noi volontari” ha dichiarato a “Repubblica” Renato Migotti, presidente dell’associazione dei sopravvissuti del Vajont.

Stasera, in 600 città italiane e del mondo, 2.000 attori metteranno in scena “Vajont S 23”, il nuovo spettacolo di Marco Paolini. Sono coinvolti 135 teatri, 94 scuole, 50 gruppi di teatro amatoriale, e poi famiglie, gruppi di amici e associazioni. Cuore dell’evento sarà il Piccolo Strehler di Milano, dove Paolini reciterà insieme ad attori famosi. Al Brancaccio di Roma ci saranno Neri Marcorè e Luca Zingaretti. Alle 22.39, l’ora della frana, gli spettacoli si fermeranno per un minuto di silenzio.

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