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Il sogno spezzato di Elisabeth Lardschneider e il record di Kristin Harila. Riflessioni sul tema

La tragedia della giovane gardenese e l’exploit dell’atleta scandinava, a distanza di poche ore l’una dall’altra, hanno portato in primo piano due modi lontanissimi tra loro di intendere la montagna. Il pensiero del direttore di Meridiani Montagne

La spedizione che conquistò l’Everest nel 1953 durò (dalla data di partenza alla vetta) 107 giorni. L’anno dopo gli italiani impiegarono 95 giorni a mettere piede sul K2. Poi le cose si sono un tantino velocizzate. L’agenzia di viaggi estremi Seven Summit Treks ad esempio ha in catalogo la cresta sudest dell’Everest in 45 giorni, spostamenti e acclimatamento compresi, per scalatori non professionisti (e disposti a sborsare 130.000 dollari). In media, le spedizioni ai giganti himalayani durano un paio di mesi, spesso meno, tempi che possono essere notevolmente accorciati con l’assistenza dell’elicottero, per ora vietato in Nepal ma chissà per quanto.

Parallelamente al turismo degli 8000, con i suoi tempi standard, si è mosso il mondo professionale dell’alpinismo himalayano, che in mancanza di nuove sfide ha iniziato a misurarsi sulla velocità: sempre parlando dell’Everest, è ancora valido il record del 2003 di Lapka Gelu Sherpa (10 ore 56’ da CB a vetta), insidiato poi da altri tentativi meno documentati.

E poiché non c’è limite alla fantasia, i supermen/superwomen dell’altissima quota si misurano oggi sull’intera collezione dei 14 Ottomila. Prima Nirmal Purja, in 189 giorni. Poi, è la notizia del giorno, la norvegese Kristin Harila, in 92 giorni.

Novantadue giorni per 14 Ottomila, contro i 107 per il solo Everest di 70 anni fa. In mezzo, ci sta tutta la storia dell’alpinismo competitivo. Gli enchaînements di Cristophe Profit. Le corse di Kilian Jornet. L’assassinio dell’impossibile. E un’insopprimibile sensazione di dèja-vu, di inutilità, di noia.

Quasi insieme al successo della Harila, è arrivato in cronaca l’annuncio tristissimo dell’incidente a Elisabeth Lardschneider, precipitata da una parete dello Zanskar. Elisabeth, aspirante Catores di Ortisei, campionessa di arrampicata, futura guida alpina, non era in cerca di record, e la sua spedizione, tutta di ragazzi altoatesini, era ben lontana dai riflettori.  Stava inseguendo il sogno più moderno e puro dell’alpinismo contemporaneo, quello che porta l’alta difficoltà su pareti vergini a 6/7000 metri di quota, dalle Trango Towers all’Ogre, fino alle big wall del Ladakh.

Sarà per la suggestiva contemporaneità delle due notizie; sarà perché si tratta di due giovani donne, e due visioni contrapposte della montagna. Ma da qualche giorno penso spesso a Kristin e a Elisabeth, ai loro destini tanto diversi, e al futuro alpinistico che ci aspetta. Il cuore di noi vecchi alpinisti, che ancora si emozionano sulle pagine di Bonatti o Desmaison, batte più forte per l’avventura vera, per la terra incognita, per i fair means. Mentre gli eccessi mediatici, gli sponsor invadenti, le imprese da Guinness ci lasciano tiepidi. Perché l’alpinismo, per sopravvivere, non ha bisogno di cronometri, ma di ingredienti ben più impalpabili: immaginazione, passione… magia.

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