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Buon compleanno Everest! La festa a Londra per i 70 anni dall’impresa

L'Everest rimane un simbolo amato dell'Impero britannico. La Royal Geographical Society di Londra ha ospitato un evento celebrativo per commemorare il 70º anniversario dell'epico arrivo in vetta di Edmund Hillary e Tenzing Norgay nel 1953

Dicono che l’Impero britannico sia scomparso, e a guardare un mappamondo può sembrare davvero così. Ma è soltanto un’apparenza. La Gran Bretagna imperiale c’è ancora, e tra i suoi simboli più amati c’è l’Everest, la montagna più alta della Terra, che porta il nome di un topografo nato in Galles e che ha dedicato la sua vita all’India.

A dimostrarlo, ancora una volta, è stata la celebrazione del 13 giugno alla Royal Geographical Society di Londra, tra le residenze reali di Kensington e il magnifico verde di Hyde Park. Un evento promosso dall’Himalayan Trust UK e dalla Mount Everest Foundation, dedicato ai 70 anni dallo storico arrivo in vetta di Edmund Hillary e Tenzing Norgay, il 29 maggio del 1953. A spiegare le due settimane di ritardo, e scusate se è poco, la necessità di far arrivare fino a Londra due degli speaker, che il 29 maggio erano ancora impegnati sull’Everest.

L’Everest e il richiamo dell’Impero

Sottolinea il ruolo dell’Impero la scelta della sede dell’evento, l’Ondaatje Theatre della RGS, a due passi dai quadri e dai busti che ricordano i protagonisti dell’esplorazione britannica come Scott e Shackleton, Livingstone e Stanley, gli uomini che hanno cercato le sorgenti del Nilo e il capitano James Cook. Una galleria nella quale campeggia anche un ritratto di John Hunt, il leader della squadra del 1953.

L’Everest degli alpinisti, lo sappiamo, è stato inglese soprattutto nei primi anni della sua storia, con le sette spedizioni dal versante del Tibet compiute tra il 1921 e il 1938. In due di queste sono stati superati gli 8500 metri di quota, in quella del 1924 George Mallory e Andrew Irvine sono scomparsi mentre salivano in direzione della cima, lasciando spazio per un mistero romantico e famoso.

L’Everest diventa internazionale

Nel dopoguerra, l’Union Jack britannico ha sventolato sulla scoperta della via di salita dal Nepal nel 1951, e sulla vittoria di Tenzing e Hillary nel 1953. Tra le due, gli svizzeri hanno provato a rompere le uova nel paniere agli inglesi, ma Raymond Lambert e Tenzing si sono fermati a 8600 metri. Nel 1975, è stata Made in UK anche la vittoria sulla gigantesca parete Sud-ovest, ideata da Chris Bonington e completata da Dougal Haston e Doug Scott. A quel punto, però, le avventure e le tragedie sull’Everest riguardavano alpinisti di ogni parte del mondo.

Per gli inglesi, celebrare la storia dell’Everest da soli è naturale, e non implica uno sgarbo a qualcun altro. Il 13 giugno a Londra non erano stati invitati presidenti di Club alpini o giornalisti stranieri (chi scrive si è organizzato da solo, ed è felice di averlo fatto). C’è stato spazio per il Nepal, per l’India, per i “cugini” della Nuova Zelanda. La storia dell’Everest, e sarebbe un sacrilegio pensare al contrario, è stata raccontata rispettando le imprese di tutti.

Stephen Venables, nel suo splendido intervento dedicato alla storia del Big E nel Novecento, ha reso omaggio alla Cresta Ovest degli americani (1963), alla salita senza ossigeno di Messner e Habeler (1978) e persino alle due spedizioni cinesi (1960 e 1975) contestate negli Stati Uniti e in Europa per lo sventolìo del “libretto rosso” di Mao. Quando ha ricordato l’ascensione della parete di Kangshung (1988), Venables ha ammesso di essere stato aiutato a entrare nel team USA diretto da Ed Webster da un intervento dell’anziano ma ancora potente John Hunt.

È inglese Kenton Cool, guida alpina che ha all’attivo 17 salite dell’Everest con clienti, record per un non-Sherpa, e la Triple Crown, la salita in successione di Nuptse, Lhotse ed Everest compiuta nel 2013 insieme al basco Alex Txikon. Cool, senza peli sulla lingua, ha parlato di uso e abuso degli elicotteri, dell’immondizia al Colle Sud e dintorni e delle impressionanti e pericolose code ad alta quota.

Per fortuna, però” ha concluso “ormai l’80% delle spedizioni è in mano agli Sherpa. L’Everest è la loro montagna, dovranno essere loro a preoccuparsi di come gestirla, e di come lasciarla alle generazioni future. In Europa e in America è accaduto lo stesso negli scorsi decenni, ho fiducia nel Nepal e nel futuro di quella meravigliosa montagna”.

Le storie del Regno Unito, del Nepal e dell’India si sono intrecciate nell’intervento di Jamling Tenzing, figlio di Tenzing Norgay, che ha salito a sua volta l’Everest trent’anni fa, e ha sottolineato il ruolo del padre nell’insegnare a generazioni di giovani dell’Asia ad avere fiducia nel futuro.

Nuove conquiste: All this, and Climate Change too!”

Bellissimo l’intervento di Hari Budha Magar, nepalese ed ex-militare dei Gurkha, che è stato ferito da una mina antiuomo in Afghanistan, e che qualche settimana fa è diventato il primo amputato alle due gambe e al disopra del ginocchio a raggiungere la cima. Hari ha ricordato la battaglia davanti alla Corte Suprema di Kathmandu per far togliere il divieto per non vedenti e amputati, che ha permesso di coronare il suo sogno anche ad altri, tra i quali l’italiano Andrea Lanfri.

Hari ha parlato dello sforzo per trovare i fondi, e per costruire delle protesi che in futuro potranno servire anche ad altri. E ha concluso con parole seguite da un’ovazione. La frase “All this, and Climate Change too!”, “Tutto questo, e anche il cambiamento climatico!” ha mostrato il suo impegno per l’ambiente, ma ha ricordato il celeberrimo “All this, and Everest too!”, “Tutto questo e anche l’Everest!” usato da vari giornali dopo l’incoronazione di Elisabetta II con l’annuncio che la cima era stata raggiunta.

La famiglia reale e il legame con l’Everest

A rendere unico il rapporto tra la Gran Bretagna e l’Everest, d’altronde, è anche il ruolo della famiglia reale. A ricordarlo, nella serata del 13 giugno, è stato re Carlo III, in un messaggio letto da un rappresentante dell’Himalayan Trust, accompagnato da una grande foto del sovrano e accolto con un applauso scrosciante dalla platea. “Impegni di Stato mi impediscono di essere con voi stasera, ma ricordo che per mia madre e mio padre l’Everest è sempre stato importante”.

È toccato a Peter Hillary, un altro figlio illustre, ricordare la partecipazione di Elisabetta II e Filippo, dieci anni fa, alla serata per celebrare i 60 anni dell’impresa. “Si è sentita una porta che si apriva, poi una voce ha detto ‘tutti in piedi!’. La regina e il principe consorte sono entrati, sono saliti sul palco, hanno ascoltato sorridendo”.

Quando ho detto che mio padre, morto da pochi anni, ci stava probabilmente ascoltando da qualche parte nella sala, il principe Filippo mi ha guardato e ha annuito. Stasera mi piace pensare che lui ed Elisabetta siano ancora qui con noi”, ha concluso il figlio dell’apicultore di Auckland che nel 1953 è diventato Sir Edmund. Non c’è niente da dire, l’Impero di Cook e di Younghusband c’è ancora. E l’Everest resta e resterà il suo simbolo.

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