Montagna.TV

La “via dei diamanti”. Il racconto della salita al Kabru IV di Romano Benet e Nives Meroi

I due alpinisti tarvisiani ci raccontano la loro ultima straordinaria spedizione in Himalaya

Fusine in Val Romana (Ud), giugno 2023

A pochi giorni dal loro rientro in Italia incontro Nives Meroi e Romano Benet nell’ampia radura che circonda la loro bella casa vicina al confine con la Slovenia, per raccogliere il racconto dell’ultima spedizione in Himalaya al Kabru IV (7.318m) cima meridionale di una articolata cresta di confine tra Nepal e Sikkim, a sud della catena del Kangchenjunga. La cordata più alta del mondo ha ottenuto il risultato in squadra con altri due alpinisti, lo slovacco Peter Hamor e lo sloveno Jan Bojan, guadagnando la cima dopo una lunga serie di tentativi funestati dal maltempo, nell’unica finestra meteorologicamente favorevole. Il risultato è una nuova via, Diamonds on the soles of the shoes, il cui nome richiama il titolo di una nota canzone di Paul Simon e si ispira al tracciato costellato di ghiaccio vivo e a una sorpresa incontrata durante la discesa. La salita è stata compiuta nello stile pulito che connota da sempre la tenace coppia tarvisiana, senza portatori e senza ossigeno supplementare, stile condiviso dall’amico alpinista Peter Hamor, mentre lo sloveno Jan Bojan era alla sua prima esperienza extraeuropea. Dal campo base la squadra ha raggiunto la cima portando le tende in spalla e con tre bivacchi intermedi. In discesa hanno dovuto affrontare un imprevisto bivacco notturno all’interno di una grotta di ghiaccio e qualche spiacevole incidente, per fortuna dalle conseguenze non gravi. Il rientro alle tende collocate a 6.200 metri è avvenuto a 24 ore dalla partenza.

Come è nata la decisione di salire su questa cima?

Romano La guardavo e mi piaceva. Negli anni siamo passati sotto il Kabru quattro volte, sempre al ritorno dal Kangchenjunga (la montagna dove Romano ha dovuto fermarsi nel 2009 per i primi segni di una malattia e l’inizio di un lungo percorso di guarigione, poi ritentata nel 2012 e infine salita nel 2014, ndr). Ho raccolto informazioni e verificato che era stato tentato nel 2004 da una spedizione serba lungo quella che allora sembrava la via più logica di salita, però ebbero un incidente e si ritirarono. La vetta principale del Kabru è stata salita da una spedizione militare indiana dal versante del Sikkim, ma ignoro se da lì abbiano traversato fino alla cima del Kabru IV.

Quindi una via nuova su cima forse inviolata. Avevate già tentato nel 2009 la salita al Kangbachen (7902) in questa zona.

Nives Sì, avevamo già salito metà della via ma da quel punto in poi la parete era intagliata da una serie di crepacci paralleli come le onde di un oceano. Sarebbe stato necessario l’uso di scalette, ma ovviamente non le avevamo e così siamo tornati indietro.

Romano Per ritentare il Kangbachen ci sarebbero voluti altri due giorni di spedizione con i portatori e costi ulteriori e così ci siamo fermati prima (il Kabru è tra i settemila, il più meridionale, ndr).

E la squadra come è nata?

Nives Beni, la responsabile della nostra agenzia di riferimento a Kathmandhu, sapeva che anche Peter puntava alla stessa cima e così ha fatto in un certo senso da Cupido, facendoci unire le forze.

Romano In realtà con Peter avevamo già tentato insieme il Kangchenjunga nel 2012, l’anno in cui abbiamo sbagliato cima. Ci conosciamo e condividiamo lo stesso tipo di alpinismo: sapevamo di andare sul sicuro con lui. Anche con Jan Bojan, che è di Rateče (Slovenia, a due passi da casa dei tarvisiani, ndr), ci conosciamo: abbiamo condiviso diverse salite di ghiaccio qui nelle Giulie. Era alla sua prima esperienza e in una volta sola le ha provate tutte, tutte le gioie e i dolori dell’alpinismo in Himalaya.

Quanto è lunga la via di salita?

Romano Sono 2700 metri di dislivello da risalire dal campo base, si parte bassi, dai quattromila metri. Normalmente per gli Ottomila si parte da più di 5000 di quota.

Non è stato semplice trovare la via, vero?

Romano No. Nevicava ogni giorno e se non nevicava tirava vento forte. Mi ero quasi convinto che saremmo tornati a casa senza risultati. Ogni volta bisognava rifare la traccia nella neve fonda e battere da zero.

Nives Inizialmente abbiamo provato a seguire la via dei serbi, però l’attacco con la cascata di ghiaccio iniziale non esisteva più. Le rocce erano scoperte e con scariche di sassi continue: una vera roulette russa.

Romano C’era inoltre da oltrepassare una grande area di crepacci e seracchi, con due seraccate separate, una sorta di Icefall come sull’Everest. Un giorno siamo saliti sulla montagna di fronte e da lì siamo riusciti a intuire una possibilità di salita a sinistra.
Quando sei lì, in mezzo ai muri di seracchi, non sai, dopo averne superato uno, quanti altri ne troverai e se alti appena una manciata oppure decine di metri, se verticali o strapiombanti, se di neve o ghiaccio verde… e se riuscirai a passare o no.

O magari ti imbatti in crepacci difficili o impossibili da oltrepassare. Perché il problema non è la profondità – quella fa solo impressione – ma quanto sono “spalancati”: se basta un salto, se devi percorrerne i bordi in cerca di un ponte di neve che dia almeno un minimo di sicurezza, o se è necessario ricorrere alle scalette, che ovviamente non usiamo. In questa via i due terzi della salita sono dentro la seraccata e gli ultimi mille metri si salgono “all’aperto”.

Quando sei lì, in mezzo ai muri di seracchi, non sai, dopo averne superato uno, quanti altri ne troverai e se alti appena una manciata oppure decine di metri, se verticali o strapiombanti, se di neve o ghiaccio verde… e se riuscirai a passare o no.

Romano Benet


Nives
Peter e Romano insieme hanno unito il loro fiuto e il loro senso di orientamento e han trovato la via in quel labirinto.

Quando è stato deciso il giorno della salita?

Romano Peter aveva contatto costante con un meteorologo portoghese di riferimento che ci seguiva e ha previsto l’unica giornata di tempo stabile. Era l’unica finestra ed è stata indovinata. Abbiamo provato ed è andata bene. Bastava un errore di previsione di poche ore e non ce l’avremmo fatta.

Al di sopra della seraccata come era la via?

Romano Tecnicamente più difficile della parte bassa, ma siamo andati su dritti verso l’obiettivo. Dopotutto siamo alpinisti…

Nives C’era parecchio ghiaccio brutto e non è stata una passeggiata. Come sempre poi, gli zaini erano pesantissimi con dentro tutto il materiale per i bivacchi e per la scalata. Ma è così quando il rapporto con la montagna non è “virtuale”, quando è ancora fisico, diretto e senza scorciatoie.

Cosa si vede dalla cima?

Romano Dalla cima vedi bene a nord est il Kangchenjunga e altri settemila poi verso sud l’India e Darjeeleng mentre a nord Makalu, Everest, Lhotse e a ovest altre montagne sconosciute.

In discesa avete avuto imprevisti?

Romano A noi alla prima doppia si è incastrata la corda e così le successive sono state sempre calate da dieci metri, tutte su abalakov. E il ghiaccio era brutto, duro. Abbiamo iniziato a scendere alle sei e alle sette è venuto buio. In un certo senso è anche meglio scendere al buio, così non ti fai condizionare dall’esposizione. Peter e Jan erano più sotto di noi, ovviamente scendevano più veloci con la corda intera.

Avete percorso sei ore in discesa al buio finché avete dovuto affrontare un bivacco.

Nives Ad un certo punto durante le nostre calate in doppia vedevamo le luci delle frontali di Peter e Jan ferme. Credevamo, invidiandoli parecchio, fossero già arrivati alle tende, ma quando ci siamo avvicinati ci siamo resi conto che c’era una sorpresa.

Romano Ormai era l’una di notte e li abbiamo raggiunti. Si erano fermati all’interno di un seracco che ospitava una grotta di circa sette otto metri di altezza e cinquanta di profondità. Ho pensato subito che se si erano fermati lì c’era qualche rogna. Sotto di noi c’erano dei salti, ma al buio non si capiva quanto profondi potessero essere e nemmeno potevamo vedere le tende e sapere che direzione prendere e così Peter ha deciso di fermarsi. La grotta era tutta ammantata di cristalli di ghiaccio che brillavano alla luce delle frontali. Uno spettacolo: sembrava una scena del film La storia Infinita. Ero talmente stanco che non ho fatto neanche una foto di quei cristalli purtroppo, anche se avevo la macchina al collo. Bisognava far fronte alla notte da passare, fermi al freddo.

Tralasciando la paura di dover affrontare il nostro primo bivacco fuori in Himalaya, la grotta era davvero bellissima, con concrezioni di ghiaccio e stalattiti che brillavano.

Exit mobile version