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Esiste un alpinismo sostenibile? Intervista a Hervé Barmasse

Ospite all'ultimo Trento Film Festival, ci ha parlato di ascensioni passate, progetti per il futuro e sostenibilità

Si può dire che un alpinista è sulla cresta dell’onda? L’espressione “marina” può sembrare fuori luogo, ma è d’obbligo per definire Hervé Barmasse, un uomo legato al Cervino, alpinista, guida alpina e figlio d’arte (il padre Marco ha compiuto ascensioni importanti sulla “Gran Becca”) che il grande pubblico italiano, e non solo, conosce grazie alle sue apparizioni televisive e ai suoi libri.
Negli ultimi tempi Hervé ha cambiato sponsor passando da The North Face a Montura. Qualche settimana fa, al Festival di Trento, è stato protagonista del dibattito The Future Game sull’alpinismo sostenibile (con Luca Castaldini) e della serata Tra ghiaccio e neve, dove l’alpinismo si fa epico, coordinata da Fabrizio Goria e alla quale hanno partecipato anche Alex Txikon, Chhepal Sherpa e David Göttler, compagno di avventura di Hervé sullo Shishapangma.
In queste giornate segnate dai numeri-record e dalle vittime sulla via nepalese dell’Everest e dall’alluvione tra Emilia e Romagna, abbiamo parlato con Hervé di progetti di comunicazione, di ascensioni passate e future, dell’evoluzione dell’alpinismo himalayano e dell’effetto del cambiamento climatico sulle Alpi.

In questi giorni sull’Everest c’è la folla, il tuo alpinismo himalayano è sempre stato molto diverso. Che progetti hai per il futuro?
Quando mi sono avvicinato all’alta quota l’ho fatto seguendo la direzione che le generazioni precedenti alla mia avevano intrapreso: salite in stile alpino, massimo tre scalatori, completa autonomia. Ci era stato lasciato in eredità un messaggio importante che condivido sia in termini sportivi che etici. Un modo di scalare le montagne più sostenibile di altri e molto più avventuroso. Per questo motivo le mie spedizioni in Karakorum e in Himalaya sono state fatte tutte in stile alpino. Riguardo al mio futuro mi basterebbero due o tre ascensioni con questo approccio per ritenermi appagato. Tra quelle che immagino ci sarebbe anche la salita di un 8000 d’inverno in stile alpino.

Nel 2017, prima del monsone, hai affrontato la parete Sud dello Shishapangma insieme al bavarese David Göttler. Era stile alpino? E siete arrivati o no in cima?
Ovviamente era stile alpino. Con David siamo saliti senza corde fisse, senza Sherpa d’alta quota e senza campi allestiti in precedenza sino a quota 8024 metri. Quando siamo usciti dalla parete Sud abbiamo affrontato il falsopiano che conduce alla cresta sommitale e tre metri sotto la cima, che misura 8027 metri, ci siamo fermati per l’evidente pericolo del distacco della cornice che porta in vetta. Abbiamo scelto con saggezza l’opzione migliore, la vita.

Era una scelta obbligata? Che ne pensi oggi?
Oggi aggiungerei che, nonostante l’alta quota, siamo riusciti a rimanere lucidi e a prendere la decisione giusta. In discesa ci siamo fermati durante la notte a riposare alcune ore nella tendina che ci eravamo portati con un solo sacco piuma. Il mattino dopo eravamo nuovamente al campo base. La nostra salita è stata riconosciuta ufficialmente dalle autorità cinesi e al Trento Film Festival è arrivato pure l’endorsement di Messner. Ma quei tre metri, pur sapendo che non tolgono o aggiungono nulla a quanto abbiamo fatto, per fortuna non li abbiamo percorsi.

Hai in progetto un tentativo in stile alpino a un 8000 nel prossimo inverno?
No, mi prenderò un anno di pausa. Di Himalaya riparleremo tra un po’. Nel frattempo, guarderò nuovamente alle nostre montagne. 

Torniamo all’Everest, e allo stile con cui viene affrontato e salito oggi.
Non critico chi affronta gli 8000 in stile classico, con campi e corde fisse. Io pongo l’accento su cosa lo stile himalayano comporti. Le conseguenze. Scalare le montagne con lo stile degli anni ‘50 e una tecnologia del 2023 ha portato l’alpinismo di massa là dove prima riuscivano in pochi.

Secondo te tutto questo è giusto o sbagliato?
Il dibattito dovrebbe prendere in considerazione molti aspetti. Da un lato penso sia prematuro chiedere a Sherpa e portatori di rinunciare a un business così importante. Dall’altro, guardando l’immondizia e i grovigli di corde fisse, un cambiamento delle abitudini è necessario. L’esempio lo devono portare gli alpinisti professionisti, le guide alpine e i soci del Club Alpino Italiano che sono gli ambasciatori della montagna. A questa lista aggiungerei le aziende outdoor che parlano di sostenibilità, specialmente quelle legate al mondo della montagna. Sarebbe l’esempio più importante.

Tu sei una guida alpina, cosa pensi degli Sherpa che oggi fanno il tuo stesso lavoro sull’Everest?
Gli Sherpa sono bravissimi e garantiscono un servizio prezioso, unico. A volte mi chiedo come facciano. Sono incredibili. Mi dispiace però che rischino più del dovuto esponendosi in prima persona ai tanti pericoli oggettivi degli 8000 per soddisfare le esigenze dei loro clienti. Purtroppo, molti di loro, a differenza delle guide alpine occidentali, non possono ripiegare su altre gite perché la domanda dei turisti si concentra quasi esclusivamente su quelle 14 montagne. L’alpinismo d’alta quota e il business legato a questa attività ha bisogno di un equilibrio tra sostenibilità ambientale, economica e sociale. Trovare l’equità oggi è l’impresa più difficile, la montagna più alta da scalare.

Ci sono degli esempi positivi in questo senso?
Sulle vette un po’ più basse, quelle di 6000 e 7000 metri, continuano ad arrivare ottimi esempi e non riguardano solamente le ascensioni di alpinisti occidentali. Nuove generazioni di scalatori nepalesi iniziano a strizzare l’occhio a questo tipo di scalate leggere, in stile alpino. Ci sono stati già degli ottimi esempi. Prima o poi arriverà un ragazzo dal talento innato, tecnicamente preparato che stravolgerà le regole. Quel ragazzo sarà un nepalese.

Nella torrida estate del 2022, per limitare i pericoli, le guide italiane, francesi e svizzere hanno dovuto rinunciare alle vie normali del Cervino e del Monte Bianco. È servito a qualcosa? E cosa prevedi per quest’anno?
Anche nelle migliori condizioni il pericolo zero non esiste. Nessuno di noi può garantire una sicurezza completa, e se la montagna subisce una metamorfosi repentina dovuta alle alte temperature la rinuncia a una salita è la scelta più saggia. I cambiamenti climatici sono evidenti; crolli di roccia e ghiaccio, anche di grandi proporzioni sono difficilmente prevedibili e stanno cambiando il nostro modo di scalare le montagne. Ma, per ora, le conseguenze che dovremo affrontare nei prossimi anni, le possiamo solo immaginare.

E come alpinista? Quanto pesa il cambiamento climatico sulle tue scelte?
Sulle Alpi occidentali le salite interessanti non si fanno più in estate, ma nella stagione invernale che, seppur mite, garantisce una minor esposizione ai crolli e ad altri pericoli oggettivi. Le pareti nord dei 4000 che prima affrontavi sino alla fine del mese di luglio oggi sono spesso impraticabili o comunque troppo pericolose. Ma attenzione, anche sulle vie più facili c’è da muoversi con molta cautela. Ad esempio, se hai intenzione di scalare il Dente del Gigante in piena estate, i pericoli maggiori li incontrerai su terreno facile, sotto la “Gengiva”, non in parete.

Vent’anni fa una frana ha cancellato la Cheminée, uno dei passaggi più noti della normale italiana del Cervino, e ha reso instabile il terrazzo dove sorge la Capanna Carrel. Com’è oggi la situazione sulla Cresta del Leone, che hai raccontato due anni fa in un film?
Il Cervino dell’ultimo ventennio è cambiato parecchio. In estate si spoglia di tutta la neve e il caldo torrido penetra in profondità sciogliendo il permafrost, il collante che tiene assieme le rocce. Ma l’instabilità e i crolli non riguardano solo il Cervino, direi tutte le montagne esposte a questo fenomeno. Se si escludono alcune giornate, la situazione della Cresta del Leone è buona.

Per evitare incidenti può servire chiudere le montagne?
No, chiudere le montagne è sbagliato. Forse può essere utile un sistema informativo con una scala di colori dal verde al rosso, simile a quella che si usa per il pericolo di valanghe, ma la libertà di scelta degli alpinisti resta fondamentale. Si deve imparare ad usare la testa e poi le gambe.

Oltre a essere un alpinista e una guida, tu sei un comunicatore di montagne. Che progetti hai in questo campo?
Il prossimo appuntamento è per il 22 giugno. Sarà una mostra al Museo della Montagna di Torino ispirata al mio ultimo libro “Cervino la montagna leggendaria”. L’inaugurazione prevede uno spettacolo serale che mi vedrà impegnato con la band L’Orage. Una festa della montagna e ovviamente siete tutti invitati. La mostra sarà aperta al pubblico sino a gennaio 2024 e al suo interno ci sarà spazio per fotografie, video e oggetti inediti. Si vedrà la Gran Becca da una nuova prospettiva.

Da qualche mese il Plateau Rosà, dove si arriva in funivia da Cervinia, è collegato da un nuovo impianto al Klein Matterhorn, il Piccolo Cervino, 3883 metri. Cosa pensi di questo intervento?
Personalmente non costruirei nuovi impianti di risalita, ma questo renderà possibile un collegamento tra Svizzera e Italia senza l’utilizzo dell’auto, più rapido (da Valtournenche a Zermatt si impiegano circa 5 ore) e per certi versi più vantaggioso. Inoltre, grazie alla rete ferroviaria svizzera sarà possibile raggiungere molte località oltralpe. Poi, come in tutte le cose, i benefici o gli svantaggi li conosceremo più avanti.

A pochi chilometri da lì, tra la Valtournenche e la Val d’Ayas, sono in progetto nuovi impianti nel Vallone delle Cime Bianche, per collegare le piste di Cervinia e di Zermatt con quelle del Monterosa Ski. Cosa ne pensi?
È da quando sono nato che sento parlare di questo nuovo impianto. Il Vallone delle Cime Bianche è tutelato dall’Unione Europea. È molto difficile che lo stato attuale delle cose cambi.

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2 Commenti

  1. il vero alpinismo sostenibile e’ quello alla Herman Buhl, che partiva in bicicletta da casa sua facendosi centinaia di Km in bici per fare una cima. Gia’ il fatto di prendere un’auto per avvicinarsi alla cima – non parliamo degli aerei – fa dell’alpinismo uno sport distruttivo e consumistico.

  2. Trovo molto condivisibile e pregevole la posizione nettamente contraria alla chiusura delle montagne per ragioni di pericolosità lasciando all’autodeterminazione degli alpinisti la possibilità di scegliere. Sul trito discorso dei 3 metri di dislivello lascerei correre perchè è un tema già affrontato. Nel caso specifico ai tre metri di dislivello bisognerebbe aggiungere anche la distanza orizzontale che li separava dalla vetta. Se uno sale il Breithorn centrale che è 4160 mt. non può dire che non ha salito il Breithorn Occidentale per 5 metri essendo alto 4165. C’è tutta la lunga cresta che li collega ancora da fare.
    Tuttavia aspetto con curiosità le sue future iniziative perchè hanno sempre un interesse alpinistico rilevante con elevate possibilità di fallimento.

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