Storia dell'alpinismo

Come è nato il rampone che ha scritto la storia dell’alpinismo, dall’Everest al K2

“L’equipaggiamento usato nell’ascensione fu: ramponi Grivel super leggeri da 10 punte, corda di 45 m di canapa tipo Fuscher, 15 chiodi da ghiaccio tubolari” Questo quanto riportato in calce alla narrazione della prima ascensione del Cho Oyu, realizzata il 19 ottobre del 1954 dagli austriaci Herbert Tichy e Josef Jochler insieme allo sherpa Pasang Dawa Lama. Pochi ma essenziali materiali, quelli che gli permisero di tornare a casa con una realizzazione di successo, giusto pochi mesi dopo l’ascensione italiana sul K2.

Spiccano, tra le attrezzature, i ramponi super leggeri da 10 punte. Attrezzi da appena 360 grammi al paio (oggi i ramponi più leggeri pesano almeno 600 grammi al paio) grandi protagonisti delle ascensioni himalayane più importanti, arrivando sulla vetta di Everest, K2 e Kangchenjunga, ma non solo. Negli anni Cinquanta molte delle spedizioni che si mossero alle quote più alte misero “in valigia” almeno un paio di questi ramponi da peso piuma. Fino a pochi anni prima (prima della seconda guerra mondiale, per intenderci) gli scalatori guardavano molto meno al peso dell’attrezzatura. Solo dopo la guerra si arrivò alla necessità di una maggiore specializzazione.

Da una rotaia al rampone

Gli alpinisti di fine Ottocento imprecavano molto più di quelli moderni di fronte a un ripido pendio ghiacciato. Per loro significava spendere energie e tempo, prezioso in montagna, per gradinare a colpi di picca il ghiaccio. Ogni passo era una piccola conquista. Anche per questo il rampone venne accolto nel mondo alpinistico come un grandissimo entusiasmo: quelle punte in acciaio ancorate sotto lo scarpone permisero di velocizzare la salita e di affrontare con relativa semplicità anche i pendii più verticali.

Ma facciamo un passo indietro, a quando nel 1909 un barbuto e poco elegante inglese fece la sua comparsa a Courmayeur. Si mosse tra le vie del piccolo centro ai piedi del Monte Bianco alla ricerca del fabbro, Henry Grivel. Il suo nome era Oscar Eckenstein, ingegnere ferroviario figlio di un ebreo prussiano fuggito a Londra nella metà dell’Ottocento per evitare ripercussioni dopo i moti tedeschi del 1848. Ottimo alpinista, pioniere del boulder e leader della spedizione inglese al K2 del 1902, si presentò dal fabbro con un’idea supportata da chiari disegni progettuali. La sua idea di rampone prendeva forma dalle antiche grappette a 2 o 4 punte utilizzate da boscaioli, contadini e cercatori di cristalli per non scivolare sull’erba.

Quando l’ingegnere presentò la sua idea a Grivel questo lo guardò con un certo scetticismo, ma alla fine decise di assecondare l’idea, grazie anche alla garanzia di un pagamento da parte di Eckenstein. Il fabbro iniziò la sua lavorazione da una vecchia rotaia che modellò a caldo e il risultato fu un attrezzo di quasi un chilo e mezzo, solido e funzionale. Capace di garantire la giusta presa sul ghiaccio e una progressione molto più rapida. Fu un modello così indovinato che sarebbe rimasto valido fino ai giorni nostri. A dimostrazione l’evoluzione del rampone, che non ha subito rilevanti modifiche strutturali per oltre duecento anni. Due i principali cambiamenti: la diminuzione del peso, grazie soprattutto all’utilizzo di nuove leghe, e l’aggiunta di due punte frontali, con lo sviluppo delle odierne tecniche di salita, grazie a un’intuizione di Laurent, primo figlio di Henry.

Superleggeri

Nei primi anni Trenta fecero visita alla fucina Grivel gli Alpini della Scuola militare alpina di Aosta. La loro richiesta fu quella di un rampone leggero e pratico, da utilizzare durante la prima edizione del Trofeo Mezzalama che si tenne nel 1933. A realizzarli fu Amato, fratello minore di Laurent, che dialogò a lungo con le acciaierie Cogne nella ricerca del miglior acciaio sul mercato. La ricerca cadde sulla lega nichel-cromo-molibdeno. Una speciale mescola che permise di mantenere le caratteristiche di resistenza, diminuendo però lo spessore delle lastre impiegate. Il risultato fu un rampone da soli 360 grammi al paio.

Resistenti e leggeri questi ramponi avrebbero riscosso un grandissimo successo a partire dai primi anni Cinquanta, quando l’uomo si affacciò con interesse crescente alle grandi montagne di ottomila metri. Qui ogni grammo aveva importanza e un attrezzo fondamentale come il rampone, in una versione da meno di 500 grammi non poteva che attrarre l’attenzione, soprattutto se funzionale. Nel giro di poco furono impiegati da tutte le grandi spedizioni dirette alla conquista delle più alte montagne della Terra. Francesi, inglesi, tedeschi e italiani. Solo sull’Annapurna, il primo Ottomila salito dell’uomo, non vennero utilizzati questi ramponi leggerissimi. Ma in generale i francesi avevano un’attrezzatura ancora molto lontana da quella che avrebbe rappresentato l’optimum per l’altissima quota. Li usarono invece gli inglesi sia sull’Everest che sul Kangchenjunga, come ricordato da un trafiletto su vecchio notiziario CAI del 1955 dedicato all’incontro tra i fratelli Amato e Camillo Grivel e la Regina Elisabetta. “Erano gli unici stranieri invitati ai festeggiamenti e questo particolare trattamento fu loro riservato per aver fornito alla spedizione britannica tutta l’attrezzatura di scalata e precisamente piccozze, chiodi e i rinomati ramponi superleggeri a dodici punte da loro ideati ed orma i adottati dagli alpinisti di tutto il mondo. Anche il colonnello Hunt, capo della Spedizione dell’Everest, era ricorso ai Grivel per la dotazione dei suoi scalatori”. In realtà gli inglesi, nel 1953 sull’Everest, non utilizzarono i ramponi superleggeri a 12 punte, ma quelli nella versione precedente a 10 punte. Chiesero questa dotazione perché, a detta loro, le due punte anteriori avrebbero rappresentato un “mezzo artificiale” e in qualche modo avrebbero contaminato la salita. Gli italiani invece, nel 1954 sul K2, utilizzarono quelli a 12 punte, ma anche qui la cosa non fu immediata. Durante il 1953 la spedizione italiana organizzò un test materiali al Colle del Teodulo, inizialmente con ramponi di un’altra ditta. Il risultato fu del tutto insoddisfacente e mise in crisi l’organizzazione fin quando il futuro primo salitore Achille Compagnoni disse “c’è una realtà a Courmayeur che produce ramponi. Così ecco il superleggero prese parte all’unica spedizione italiana a violare la vetta di un Ottomila.

Dopo vennero altre migliorie tecniche, la Salewa per esempio fu la prima azienda a mettere in commercio un rampone regolabile, nuova esigenza dopo quella della leggerezza. La modernità richiese poi la nascita di attrezzi appositi e diversificati per ogni disciplina, ma tutto cominciò da una vecchia rotaia, dall’ingegno e dalla manualità di due uomini. Da lì, in quella bottega ai piedi del Monte Bianco, prese piede una storia forse scontata (perché in fondo sotto i piedi non guardiamo mai) ma che permise all’alpinismo di assumere un’altra dimensione e di guardare a traguardi impensabili.

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4 Commenti

  1. Nell’articolo non si menziona la salita della Nord dell’Eiger, dove le 12 punte fecero la differenza. Lo si può leggere nel libro di Harrer, ‘la mia sfida al destino’. Buona lettura.

  2. La salita della nord dell’Eiger non è citata semplicemente perché non è attinente con il tema dell’articolo. Si è voluta concentrare l’attenzione sul rampone che ha “partecipato” alle grandi prime himalayane degli anni Cinquanta, come da titolo e da contenuto. Buona lettura.

    1. Bravo Gian Luca, uno si fa un mazzo tanto a raccogliere e mettere insieme storie, dati, curiosità, insomma un articolo che ci saranno volute 10 ore di lavoro e che ci dai gratis, e arriva il precisino di turno a sindacare su una presunta e poi erronea mancanza.
      Risposta elegante e gustosa.
      Grazie dell’ottimo articolo. Io poi mi sono commosso vedendo che mio papà me li aveva regalati uguali da ragazzo, sognando forse per me vette che poi entrambi non abbiamo raggiunto, ma questo poco importa.

      1. Grazie per avermi definito un precisino.
        Ho aggiunto un commento sdolo per dare un dato in più.
        tranquilli, non succederà mai più.

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