Alta quota

Parete Rupal, una storia verticale

Tra gli anni Sessanta e Settanta ha rappresentano il problema alpinistico del Nanga Parbat. La parete Rupal misura 4500 metri in verticale, numero che fa di lei la più alta parete al mondo. Di qui sono passati alcuni dei migliori di sempre come Reinhold Messner e Steve House, ma anche lo sloveno Tomaž Humar nel suo sfortunato tentativo solitario. Fa impressione osservarla dal vivo, mette brividi d’adrenalina immaginare cos’ha vissuto chi l’ha affrontata inseguendo un sogno effimero. Qualcuno ci ha anche provato in inverno, prima del 2016, e oggi una nuova spedizione vuole agguantare quelle linee verticali nel cuore della stagione più fredda.

Il dottor Herrligkoffer e la parete Rupal

È il medico tedesco Karl Maria Herrligkoffer il primo a guardare il versante Rupal con interesse alpinistico. È il 1963 ed Herrligkoffer ha già guidato le due vittoriose spedizioni che hanno violato prima il versante Rakhiot (1953, prima salita assoluta del Nanga Parbat, Hermann Buhl solitario in vetta) e poi quello Diamir (1962, Via Kinshofer). Per chiudere il cerchio gli manca solo il terzo versante, ma Herrligkoffer non è un alpinista. Lui è un abile capospedizione, un uomo capace nella ricerca di finanziamenti e autoritario nei confronti del gruppo, caratteristica che ha quasi sempre generato problemi con i protagonisti delle sue missioni, compresa quella che sarebbe riuscita a violare la parete più alta al mondo. Ma andiamo per ordine. Nel 1963 il dottore organizza una prima puntata esplorativa a cui segue, l’anno seguente un primo vero tentativo che purtroppo si chiude a causa di errate comunicazioni da parte dell’ufficiale di collegamento e conseguenti problemi burocratici. Nel 1968 avviene il terzo tentativo, che porta gli alpinisti oltre quota 7100 metri, dove vengono fermati da un crepaccio ritenuto insuperabile. Passano due anni e ancora Herrligkoffer ritorna al Nanga Parbat, per lui una vera e propria ossessione portata avanti per onorare la memoria del fratellastro Willy Merkl perito sul Nanga Parbat nel 1934 durante i primi tentativi di salire in cima. Questa volta tutto sembra andare secondo i piani e gli alpinisti, non senza difficoltà, riescono ad aprire la via verso la vetta. Poi tutto si complica davanti all’anarchia di un giovane alpinista: Reinhold Messner. Ribelle alle regole autarchiche del capospedizione Messner va subito in contrato la sua autorità, inseguendo la propria ambizione. I due sono troppo distanti e tra loro non può esserci il giusto feeling, come già accaduto con un altro ribelle, Hermann Buhl. Fatto sta che in questa occasione la via viene finalmente completata con la prima ascensione realizzata da Reinhold Messner insieme al fratello Günther, alla loro prima esperienza su un Ottomila, quindi ripetuta il giorno seguente da Felix Kuen e Peter Scholz. Il proseguo della storia è una narrazione tragica, che racconta della prima traversata di un gigante himalayano compiuta dai fratelli Messner nel disperato tentativo di salvarsi la vita. Una tragedia umana costellata di falsità, menzogne, morte e rinascita. Una storia lunga che ha trovato la sua verità solo 35 anni dopo gli accadimenti.

Passano gli anni e il Nanga Parbat vede altre ascensioni, ma fino al 1975 nessuno guarda più alla parete Rupal. Poi ecco ricomparire al campo base Karl Maria Herrligkoffer. Il suo nuovo obiettivo è una via che corre lungo il fianco sinistro della parete, un itinerario logico ed estremamente diretto alla vetta. Gli alpinisti ci provano, danno tutti se stessi, ma a quota 7500 metri sono costretti a fare dietro front a causa del maltempo. A completare questo nuovo itinerario saranno poi un gruppo di alpinisti tedeschi, capitanati da Hanns Schell, nel 1976.

In stile alpino sulla Rupal

È l’estate del 2005 quando ai piedi della parete si incontrano due spedizioni agli antipodi. Da un lato lo sloveno Tomaž Humar, tra i più abili alpinisti al mondo, con una spedizione solitaria ma di stampo estremamente comunicativo; dall’altra parte gli americani Steve House e Vince Anderson, che guardano con diffidenza alla comunicazione in diretta e che definiscono “un circo” l’alpinismo di Humar. Le due spedizioni hanno però un obiettivo comune: scalare in stile alpino la parete Rupal per una via nuova. Humar vuole farlo in solitaria, lungo una linea con prevalenza di ghiaccio e neve. House e Anderson puntano invece al roccioso pilastro centrale.

Il primo a muoversi verso l’altro e Humar, che parte in un momento di grande instabilità della montagna. Le condizioni sono pessime, ma nulla riesce a fermarlo, così va. Scala per 9 o 10 ore al giorno, scavando delle trune nella neve per dormire. Affronta difficoltà estreme e gestisce le insidie di una parete che scarica continuamente valanghe e blocchi di ghiaccio grossi come automobili. Così fino al 5 agosto, quando si ritrova bloccato in parete: nevica e la visibilità è praticamente azzerata dalla nebbia. Seguono 5 giorni di disperati progetti per cercare di aiutare l’alpinista a scendere dalla montagna, richieste di aiuto e un volo di elicottero che il 9 agosto riesce a raggiungere il punto sulla parete e a recuperare lo sloveno. Un intervento delicatissimo e di estrema precisione che riesce a mettere in salvo Humar. Queste poche righe non rendono giustizia alla storia, per questo consiglio caldamente la lettura del libro “Tomaz Humar. Prigioniero del ghiaccio” di Bernadette McDonald che racconta in modo appassionato ogni accadimento di questa scalata lasciando spesso il lettore con il cuore in gola e un senso si smarrimento che ben descrive (anche se in minima parte) quel che può aver provato il protagonista.

Mentre Humar viene portato in salvo House e Anderson completano la loro acclimatazione sulla via Schell e si preparano ad affrontare il pilastro centrale. La loro sarà una prestazione incredibile su difficoltà estreme a quote improbabili. Una delle più belle vie di Himalaya e Karakorum, un progetto ambizioso che ha portato i due protagonisti a prosciugarsi per riuscire nella salita garantendosi lucidità sufficiente per poter affrontare la discesa in sicurezza, senza lasciar traccia del loro passaggio sulla montagna. A questa realizzazione viene assegnato il Piolet d’Or 2006.

Qui finisce la storia della parete Rupal, per oggi. In futuro avremo certamente altre pagine da scrivere, nuove vie da descrivere e uomini da celebrare per il loro coraggio e per la passione con cui hanno perseguito un obiettivo tanto inutile quanto affascinante. Per completare il racconto in modo esaustivo servirebbe una prima invernale, qualcuno ci ha provato negli anni passati, tre alpinisti ci stanno provando in questi giorni.

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2 Commenti

  1. Bello !
    Divertente leggere “discesa in sicurezza” per la discesa dei due dal pilastro….. da qualche parte c’è la foto del materiale da scalata che si erano portati e in discesa se non fosse stato per …

  2. A completare la storia mancherebbe la salita di Kukuczka e compagni al pilastro sud sempre sul versate Rupal nel 1985 che è la quarta via della parete (la terza in ordine cronologico).

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