Storia dell'alpinismo

Gian Piero Motti, il filosofo dell’alpinismo: oltre il gesto atletico un animo fragile

C’è stato un tempo in cui Torino, quella operaia e lontana dai fasti e dalla beltà nobile che la contraddistingue, è stata un brulicare di giovani intellettuali che della montagna han fatto più che una passione. Si trovavano in Via Sacchi, nelle cantine di una libreria specializzata a discutere e raccontarsi della vita vissuta in verticale. Tra di loro ci sono politici, partigiani e futuri giornalisti. È un movimento che alle proteste di piazza preferisce una rivoluzione più sommessa. A spiccare è Gian Piero Motti, figura carismatica quanto enigmatica. Calamita per i ragazzi del tempo che in lui vedono un maestro. Ma averci a che fare non sempre è facile, perché andare in montagna con lui non è solo scalata, non è solo il gesto. L’arrampicata di Motti è pensiero, è un’analisi che va oltre al contesto, che ragiona sull’animo umano, sull’ambiente, sui compagni di cordata e sulla strada, lunga pochi tiri di corda, ma attraversata da un libro inconscio.

“Gian Piero ha delineato due grandi famiglie di protagonisti: gli alpinisti dell’azione e gli alpinisti del pensiero, a dirlo è Enrico Camanni, che Motti l’ha conosciuto e che ha avuto il privilegio di lavorare all’edizione di alcuni suoi testi. “I primi si realizzano quasi totalmente in montagna, lasciando le proprie imprese a sigillo di sé. Gli altri, al contrario, sentono l’assoluto bisogno di elaborare anche intellettualmente e spiritualmente la propria passione, alternando azione e meditazione, impegno e attesa, partecipazione e distacco”. Per questo gli articoli e i racconti di Motti oltrepassano la mera cronologia di una salita per andare a indagare l’uomo. Ne da prova nel dicembre del 1977 con la sua intervista a Renato Casarotto, rientrato dalla sua ultima esperienza solitaria sul Nevado Huascaran. Un uomo e un’immensa parete, che quasi scompare nell’indagine psicologica riportata da Gian Piero. L’uomo, con i suoi contrasti e le sue debolezze, viene prima di ogni tecnicismo. Per questo di lui si è detto che fosse un filosofo dell’alpinismo, ma “credo che la definizione gli vada stretta se per filosofia si intende una speculazione puramente astratta”. Perché non sono solo riflessioni, ma immersioni. “Motti era talmente coinvolto, talmente partecipe, da sovrapporre spesso le proprie esperienze con quelle degli altri. Si può dire che tutta la sua attività giornalistica sia il risultato di questa sua originalissima sovrapposizione psicologica”.

L’alpinismo dei falliti

Indagando tra le ingiallite pagine della Rivista della Montagna emerge prepotente ma delicato il pensiero di Motti, maturato attraverso l’iconico titolo de “I falliti” in cui trova concretezza la ricerca dell’uomo dietro alle imprese. Gian Piero, con la n, è stato il primo a immaginare un alpinismo svestito di prosa eroica per osservarne il volto umano e le ragioni di quell’espressione viva solo quando incontra la verticalità. Una sensazione di smarrimento alla vita oltre cui si cela un’insoddisfazione perenne. Il bisogno di riuscire, di “portare a casa la giornata” con una prestazione importante che sappia soddisfare il nostro animo. Quello stesso bisogno in cui è sprofondato anche Motti, prima di riuscire in questa analisi interiore che l’ha portato a emergere da questo baratro arrivando a ritrovare la sua dimensione dove la montagna deve essere appagamento e divertimento, non un sostituto alla vita, non la ricompensa al “fallimento nella vita di ogni giorno”.

“Incontrerò una sera d’inverno Guido Rossa, il quale fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini. Non rinunciare alla montagna. E perché? No. Ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l’avventura e per stare in allegria insieme agli amici.

Io lo so e l’ho sempre saputo; ma dovevo sentirmelo dire da un uomo che mi ha sempre affascinato per la sua intelligenza e per la sensibilità artistica che scopri nel suo sguardo. E poi ci saranno altre persone, tutti gli amici che stupidamente avevo perduto e che ritroverò a uno a uno e che mi aiuteranno moltissimo a ritornare quello di prima”.

Animo fragile o filosofo, spesso le due cose si confondono perché solo quando si ha la capacità di guardare dentro di sé, attraversando con oggettività gli stati d’animo che ci pervadono si giunge a verità assolute, spoglie di menzogne. È un dolore forte che per un’istante ti acceca prima di restituirti al mondo con uno sguardo diverso o di sputarti sull’orlo di un abisso assopito che prima o poi ti prende, lasciando agli altri la corsa forsennata per cercare inutilmente di salvarti.

“Un amico di ritorno dalla Grecia mi ha detto: ‘Vai di sera verso il tramonto, quando non vi è quasi più nessuno, di fronte al Partenone ad Atene. Fra quelle pietre calcinate, in quella sassaia arida e deserta, assordato dal frinire delle cicale, vedrai tremare nel calore del pomeriggio quelle enormi colonne e ti sembrerà veramente che il tempo non sia trascorso’.

E veramente, come disse Seneca, posso rivedere serenamente i giorni del passato. E rivedo tanti volti, tanti nomi, per i quali oggi non posso provare che una profonda tristezza. Perché ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini che avevano trovato nell’alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni giorno. Uomini che si erano dati e che si danno caparbiamente alla montagna con l’illusione di trovare un’affermazione che li ripaghi di tutte le frustrazioni, le delusioni e le amarezze della vita”.

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3 Commenti

  1. Espongo in maniera molto sintetica la mia triste vecchia opinione.
    Mi piaceva come ragionava e scriveva, un uomo per me molto colto, ma non riusciva ad andare oltre alle vecchie idee del suo ambiente e frequentava poco gli innovatori lì attorno, come per giustificarsi con se stesso..
    Motti si era dedicato all’alpinismo senza grandi successi fuori dal suo ambiente e si era convinto di aver fallito, non aveva accettato la sua natura, infine abbandonato da tutti gli amici si era ucciso.
    Forse con lui è iniziato un ciclo di decadenza dell’alpinismo italiano che da poco mi sembra stia finendo.

    Preferisco dire “conquistatori dell’inutile” che “falliti”…. comunque sempre gente con “qualche rotella in meno” 🙂

  2. Ho letto quasi tutto ha scritto Motti e l’ho trovato geniale: ha gettato lampi di luce sulle motivazioni che spingono l’alpinista nelle sue varie azioni, dall’occidentalista, al free climber, al soloist, etc. E’ stato fra i primi in Italia a capire che tutto stava cambiando con le novità dalla California.
    Comunque come tutte le persone geniali non sempre è facile da capire, a volte bisogna rileggere le sue frasi per rendersi conto di come abbia anticipato i tempi. Credo che la sua triste fine sia dovuta molto a questo, troppo avanti rispetto al resto e quindi incompreso, come lo sono stati tutti ii grandi.

  3. Io ho trovato il suo testo sulla storia dell’alpinismo il più completo e ragionato tra quelli che abbia mai letto (rispetto ad esempio ai libri della Engel o di Jouty) con analisi lucide e, per certi versi, innovative, tali da fornire un’interpretazione di fatti e personaggi davvero unica e preziosa. Peccato che si fermi agli anni 70 (l’aggiornamento di Camanni non è assolutamente comparabile per spessore e analisi) perchè sarei stato curioso di leggere il suo pensiero su questi tempi moderni.

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