Montagna.TV

Casimiro Ferrari

“Con i suoi 53 anni Casimiro era pura tecnica ed energia. […] Era prima di tutto salire senza badare a niente, non importava ciò che c’era sopra, era progressione permanente fin dove si può”

Martin Cevallos

 

Non è un’icona universale dell’alpinismo come Reinhold Messner, non è mai stato un eroe di intere generazioni come Walter Bonatti e il destino ha voluto che non facesse in tempo a diventare un “Grande Vecchio” come Riccardo Cassin. Il suo nome non ha mai raggiunto la notorietà presso il grande pubblico, ma per gli alpinisti Casimiro Ferrari è l’incarnazione stessa della forza irresistibile che li spinge verso le terre selvagge, anche oltre l’alpinismo, oltre lo stesso spirito di avventura, fino a fare di quei luoghi la propria casa, fino a trovare sé stessi proprio sul confine incerto fra il mondo degli uomini e quello della wilderness.

Casimiro è stato forse l’ultimo pioniere e, non per nulla, scelse come terra d’elezione quella Patagonia che è l’ultima frontiera del mondo. La frequentò prima come scalatore, esplorando per più di 20 anni le sue cime ventose e inaccessibili, poi, con identica passione e tenacia, la visse come uomo, allevatore e coltivandone la terra. Nell’introduzione al libro “Casimiro Ferrari – L’ultimo re della Patagonia”, Walter Bonatti lo ricorda proprio così, mentre gli mostra un enorme cespo di lattuga cresciuto negli orti della sua estancia, con lo stesso orgoglio e la stessa felicità con cui avrebbe potuto mostrargli la linea di una delle sue scalate estreme sul Cerro Torre o sul Fitz Roy.

La vita

Casimiro nasce a Rancio, uno dei rioni a monte della città di Lecco, il 18 giugno del 1940. La sua è una delle tipiche famiglie operaie lecchesi. Il padre Giovanni lavora come trafiliere in una delle tante officine metallurgiche locali e la madre Ginetta fa la casalinga e spesso è impiegata come donna di servizio.

Il luogo di nascita e la classe sociale segnano già un destino. Come tanti altri bambini nati in quegli anni, anche lui è chiamato da subito a contribuire all’economia della famiglia. Per chi proveniva dai quartieri alti (geograficamente parlando) di Lecco, le risorse della natura rappresentavano un’integrazione indispensabile del magro stipendio della fabbrica. Così Casimiro prende confidenza con la dimensione verticale della montagna: andando a tagliare e trasportare a valle la legna dai ripidi canaloni boscosi del monte San Martino, che incombe proprio sopra le case di Rancio; oppure inerpicandosi sulle balze rocciose alla base della Corna di Medale per sfalciare il fieno magro, ottenuto dall’erba che cresce su terreni particolarmente poveri di acqua e che, raccolta al mattino, la sera è già secca e pronta per essere messa in cascina. È lo stesso apprendistato attraverso cui sono passati tanti altri alpinisti lecchesi, uno su tutti Carlo Mauri, anche lui nato e cresciuto a Rancio e che per Casimiro sarà un mentore e una fonte di ispirazione.

A queste attività il giovane Ferrari ne associa volentieri un’altra, molto ben remunerata, anche se decisamente acrobatica e pericolosa: la caccia ai nidi del passero solitario. In quegli anni il piccolo uccellino canoro che nidifica sulle pareti rocciose, è molto apprezzato come animale da guardia. Il maschio della specie, tenuto in gabbia accanto all’uscio di casa, è infatti solito annunciare con grande clamore l’arrivo di estranei. Casimiro diventa uno specialista nell’individuare e razziare i nidi situati nei loghi più impervi, cominciando così ad impratichirsi con la scalata vera e propria e con le manovre di corda.

Niente da stupirsi dunque se, a soli 14 anni, assieme al coetaneo Guerino Cariboni, decide di avviare la propria carriera alpinistica affrontando la via Cassin sulla Corna di Medale, considerata un itinerario per alpinisti esperti. “Per convincere Guerrino a venire con me gli dissi di stare tranquillo, che io la via l’avevo già percorsa e la conoscevo bene – ricorderà più avanti Casimiro –. In realtà non ci avevo mai messo mano. Avevo solo guardato con molta attenzione gli alpinisti che la scalavano”. Questo ed altri episodi dell’infanzia, sono rivelatori della sua straordinaria scaltrezza e caparbietà, oltre che della capacità di motivare i propri compagni (a volte dicendo anche qualche bugia…) per condurli all’obiettivo. Tutte qualità che si riveleranno fondamentali nelle sue future imprese.

Già da quei primi anni, poi, abbonda l’aneddotica che rivela un altro aspetto divenuto celeberrimo (o meglio famigerato) del suo carattere: la temibile e incontenibile irascibilità, capace di mettere in soggezione anche i compagni di scalata più rudi e navigati.

Da quella prima rocambolesca salita sulla Medale la carriera alpinistica del giovane talento lecchese prosegue senza intoppi: ben presto ripete gli itinerari più difficili delle Grigne e del Masino e si cimenta con le grandi pareti delle Dolomiti. Un po’ ovunque lascia la sua firma, aprendo nuove vie, sempre di estrema difficoltà. A soli 19 anni è ammesso a far parte del gruppo dei Ragni della Grignetta e a 25 entra nel Club Alpino Accademico Italiano (il GHM francese lo accoglierà nelle proprie fila nel 1969).

Gli Anni 60 segnano l’inizio dell’epoca delle grandi invernali sulle Alpi e Casimiro non manca di lasciare la sua impronta. Nel 1963 sale nella stagione più fredda la via Paolo VI, alla Tofana di Rozes e nel ‘65 porta a termine la prima ripetizione in inverno dello spigolo Nord del Badile.

Per le sue imprese spesso sceglie compagni di cordata con molti meno anni di lui, alpinisti promettenti, ma che ancora devono dimostrare tutte le loro capacità. È un gioco di strategia: lui è il regista e il protagonista delle imprese, ma per arrivare all’obiettivo non esita a tirare fuori dal sempre ben fornito vivaio lecchese l’uomo giusto, da utilizzare al momento e nel posto giusti. Ma è anche un sincero impegno nel ruolo di talent scout: per un giovane sentirsi affidare da Casimiro il ruolo di capocordata, con la famosa frase “vai un po’ là a vedere come è…”, avrà sempre il valore di un’investitura ufficiale, promessa di un radioso futuro alpinistico.

Sulle Alpi Ferrari è però un forte scalatore come ce ne sono altri. La svolta decisiva della sua carriera avviene nel 1966, quando Carlo Mauri lo invita a partecipare alla spedizione al Monte Buckland, nella Terra del Fuoco. Si tratta di una cima di poco più di 1800 metri di altezza, ma l’estrema latitudine e l’inclemenza del clima la rendono una meta difficile e ambiziosa. Una fotografia immortala il momento culminante di quell’avventura ed è premonitrice di ciò che sarebbe avvenuto in seguito: è l’immagine di Casimiro con la piccozza piantata nel ghiaccio spugnoso e inconsistente, lo sguardo stupito e un po’ timoroso mentre si appresta ad affrontare la gigantesca “meringa” che difende la cima del Buckland. È come il primo bacio, la scintilla di una passione nascente fra lui e le montagne dell’estremo sud del continente americano, che presto sarebbe diventata una grande storia d’amore.

Tre anni dopo quel primo incontro i lecchesi sono ancora in Sud America, questa volta nella Cordillera Huayhuash. A capo della spedizione c’è l’inossidabile Riccardo Cassin, ma Ferrari è l’uomo di punta del gruppo. È lui che apre la strada in parete, dove il ghiaccio si fa più ripido e la scalata più impegnativa ed è lui che conduce i compagni sino all’affilata ed elegantissima cima dello Jirishanca, il Cervino delle Ande, a 6100 metri di quota.

Nel 1970 è di nuovo Carlo Mauri l’artefice di uno degli incontri fatali della vita di Casimiro, quello con il Cerro Torre, il monolite di granito della Patagonia, che per gli alpinisti di tutto il mondo è assurto a simbolo dell’estremo, se non addirittura dell’impossibile. La spedizione del Cai Belledo (una sottosezione del Cai Lecco) tenta la salita dal selvaggio versante ovest della montagna: una parete di oltre 1200 metri, ricoperta dalla base alla cima da una spessa corazza di brina ghiacciata, che il furioso vento umido proveniente dal Pacifico deposita sulla montagna, creando surreali e gigantesche formazioni: funghi e meringhe, spesso verticali o strapiombanti. Sul Torre Casimiro e compagni spingono al limite la loro resistenza e portano agli estremi livelli la tecnica classica di progressione su ghiaccio, superando pendenze e difficoltà che nessuno aveva mai osato affrontare prima di allora. Le interminabili bufere patagoniche, però, hanno la meglio e, a soli 250 metri dalla cima, la spedizione è costretta alla ritirata.

A dicembre del 1973 gli alpinisti lecchesi sono di nuovo al cospetto della Ovest del Torre. Questa volta non ci sono né Carlo Mauri né Riccardo Cassin. Casimiro ha sfoderato tutta la sua arguzia diplomatica per far sì che questi nomi così ingombranti non fossero della partita. Ha voluto a tutti i costi essere lui questa volta il capo spedizione: sua la gloria per un’eventuale vittoria, sua l’infamia per una probabile e forse definitiva sconfitta. Ma ha anche fatto di tutto perché questa fosse inconfutabilmente una spedizione dei Ragni di Lecco, anzi del Cai Lecco (che si appresta a celebrare con quell’impresa i 100 anni dalla fondazione), anzi dell’intera città di Lecco, che nei mesi precedenti la partenza si e mobilitata in forze per dare ai suoi alpinisti i mezzi e le risorse necessarie alla grande avventura. Lo ha voluto così tanto questo marchio di fabbrica lecchese, da opporsi ferocemente alla candidatura a membro del gruppo dello stesso Reinhold Messner, astro ormai sfavillante del firmamento alpinistico, che avrebbe probabilmente aumentato le chance di vittoria, ma avrebbe sicuramente attirato su di sé tutta l’attenzione dei media e del pubblico. La strategia ordita da Casimiro funziona a dovere e la spedizione alla Ovest del Torre diviene il capolavoro assoluto dell’alpinismo di gruppo, quello fatto di collaborazione, di solidarietà e di sacrifici individuali per raggiungere una meta comune. I 12 alpinisti mettono a punto una perfetta macchina d’assedio e per quasi due mesi resistono all’infinito maltempo, rintanati nella grotta di ghiaccio fortunosamente rinvenuta a metà parete. Alla fine solo quattro di loro hanno la possibilità di tentare il balzo finale. Il 13 gennaio del 1974 Casimiro Ferrari, Mario Conti, Daniele Chiappa e Pino Negri sono in vetta, dopo aver salito tiri di corda di difficoltà allucinante, spesso superati da Casimiro come primo di cordata, ed essersi presi rischi estremi. Prima di scendere costruiscono un pupazzo di neve e gli mettono addosso il maglione rosso dei Ragni: è il quinto uomo del Torre, simbolo dei compagni che li attendono alla base e di tutta la città di Lecco che li ha supportati in questa impresa corale.

Dopo il Torre Ferrari è ormai nell’Olimpo dell’alpinismo mondiale, ma la sua fame di montagna è tutt’altro che placata. Gli anni successivi sono un susseguirsi di salite di primissimo livello: nel 1975 guida la spedizione alla parete Sudovest dell’Alpamayo, una delle montagne più belle del mondo e nel ‘76 è ancora in Patagonia per risolvere la via sulla gigantesca parete Est del Fitz Roy, considerata una delle più grandi imprese su roccia fra le montagne australi. Un episodio di quella salita merita di essere rievocato. Ormai molto in alto sulla parete Casimiro viene tradito da un appiglio malfermo e precipita. Atterra sulle spalle del compagno Vittorio Meles, che attutisce l’impatto, ma nella caduta finisce per perdere tre o quattro denti, che restano depositati sulla piccola cengia della sosta. In quelle condizioni chiunque altro avrebbe fatto marcia indietro, ma il Miro è di un’altra stoffa. La cordata si prepara per il bivacco, con Meles che mastica la cena e poi la passa i bocconi già ammorbiditi al compagno sdentato… Il giorno dopo riprendono la scalata e nelle prime ore del mattino sono sulla vetta.

Negli Anni 80 l’alpinismo ha già fatto il balzo verso la contemporaneità: la rivoluzione dell’arrampicata libera e sportiva è arrivata anche sulle grandi montagne e i nuovi talenti hanno in breve polverizzato i record e i limiti del passato. Casimiro anagraficamente appartiene a un’epoca e a una generazione ormai sorpassate, eppure è ancora sulla breccia. Ha quarant’anni suonati e i medici gli hanno già diagnosticato il male che un giorno lo porterà alla morte prematura, eppure nel 1984 è ancora rinchiuso in una truna sotto al pilastro Nordest del Cerro Murallon, una delle pareti più imponenti, remote e selvagge della Patagonia. Manco a dirlo è lì con due giovanissimi Ragni, Paolo Vitali e Carlo Aldé, poco più che diciottenni. Da settimane attendono che il solito maltempo gli consenta di portare a compimento la loro ambiziosa salita. L’assedio si rivela troppo lungo e penoso e, con i viveri ormai agli sgoccioli, i tre decidono di abbandonare. Ormai sulla strada del ritorno un’improvvisa schiarita li sorprende. Sembra uno dei soliti scherzi della Patagonia, ma l’istinto del vecchio leone intuisce l’opportunità. Tornano sotto alla parete e, con due giorni di scalata estrema, raggiungono la cima, per poi affrontare una discesa disperata in corda doppia. Il Murallon è lontano dalle rotte classiche dell’alpinismo e la loro scalata non assurgerà a una celebrità paragonabile a quella della mitica impresa del ‘74 al Cerro Torre, ma, molti anni più tardi, il fuoriclasse Stefan Glowacz, trovandosi di fronte a quel gigantesco pilastro, avrà parole di stupore e ammirazione per gli autori della prima salita.

Poco dopo la vittoria al Murallon il Re della Patagonia fa il suo ingresso in Himalaya. Nel 1985, infatti, mette a segno una bella ripetizione della difficile via franco-canadese all’Ama Dablam, accompagnato da giovani emergenti e vecchi compagni di avventura. Nonostante questo esordio promettente l’altissima quota non gli regalerà mai grandi soddisfazioni, anche perché le sue mire non si limiteranno certo alle vie normali, puntando piuttosto a obiettivi decisamente avveniristici, come la paurosa parete Ovest del Makalu, tentata senza successo nel 1991.

Dalla seconda metà degli Anni 80 in avanti l’attività alpinistica di Casimiro non cala di intensità, ma si trasforma, assumendo un carattere sempre più esplorativo e avventuroso. Le montagne per lui diventano sempre più una “scusa” per vivere grandi avventure negli spazzi immensi della Pampa e dello Hielo Continental, in luoghi raramente visti prima da altri esseri umani. Così nasce la bella salita del 1988 al Cerro Riso Patron, compiuta nel corso ella traversata invernale da ovest a est dello Hielo, e poi quelle del Cerro Norte, del San Lorenzo e del San Valentin.

Non gli mancano le occasioni per smarcare qualche prestigiosa prima di prestigio nel gruppo del Cerro Torre e del Fitz Roy, spesso portata a compimento “cogliendo l’attimo” e approfittando della presenta di compagni occasionali, ingaggiati sul momento per realizzare vecchi progetti che probabilmente meditava da anni, come quello sulla parete est dell’Aguja Mermoz, la sua ultima via nuova in Patagonia, salita nel ‘94 con l’argentino Martin Cevallos.

Negli ultimi anni della sua vita, sciolti i legami familiari e lasciata la sua impresa di trafileria, Casimiro fa definitivamente della Patagonia la sua casa. Acquista, infatti, l’estancia Punta del Lago e si dedica all’agricoltura e all’allevamento, ancora in cerca di quell’armonia con sé stesso e con la natura che aveva inseguito per tutta la vita.

Il 4 settembre del 2001 muore a causa delle complicanze di una polmonite e dell’indebolimento generale del suo fisico, dovuto al tumore col quale lottava da decenni.

Le principali salite sulle Alpi e nel mondo

Libri

Film

“Muriroo gheupp ma mia cun el goos”.

(Proverbio lecchese spesso citato da Casimiro Ferrari che significa: “Morirò gobbo per le botte che avrò preso, ma non con qualcosa sul gozzo che non ho avuto il coraggio di dire”)

Exit mobile version