Ambiente

Meno neve e temperature in salita, ghiacci della Groenlandia verso il punto di non ritorno

Due studi scientifici di recente pubblicazione portano l’attenzione del mondo sulle sorti della Groenlandia. Neve in diminuzione e temperature sempre più elevate stanno comportando sull’isola danese, situata tra l’oceano Atlantico del Nord e l’oceano Artico, un progressivo e sempre più rapido scioglimento della calotta glaciale. La “terra verde” di Erik il Rosso, che verde probabilmente non è mai stata, sta diventando sempre “più scura” e calda, e la sopravvivenza dei suoi ghiacci sembra essere arrivata a un punto cruciale.

Scioglimento dei ghiacci verso il punto di non ritorno

Secondo lo studio “Critical slowing down suggests that the western Greenland Ice Sheet is close to a tipping point”, pubblicato nel mese di maggio sulla rivista PNAS, realizzato da Niklas Boers, Freie Universität di Berlino e Martin Rypdal, The Arctic University of Norway di Tromsø, la calotta glaciale groenlandese sarebbe vicina al punto di non ritorno.

Abbiamo avuto di recente modo di affrontare il concetto di “punto di non ritorno” nell’ambito glaciale in riferimento al ghiacciaio Pine island, la cui fusione è ritenuta dagli scienziati ormai irreversibile. Con tale termine si intende il raggiungimento di uno stato in cui qualunque sforzo di ridurre il surriscaldamento globale, di intervenire nel nostro piccolo per frenare lo scioglimento dei ghiacci, risulta vano. Nella dinamica di fusione si innesca infatti un meccanismo di auto alimentazione che porta a una accelerazione del processo, senza appunto possibilità di tirare il freno.

Come conseguenza dell’innalzamento termico, la Groenlandia ha già visto riversarsi nell’oceano miliardi di tonnellate di acque derivanti dallo scioglimento dei ghiacci. Secondo le stime degli scienziati la totale fusione della calotta potrebbe comportare un aumento del livello dei mari di ben 7 metri.

Le analisi dei due ricercatori si sono concentrate nel Jakobshavn basin, una delle aree della calotta che presenta i maggiori tassi di scioglimento, nella regione centro-occidentale della Groenlandia, ricostruendo su un periodo di 140 anni gli andamenti nell’altezza dei ghiacci e nella velocità di scioglimento. Le conclusioni cui si è giunti sembrano non lasciare grandi speranze: “I nostri risultati in sintesi suggeriscono che in un futuro non troppo lontano lo scioglimento subirà una accelerazione.”

Il feedback positivo cui si faceva cenno poc’anzi si innesca, come spiegano gli scienziati, come conseguenza della riduzione in spessore dei ghiacci. Più la calotta si riduce in altezza più viene favorito il suo scioglimento. Sulla base dei modelli elaborati, la zona del Jakobshavn basin sembra attualmente avvicinarsi al punto di non ritorno, ovvero a una altezza (spessore) limite, oltre cui si determinerebbe una accelerazione irreversibile della fusione. O meglio, reversibile soltanto con un abbassamento “utopistico” delle temperature. Come dichiarato al The Guardian da Boers, a valori pari a quelli presenti in epoca preindustriale.

Le ricerche si sono concentrate su una “piccola” area ma, evidenzia il ricercatore, “non c’è ragione di ritenere tale dinamica differente in altri punti della calotta groenlandese”. Studi futuri potranno aiutare a confermare tale ipotesi.

Non c’è certezza sulle tempistiche del punto di non ritorno. Non è neanche da escludere, aggiungono i due ricercatori, che sia stato già raggiunto. In quest’ultimo caso, chiariscono, non c’è da aspettarsi che l’intera calotta sparisca in breve tempo. Lo scioglimento totale potrebbe avvenire nell’arco di un millennio.

Il ruolo della neve

Più la calotta perde spessore più accelera il suo scioglimento. Accanto a quello che abbiamo definito come feedback positivo della dinamica di fusione, vanno anche considerati due fattori che aiutano a destabilizzare ulteriormente il sistema: l’assottigliamento dei ghiacci “costieri” a contatto con l’acqua marina e la minore caduta di neve. Argomento quest’ultimo indagato dalla ricerca statunitense “Atmospheric Blocking Drives Recent Albedo Change Across the Western Greenland Ice Sheet Percolation Zone” pubblicata sulla rivista Geophysical Research Letters.

Secondo il team coordinato da Gabriel Lewis del Dartmouth College di Hanover, a causa delle minori precipitazioni nevose si assiste al persistere sulla superficie della calotta groenlandese di neve vecchia, che vede una progressiva modifica nella forma e dimensioni dei fiocchi di neve e può anche imbrunire per accumulo di impurità. Due elementi che portano a una riduzione della capacità riflettente (albedo) con conseguente aumento dell’assorbimento dei raggi solari. Ne consegue inevitabilmente un aumento della temperatura superficiale con facilitazione dei processi di fusione.

Il fenomeno dell’atmosphere blocking

A cosa è dovuta la minore caduta di neve sulla Groenlandia? Gli esperti parlano di “atmospheric blocking” (blocco atmosferico). Abbiamo chiesto a Filippo Thiery, meteorologo del programma Geo di Rai 3, di aiutarci a comprendere tale fenomeno.

“Partiamo col dire che quando si parla di clima è sempre complesso definire cause e conseguenze. Vi sono attualmente delle ipotesi secondo le quali, come conseguenza dei cambiamenti climatici, le situazioni di blocco atmosferico stiano diventano più frequenti e più persistenti. Si tratta di condizioni che si verificano a qualsiasi latitudine, caratterizzate dal persistere di un massiccio campo di alta pressione per molti giorni o anche settimane sulla medesima zona. Vedasi le grandi ondate di calore estive che alle nostre latitudini si verificano quando l’anticiclone africano raggiunge il Mediterraneo Centrale e l’Europa Centrale e sembra non avere fretta di spostarsi, favorendo il persistere di aria molto calda. A sinistra e destra del blocco anticiclonico si verificano invece situazioni di bassa pressione che portano sulle zone interessate precipitazioni protratte. Nelle zone polari la situazione è la medesima, si assiste a una latitanza di precipitazioni per giorni o settimane.”

Perché tali fenomeni stanno aumentando in frequenza? “La ragione dovrebbe risiedere nel fatto che, in conseguenza del cambiamento climatico, si verifichi un rallentamento del getto alle quote superiori della troposfera. In termini fisici la corrente mostra ondulazioni più ampie e lente. Tali ondulazioni determinano la formazione delle famose aree di alta e bassa pressione. I pattern di alta pressione più persistenti tocca evidenziare che siano caratterizzati da un meccanismo di feedback positivo sulle zone polari. I ghiacci sono dotati di una elevata capacità di riflessione dei raggi solari. La loro diminuzione determina una minore riflessione dei raggi, che comporta a sua volta un minor raffreddamento delle zone polari. Ne consegue una riduzione del disavanzo termico tra equatore e Poli, fattore che alimenta la corrente a getto, che a sua volta rallenterà ulteriormente.”

Un feedback positivo che interessa tutto il mondo. “La corrente a getto è da immaginarsi come un meccanismo attraverso cui l’atmosfera riequilibra la disuguaglianza termica tra Poli e equatore. Con il suo rallentamento aumenta la frequenza dei cosiddetti eventi estremi. Laddove persistano pattern anticiclonici ci troviamo di fronte a condizioni di siccità e ondate di calore prolungate, laddove invece il blocco atmosferico specularmente determini una persistenza di bassa pressione avremo alluvioni o ondate di freddo nella stagione invernale.”

“Vorrei aggiungere un elemento su cui riflettere – conclude il meteorologo – , la fusione dei ghiacci, siano essi marini che continentali, porta alla immissione di acqua dolce negli oceani con conseguente alterazione del tasso di salinità e della densità delle acque. Parametro cui è fortemente legata la circolazione delle grandi correnti oceaniche, a loro volta fortemente accoppiate ai regimi atmosferici, quindi climatici, del Pianeta.”

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