Gente di montagna

Ernest Shackleton

“Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton”

Raymond Priestley

Cosa ci fa un capitano della marina commerciale di Sua Maestà Britannica fra la gente di montagna? Ernest Shackleton, nato fra le dolci colline d’Irlanda e vissuto fra gli orizzonti piatti e infiniti degli oceani e delle banchise polari, le montagne, quelle vere, le incontrò forse una volta soltanto in vita sua, ma quell’incontro fu grandioso, pazzesco, fu un’impresa degna di essere ricordata per sempre nella storia dell’esplorazione e anche dell’alpinismo.

Il 20 maggio del 1916 il capitano Shackleton assieme a due suoi marinai raggiunse la stazione baleniera di Stromness, sulla costa settentrionale della Georgia Australe, dopo aver effettuato in due giorni la prima traversata della catena di alte montagne e ghiacciai inesplorati di quella remota isola, situata all’estremo sud del mondo. Dietro di loro i tre avevano 15 giorni di navigazione su una minuscola scialuppa attraverso uno dei bracci di mare più pericolosi del mondo e quasi due anni trascorsi alla deriva fra i ghiacci antartici, in una delle più grandi avventure di tutti i tempi.

La vita

Ernest Henry Shackleton nasce nel 1874 ad Athy un piccolo centro della contea irlandese di Kildare a qualche decina di chilometri da Dublino. La famiglia lo vorrebbe avviato alla carriera medica, ma ben presto Ernest si ribella a quel destino che sente non suo. All’età di 16 anni, abbandona gli studi e si arruola come mozzo nella marina mercantile britannica. È una vita nomade che lo porta sulle rotte dell’Oceano Pacifico e Indiano e per la quale il giovane è evidentemente predisposto, visto che ben presto riesce a guadagnarsi la qualifica di nostromo e poi a ottenere il comando di una propria nave, nel 1898.

Persino i lunghi viaggi sulle rotte commerciali, però, non riescono a soddisfare a pieno l’insaziabile sete di avventura di Ernest. Ormai si è fatto una posizione ed ha avviato una stabile relazione sentimentale. Sarebbe il tempo di “mettere la testa a posto”. Invece, ancora una volta, Shackleton scompiglia le carte e decide di dedicarsi alla carriera di esploratore, sicuro di trarne soddisfazioni, fama e ricchezza.

All’alba del 1900 si imbarca come terzo ufficiale sulla nave Discovery, sotto il comando di Robert Falcon Scott. Nel programma ufficiale della spedizione ci sono innumerevoli osservazioni geografiche e scientifiche, ma, nelle ambizioni del capitano, il sogno più grande è quello di riuscire ad issare la Union Jack sul ghiaccio del Polo Sud geografico del mondo. Un sogno destinato a rimanere tale. Una volta raggiunta la banchisa polare, un gruppo di uomini comandato dallo stesso Scott e del quale fa parte anche Shackleton, si avvia verso il Polo. I marinai inglesi si rivelano però dei pessimi conduttori di cani da slitta e le loro abilità non sono per nulla adatte alle esigenze delle lunghe trasferte in terra ferma. Il gruppo supera il punto massimo di latitudine sud sino ad allora raggiunto, ma la meta finale resta molto distante e il ritorno alla nave si trasforma in una lotta allucinante con la stanchezza, il freddo, la fame e lo scorbuto.

Rientrato dalla spedizione Shackleton si unisce finalmente in matrimonio con la fidanzata Emilio Dorma, nel 1904. Quelli che seguono sono anni dedicati alla famiglia (dopo le nozze nascono i figli Raymond, Cecily ed Eduard) e alla ricerca di impieghi più usuali; lavora, infatti, come giornalista, diviene segretario della Royal Scottish Geographical Society e insegue per un po’ la carriera politica.

Il richiamo dell’avventura, però, torna a farsi sentire. Nel 1907, Shackleton si imbarca nuovamente verso l’Antartide, a bordo della Nimrod. Questa volta il comando della missione è nelle sue mani. Sono tante le motivazioni che lo spingono in questa nuova impresa, non ultimo il desiderio rivalersi sull’affronto che gli era stato rivolto dal capitano Scott quando lo aveva congedato prematuramente dalla spedizione Discovery, a causa delle condizioni di salute. Una decisione che a molti era parsa come un giudizio negativo sull’adeguatezza di Shackleton alla vita da esploratore. La corsa al Polo Sud è ancora aperta e Shackleton si gioca la sua chance, ma ancora una volta l’obiettivo si rivela troppo ambizioso. Il manipolo di quattro esploratori da lui stesso guidato arriva a 180 chilometri dalla meta, e lì, conscio dell’insufficienza delle scorte alimentari a disposizione, Shackleton decide di fare marcia indietro, salvando così la propria vita e quella dei suoi uomini. Tornato in patria, a chi gli chiede con malizia il perché di quella rinuncia a un passo dal successo, risponde sprezzante: “Meglio un asino vivo che un leone morto“. Sono parole che si riveleranno tragicamente profetiche. Cinque anni più tardi il leone Robert Falcon Scott perirà tragicamente di fame e di stenti assieme ai suoi quattro compagni, durante la marcia di rientro dal Polo. A costo di folli sacrifici i cinque avevano raggiunto l’estremo sud del mondo fra il 17 e il 18 gennaio del 1912 trovandovi però già infissa la bandiera svedese del rivale Roald Amundsen, che li aveva anticipati solo di qualche settimana.

Una volta compiuta la conquista del Polo, la corsa all’esplorazione geografica non si arresta: il nuovo obiettivo è la traversata completa del continente antartico e Shackleton è ancora in gara. Il primo giorno di agosto del 1914 salpa dal porto di Londra assieme a 27 uomini di equipaggio, al comando della nave Endurance. Il destino per loro ha in serbo qualcosa di inatteso e impensabile: non arriveranno mai neppure a mettere piede sulla costa antartica. Saranno invece protagonisti di un’incredibile avventura, che si concluderà il 30 agosto del 1916, quando la ciurma verrà tratta in salvo dopo due anni alla deriva sulla banchisa. Grazie alle decisioni prese da Shackleton in quei 24 mesi, tutti gli uomini della sua spedizione torneranno a casa sani e salvi. Al loro ritorno Shackleton e compagni trovano un mondo sconvolto dall’infuriare della Grande Guerra. Molti di loro, sopravvissuti al gelo del Polo, non esitano a mettere di nuovo in gioco la vita nel fango delle trincee. Lo stesso Shackleton cerca in ogni modo partecipare attivamente ai combattimenti, ma l’età ormai avanzata e i problemi di abuso di alcool, che nel frattempo ha cominciato a manifestare, glielo impediscono. Dovrà accontentarsi di incarichi strategici e diplomatici lontano dal fronte.

Gli anni del dopoguerra sono difficili per l’eroe dell’Endurance. Vari problemi di salute lo tormentano e il matrimonio con Emily vacilla a causa di una relazione extraconiugale, mentre i proventi del libro South e l’attività di conferenziere faticano a ripagare i debiti maturati a seguito della spedizione.

Ancora una volta la routine di una vita “normale” minaccia di soffocarlo e ancora una volta Shackleton reagisce gettandosi verso l’ignoto. Nel mese di settembre del 1921, quasi come un vegliardo Ulisse di dantesca memoria, prende nuovamente il mare a bordo della nave Quest, affiancato dai più fedeli fra i suoi vecchi compagni. Gli obiettivi della spedizione sono tutt’altro che chiari, ma una cosa è sicura: si va di nuovo a sud, verso l’Antartide. Nei primi giorni del 1922 una tempesta costringe la Quest a fare scalo nel porto baleniero di Grytviken. Qui, nella notte del 5 gennaio, l’eterno esploratore attraversa l’ultima soglia dell’ignoto.

Il viaggio dell’Endurance

L’impresa che ha reso immortale il nome di Ernest Shackleton è sicuramente la spedizione Endurance: il fallimento meglio gestito di tutta la storia dell’esplorazione, se non dell’intera storia degli umani fallimenti!

Non c’è esagerazione o ironia in queste parole. Ancora oggi per gli esperti di disaster management quello di Shackleton è il case study per eccellenza, l’esempio perfetto di come gestire al meglio una situazione catastrofica, dal primo all’ultimo dettaglio.

Nei primi giorni di agosto del 1914 l’esploratore irlandese salpò con 27 compagni a bordo di una nave il cui nome sembra già un presagio di tutta la vicenda successiva. Il vascello si chiamava Endurance, un chiaro riferimento al motto di famiglia degli Shackleton: “By endurance we conquer“, ovvero “con la perseveranza vinceremo”.

Obiettivo della missione era la prima traversata completa del continente Antartico, passando per il Polo Sud geografico, ma questa impresa non ebbe neppure inizio. Pochi giorni dopo aver raggiunto il mare di Weddell, nel dicembre del 1914, l’Endurance rimase incastrata fra i ghiacci. Shackleton e i suoi 27 compagni andarono alla deriva sulla banchisa, aspettando che lo scioglimento stagionale liberasse la nave. Invece che allentarsi la morsa dei ghiacci si strinse sempre più attorno alla nave, tanto che, dieci mesi dopo l’incagliamento, l’equipaggio fu costretto ad abbandonarla definitivamente e, il 21 novembre del 1915, Shackleton e compagni assistettero attoniti e impotenti al collasso definitivo dell’Endurance, stritolata e sprofondata negli abissi dell’oceano antartico.

Ora gli uomini erano ufficialmente naufraghi. Per alcuni mesi rimasero accampati sui lastroni di ghiaccio fluttuanti. Quando però lo scioglimento dei ghiacci cominciò a rendere troppo pericolosa la permanenza, il capitano decise di tentare il tutto per tutto: messe in mare le scialuppe superstiti fece rotta verso la minuscola Isola dell’Elefante, uno scoglio roccioso situato a 230 chilometri dalle coste Antartiche e 1300 chilometri a sudovest della Georgia Australe, la terra abitata più vicina.

Il 15 aprile del 1916 i naufraghi approdarono finalmente sull’isola, ma a Shackleton fu subito chiaro che, rimanendo lì in attesa, la loro tragica fine sarebbe stata solo rinviata. Non vi era che un’unica soluzione: mettersi nuovamente in mare per raggiungere le stazioni baleniere della Georgia del Sud. Shackleton fece allestire la Caird, la più solida delle tre scialuppe e su quell’improbabile guscio di noce, assieme a cinque compagni, affrontò il braccio di mare più insidioso del mondo, battuto dai “Cinquanta urlanti” i terribili venti di tempesta che sferzano costantemente il Canale di Drake.

Dopo 1600 chilometri e 15 giorni di navigazione la scialuppa di Shackleton raggiunse finalmente le coste della Georgia Australe, ma… dalla parte sbagliata!

I sei uomini sbarcarono nella baia di Re Haakon, sulla costa meridionale dell’isola. La stazione baleniera di Stromness, si trovava invece sull’opposto versante e per raggiungerla bisognava affrontare una traversata di 50 chilometri a piedi, fra ghiacciai e montagne inesplorate, le cui cime arrivano quasi a toccare i 3000 metri.

Dopo aver lasciato sulla costa i compagni più indeboliti, con i marinai Tom Crean e Frank Worsley, senza tenda e sacchi a pelo, con un ascia da carpentiere e uno spezzone di corda nautica come unici attrezzi tecnici, Shackleton si avviò per quell’ultimo, improbabile viaggio verso la salvezza.

Trentasei ore dopo, il 20 maggio del 1916 Crean, Worsley e Shackleton bussarono alle porte della base di Stromness, contro ogni possibilità, al di là di ogni speranza, oltre ogni difficoltà, confidando solo nell’intelligenza e nella perseveranza. Nei giorni successivi Worsley condusse i balenieri al recupero degli uomini rimasti sull’altro lato dell’isola e il 30 agosto il rimorchiatore cileno Yelcho comparve al largo delle coste dell’Isola dell’Elefante: anche l’epopea dei restanti membri della ciurma dell’Endurance era finalmente giunta a termine.

Shackleton aveva fallito. Ancora una volta. Ancora una volta non era stato all’altezza della sua ambizione. Al di là della felicità delle famiglie ritrovate non ci sarebbero stati festeggiamenti in pompa magna per il ritorno della spedizione Endurance. L’ombra del leone Scott, tragicamente ed eroicamente scomparso quattro anni prima, ancora si allungava ad oscurare il ritorno a casa dell’asino Shackleton. E un’ombra ancora più cupa, quella del conflitto mondiale, gravava sul mondo al quale lui e i suoi marinai erano stati restituiti. Anche la Belle Époque dell’esplorazione era ormai tramontata per sempre.

Eppure loro lo sapevano. I 27 dell’Endurance ne erano perfettamente consapevoli e, un giorno il mondo intero lo avrebbe compreso: Ernest Shackleton aveva compiuto l’impresa più grande di sempre; nella difficoltà estrema aveva salvato la vita di tutti i suoi uomini e anche la loro anima, mantenendo accesa fra loro flebile fiamma della solidarietà e della fiducia reciproca. Con tenacia e perseveranza.

Libri

  • Sud. La spedizione dell’Endurance, Ernest Shackleton, Nutrimenti, 2009
  • Endurance. La leggendaria spedizione di Shackleton al Polo Sud, Caroline Alexander, Sperling & Kupfer, 2009
  • La via di Shackleton, Stephanie Capparell e Margot Morrell, Sonzogno
  • Shackleton in Antartide. La spedizione Endurance (1914-1917) nelle fotografie di Frank Hurley, Nutrimenti, 2012
  • Endurance. L’incredibile viaggio di Shackleton al Polo Sud, Alfred Lansing, TEA, 2011
  • Aurora Australis, Ernest Shackleton, ristampa anastatica in 2 voll., Leading Edizioni, 2011
  • La lunga notte di Shackleton, Mirella Tenderini, Priuli & Verlucca, 2018

Film

  • The Endurance: Shackleton’s Legendary Antarctic Expedition, regia di George Butler  USA, 2001, 97′
  • South, regia di Frank Hurley, Nuova Zelanda, 88′
  • Shackleton’s Captain, regia di Leanne Pooley, USA, 2012, 52′

 “Abbiamo sofferto, patito la fame e trionfato. Simo stati umiliati ma abbiamo raggiunto la gloria. Siamo diventati migliori nella grandezza del tutto. Abbiamo visto Dio nei suoi splendori, ascoltato il testo che la Natura scrive e disegna. Abbiamo raggiunto l’anima nuda dell’uomo”

Ernest Shackleton

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