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Everest in tribunale: chi la fa l’aspetti

C’erano tutte le avvisaglie e anche i presupposti. Le spedizioni commerciali si chiamano così perché offrono un prodotto “alpinistico” a qualcuno disposto a pagarlo. Spesso a caro prezzo. Agli albori (l’era geologica è quella degli anni Settanta dello scorso secolo) c’era Beppe Tenti e il suo Trekking International, la prima e unica agenzia che organizzava trekking (una parola misteriosa). E se lo chiedevi, Beppe ti procurava un permesso e ti dava una mano a organizzare anche una spedizione alpinistica nelle Ande, in Himalaya e Karakorum. La spedizione era però la tua e dei tuoi amici, lui ti dava solo le dritte, i biglietti aerei e i servizi fino al campo base. Fine, da lì in poi la montagna era affar tuo.

Ma siccome l’appetito vien mangiando, negli anni sono nate tante altre agenzie che hanno pensato che si poteva anche offrire servizi d’alta quota fino in vetta sull’Everest. E perché no, anche i servizi accessori, più ossigeno, più sherpa, più assistenza, più comfort oltre che le comunicazioni e persino i massaggi al campo base. Come a dire se vieni come me l’Everest è garantito. Il prezzo è alto, ma cosa può importare a confronto della possibilità di raccontare al Rotary, alle cene dei CEO di tutto il mondo, fosse anche solo alla propria famiglia e comunità che si è arrivati in cima a Tetto del Mondo. Poco conta che tutto questo assomigli quasi nulla all’alpinismo. La montagna famosa comunque c’è e un po’ di fatica comunque la si fa.

Marketing, che genera mille promesse e altrettante aspettative. Ma poi, se rimani al campo base perché la montagna s’incazza (perdonatemi l’espressione) e i tuoi venditori si spaventano e ti mettono in stand-by alpinistico finché non ti rispediscono a casa, incominci a pensare di esser stato preso in giro e, perché no, di essere stato truffato. E scatta la lotta in tribunale, altro che con “l’Alpe”.

È emblematico quello che Tim Emmet dell’agenzia statunitense Madison Mountaineering scrive per spiegare la scelta di fermare al campo base la spedizione all’Everest nel 2019 dopo che gli sherpa, che sono innanzi tutto lavoratori, hanno fatto notare i rischi di caduta di un enorme seracco dall’alto. Rischi per loro e per i clienti. E ancor rivolto a chi lo ha portato in tribunale per un risarcimento: Se fosse stato in una spedizione personale avrebbe potuto continuare l’ascesa da solo. Il motivo per cui le persone mi assumono, credo, non è solo per il supporto logistico, ma anche per prendere decisioni in montagna”.

Ecco, qui sta la questione: l’alpinismo privato della capacità di scelta individuale è ancora alpinismo?

Anche in passato, dentro le squadre di alpinisti delle “vecchie” spedizioni nazionali o in quelle tra amici rimaneva la libertà di fare e agire secondo scienza e coscienza. Walter Bonatti sul K2 sceglie eroicamente di scendere e risalire con l’ossigeno in spalla per i compagni e consentire la vetta alla spedizione. Nel caso delle spedizioni commerciali è invece una questione contrattuale: il CEO, che ha già incassato, perché mai dovrebbe prendersi dei rischi d’immagine e forse penali? Non lo fanno, non è nella loro natura. Loro gestiscono per conto dei clienti che s’illudono d’essere alpinisti liberi al minor rischio possibile. Fine.

Ma a questo punto il CEO dovrebbe mettere in conto e aspettarsi che qualcuno gli chieda indietro i soldi e per questo gli possa fare causa. Anche la storia di Bonatti sul K2 finì in tribunale, ma non certo per non essersi mossi dal campo base: la questione riguardava invece la restituzione dell’onore, che valeva ben più di 50.000 dollari ed è oggi materiale umano sempre più raro.

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