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Inseguendo l’alba sulle Orobie. Il viaggio di Maurizio Agazzi alla ricerca della magia

Staccare da lavoro, recuperare zaino e scarponi e correre in vetta per godere delle prime luci del nuovo giorno. Chi non ha mai sognato una simile fuga, alzi pure la mano. Un proposito non impossibile ma impegnativo, in cui una notte di sonno perso viene ampiamente ripagata dalle sfumature dell’aurora. Quei “sacrifici” che, vien da pensare, almeno una volta nella vita è bene fare. E perché non una volta a settimana?

Deve essere stato questo il pensiero balenato nella mente di Maurizio Agazzi, alpinista bergamasco classe 1970, partito post lockdown per un viaggio all’inseguimento dell’alba tra le vette delle Alpi Orobie. Le montagne di casa, le montagne del cuore, protagoniste già negli scorsi anni di progetti messi in campo da Agazzi, tra cui le 130 cime salite in tre mesi per festeggiare i 130 anni del Cai di Bergamo nel 2003 e la traversata in notturna della intera corona alpina della Valle Imagna nel 2006. Preferisce chiamarlo viaggio Maurizio, piuttosto che progetto, questa avventura estiva che, in compagnia di alcuni amici di vecchia data, lo ha portato a toccare 13 vette in poco più di 3 mesi. Una bella fatica sostenuta al termine di intere settimane di lavoro, che rimanda con la mente ad un alpinismo d’altri tempi, a personaggi d’altri tempi quali Agostino “Gustin” Gazzera, l’alpinista operaio. Un piccolo sogno personale che ha portato in tanti a emozionarsi da lontano grazie ai magici scatti dell’alba pubblicati in diretta sui social.

Possiamo parlare di una avventura nata tra le vette di casa per effetto del lockdown?

“In merito alla scelta della destinazione, il peso del lockdown è stato in realtà decisamente limitato, in quanto io sono particolarmente innamorato delle Orobie. Quasi tutti i miei precedenti progetti sono stati legati alle Orobie. Piuttosto potremmo dire che la scelta delle albe sia stata dettata dalla situazione attuale. Durante l’estate la montagna quest’anno è stata presa d’assalto e praticamente le ore notturne sono diventate il momento più intimo e bello per viverla in completa solitudine. Da qui è nata l’idea di salirle di notte e arrivare in vetta per riuscire a godere di quell’attimo magico che è la nascita di un nuovo giorno”.

Quindi l’idea era già nell’aria o nel cuore da tempo…

“Sì, era da un po’ che riflettevo sul proposito di andare a caccia di albe, dopo aver accumulato parecchia esperienza sulle Orobie. Conoscere bene il territorio, a memoria quasi, è un elemento imprescindibile per la progettazione di un viaggio simile, perché salire in montagna di notte aumenta i rischi. E la sicurezza è un elemento di estrema importanza da non sottovalutare mai”.

Ci racconta di come l’idea si è trasformata in azione?

“A dirla tutta, l’avventura è iniziata per caso, scherzando sulla mia idea di inseguire le albe in vetta con i miei compagni di vecchia data con cui poi si è venuta a creare la cordata. Siamo partiti con l’intento di goderci semplicemente una manciata di aurore insieme, al termine di una settimana di lavoro, e invece è diventata una dipendenza. Abbiamo salito in totale finora 13 vette, una a settimana. Oltre tre mesi di divertimento. Alcune in realtà le ho ammirate in solitaria. I miei compagni ne hanno salita qualcuna in meno.

Le prime due o tre notti sono state molto pesanti. Perché alle 2 o le 3 di mattina, anche se si camminava, la stanchezza affiorava. Lavorando tutti praticamente si arrivava al venerdì sera stanchi morti, si prendeva l’attrezzatura e si partiva per una notte senza sonno. In caso di meteo inclemente abbiamo rimandato un paio di volte la partenza al sabato. In considerazione della fatica cui ci saremmo dovuti sottoporre settimanalmente, ci eravamo prefissati un obiettivo banale di 3 o 4 vette. Anche perché il lunedì si doveva tornare al lavoro. E scendere da una montagna con una notte di sonno arretrato sulle spalle, fa un po’ effetto jet lag”.

Cosa vi ha fatti passare da una manciata di vette a 13?

“Due elementi fondamentalmente, anzi tre. Prima cosa che i nostri timori di arrivare al lunedì distrutti sono svaniti quando, settimana dopo settimana, abbiamo notato che il fisico iniziasse ad abituarsi. E le notti da pesanti diventavano piacevoli. Seconda cosa, l’affiatamento di squadra, che è cresciuto come il numero delle vette. Senza i miei amici a spronarmi credo che mi sarei fermato a 4 albe. Siamo arrivati a 8, che era l’obiettivo bello. E poi a 12, che era l’obiettivo impensabile. Terzo elemento a darci forza è stata la compartecipazione di chi ci seguiva sui social. Ci siamo resi conto che non fosse solo un progetto significativo per noi che andavamo su a goderci le prime luci del giorno, ma che colpiva anche a distanza. In tanti hanno iniziato letteralmente ad attendere il sabato mattina o la domenica per veder comparire su facebook la nostra nuova foto dell’alba. Lì mi sono reso conto che quel proposito un po’ folle nato tra amici si stesse rivelando forse la mia idea più bella degli ultimi dieci anni. Vorrei sottolineare che le vette salite non siano state scelte sulla base della popolarità ma dei ricordi personali ad esse legati”.

A suo avviso, a cosa è dovuto un tale riscontro mediatico? 

“Al di là della magia dell’alba, che affascina tutti, credo che la gente abbia visto in ciò che facevamo noi quello che potrebbero fare anche loro. Staccare da lavoro e correre in vetta a godersi un’alba. Nessun progetto da record insomma. Tanto è vero che io preferisco definirlo viaggio. Mai mi sarei aspettato un responso tanto affettuoso. Sono arrivati tanti commenti che davvero ci hanno colpiti dritti al cuore”.

Torniamo un attimo alle 13 vette in tre mesi. Siete stati fortunati a livello meteo.

“Siamo stati fortunatissimi, non solo fortunati. Ogni settimana c’è stata sempre almeno una notte tra il venerdì e il sabato, che ci ha permesso di andare in cima. A volte rischiandocela un po’. Alcune volte le previsioni non erano delle migliori e quindi si partiva con la speranza di farcela. E sono state alla fine le notti più belle, in cui dalla vetta abbiamo potuto ammirare il mare di nuvole. Direi che calza bene il motto ‘la fortuna aiuta gli audaci’”.

C’è un aneddoto in particolare di questo viaggio che merita più di altri?

(ride) “La notte in cui sono salito da solo sul Pizzo del Diavolo della Malgina (2924 m). Arrivato a 2600 m ho iniziato ad avere freddo e ho pensato ‘Mi vesto un attimo’. Ho aperto lo zaino, notando che la bottiglia d’acqua si fosse aperta. Non avevo praticamente alcun indumento asciutto, mi trovavo lì a mezze maniche e dovevo arrivare quasi a 3000 metri. E ho dovuto agire un po’ di strategia. Il primo pensiero è stato di rinunciare e tornare giù, anche perché c’era vento, era appena transitata una perturbazione. Poi ho pensato di fermarmi in un anfratto attorno ai 2500 metri, per proteggermi per un po’, evitando di salire in cima in eccessivo anticipo sull’alba. Quindi ho calcolato le tempistiche giuste per soffrire il meno possibile il freddo in vetta. Alla fine sono arrivato su, con le mani tremolanti, ho scattato un paio di foto e poi sono sceso di corsa”.

Il ricordo invece più bello?

“Non credo si possa identificare un ricordo in particolare. Piuttosto la sensazione di squadra che abbiamo vissuto, quella mi resterà impressa nel cuore. Nel corso degli anni mi sono concentrato su avventure in solitaria e avevo perso di vista Filippo, Luca e Roberto (Filippo Zaccaria, Luca Ricuperati e Roberto Morarelli, ndr). Ci siamo dunque ricongiunti non solo post lockdown ma proprio post parentesi di vita. Un po’ come una band, che si prende una fase di pausa e riflessione durante la quale i vari componenti fanno album solisti e poi tornano con un progetto congiunto”.

L’avventura è da considerarsi conclusa?

“La difficoltà che stiamo affrontando attualmente è che fatichiamo a staccarci dal progetto. A fermarci sarà probabilmente il meteo. Soprattutto non c’è intenzione di esporci a rischi crescenti con l’arrivo dell’inverno. Le notti già in estate sono delicate in montagna. Con la neve a 3000 metri inizia ad essere più alto il rischio del divertimento. Meglio godersela fin dove ce la siamo goduta, senza che diventi una ossessione. Non escludo che, qualora nel mese di novembre e dicembre, come negli scorsi anni, dovessero presentarsi condizioni molto poco invernali, si possa optare per qualche altra vetta”.

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4 Commenti

  1. Maurizio, da un vero Ambasciatore delle Orobie, riconosciuto addirittura con la medaglia d’oro del CONI, ci si aspetta sempre qualche sorpresa e tu non deludi mai i tuoi amici! Bravi ragazzi ci avete regalato una nuova avventura davvero entusiasmante!!!! E se i meteo non lo permetterà noi aspetteremo la “nuova stagione” come nelle serie TV!!!! Con affetto, le Agazzine!!!!

  2. Si nota abbondanza di croci metalliche di varia e fantasiosa fattura.Sono veramente espressione di fede o autocompiacimento per abilità locale di fabbri ferrai e carpentieri e portatori e muratori in concorrenza con altri?
    Il top che ho visto e’ enorme croce in acciaio inox contornata di lampadine led… una sfida a superarla rivolta ai colleghi o paesi o quartieri o parrocchie vicini …e pure ad ottenere o pagare sollevamento e trasporto in elicottero.

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