Storia dell'alpinismo

Nord del Gasherbrum I, in viaggio tra i ricordi verso la porta del Karakorum

Stefy! Andiamo al Gasherbrum, dalla Cina”. La macchina del tempo mi riportava indietro di 27 anni. Pechino, Urumchi, Kashgar, Taklamakan, Yilika, Aghil Pass, Shaksgam e il K2.

Era il 1983 quando a Yilika ci arrivai su un autobus cinese a porte scorrevoli. Quella volta eravamo dentro un canyon dove in fondo scorreva un fiume giallo e impetuoso che visto dall’interno del bus era anche inquietante. L’autista cinese scalava le marce con le mani guantate di bianco, pigiando con forza sul pomo nero situato alla sommità della lunga barra metallica alla sua destra; stavamo attraversano un cono di ghiaia che era scivolato dall’alto della montagna fino a lambire il fiume. La ghiaia grugniva sotto i pneumatici, sbatteva con frastuono metallico sul fondo del bus. L’uscita dalla pericolosa situazione era a sinistra, lasciando lo Yarkand River, da lì il respiro del cielo diventava più ampio e azzurro. Più avanti c’erano alberi e una valle si apriva di fronte a noi, ampia e gentile, sullo sfondo cime imbiancate.

Era l’oasi di Yilika, dove la strada, tutta cinese, terminava a nord davanti a un ponte in costruzione e contro il Karakorum a sud. I pneumatici scivolavano sulla ghiaia e, mentre l’autista accelerava, il predellino del bus, che osservavamo dalle portiere a soffietto aperte, s’avvicinava pericolosamente al terreno e il mezzo s’inclinava sempre più. Scendemmo tutti sani e rimbambiti dal viaggio e dalla quota. Un piccone, un badile e le mani di tutti servirono per spostare la ghiaia, riempire il buco. Tutti spingevamo il bus che ruggendo sotto i colpi d’acceleratore si mosse, si raddrizzò e riprese il suo difficile e lento commino per qualche centinaio di metri fin sulla piana fluviale e ampia dell’oasi.

Dietro una quinta morenica in un’ampia valletta riparata da quinte di ghiaia cementate dal fango stazionavano al pascolo un’infinità di cammelli; al centro c’era un gran mucchio di fieno, cani, asini e pastori kirghisi accovacciati attorno a fuochi improvvisati tra quattro pietre con sopra pentole e teiere. Di etnia turco mongola, sono pastori, commercianti e pure briganti.

27 anni dopo la strada era ben asfaltata e dalla gola rocciosa con il fiume sul fondo, che riconobbi, la Toyota uscì ancora verso sinistra, ma questa volta più in alto rispetto al fiume. Da lì vidi YIlika, l’oasi dei miei sogni, che ricordavo con l’acqua cristallina, gli alberi e il prato tutt’attorno.

Nel mezzo della piana alluvionale c’era invece una cava di ghiaia per la costruzione delle strade dell’impero cinese in queste lande di periferia. Un gran nastro trasportatore faceva cadere dall’alto, nei cassoni di enormi camion, un filo continuo di ghiaia. Riempiti, alcuni se ne andavano ingranando le marce lunghe; altri ricollocavano il materiale in grandi cumuli. Le ruspe erano in movimento e grandi cilindri metallici s’innalzavano da trespoli di ferro; c’erano recinti e filo spinato. Qua e là c’erano ancora impolverati e sparuti alberi di tiglio e gelso. Il torrente cristallino era sparito, intubato e sostituito da grandi pozze d’acqua fangosa.

Dopo un tornante ci fermammo davanti a una stanga rossa e bianca, con un cartello con una scritta in cinese, quatto uomini in divisa verde con il mitra in posizione di tiro ci intimavano l’alt, oltre c’era la palazzina del quartier generale dell’avamposto militare cinese. La faccia terrorizzata di Alì, la nostra giovane guida di etnia uiguro (un universitario che prima di noi aveva accompagnato un paio di trekking su percorsi turistici), la diceva lunga sulla critica situazione nella quale ci trovavamo. Ci requisirono i passaporti e dopo qualche ora di attesa trascorsa nell’auto con le portiere spalancate e sulla strada, camminando avanti e indietro mentre il vento e il sole logoravano le nostre certezze, un militare con chissà quale grado ci fece attraversare la sbarra. Ci accomodammo in un ufficio, Alì, che parlava cinese e inglese, tradusse le brusche parole di un ufficiale piuttosto scocciato e ci disse che potevamo andare oltre il checkpoint, ma che da lì in poi eravamo in una specie di terra di nessuno e che loro, i militari, non rispondevano di quel che ci sarebbe potuto accadere; ad ogni modo i nostri passaporti se li tenevano loro e li avremmo potuti riavere al nostro ritorno, visto che qualche alpinista europeo  aveva fatto il furbo e dopo essere arrivato in vetta era sceso sul versante sud pakistano e loro, i militari cinesi, erano finiti in una montagna di guai. Non ci credevo, stavano parlando di Karl Unterkircher, Daniele Bernasconi e Michele Compagnoni, membri della mia spedizione alla inviolata parete nord del Gasherbrum II di tre anni prima. Il 20 luglio del 2007, dopo essere arrivati in vetta in stile alpino (grandissima salita) i tre erano scesi dal versante pakistano, più facile e i problemi diplomatici non mancarono. Questo era solo l’ultimo strascico di quella loro decisione. E toccava proprio a me, che avevo voluto e finanziato quella spedizione e ora anche questa: Daniele infatti era ora al Gasherbrum 1 e io e Stefania stavamo proprio andando a raggiungere lui e i suoi due nuovi compagni.

Acconsentimmo, ovviamente, a lasciare i passaporti e ormai al tramonto risalimmo sull’auto che superate le morene laterali della piana di Yilika prese a correre lungo la strada che in una ventina di minuti ci portò al villaggio kirghiso di Sesikamucun, quattro case mal messe. Sbucarono bimbi e uomini imbacuccati in pastrani verdi, copricapo in pelo e barba pendant. In pochi minuti attorno a noi si fece una grande agitazione. Volevamo piantare le nostre tende, ma il camion sarebbe arrivato solo il mattino dopo. L’autista si era fermato a casa sua per la notte, a qualche chilometro da dove eravamo. La famiglia del maggiorente offrì ad Alì la sua casa e in gran fretta si trasferirono in un’altra baracca di terra. Avevamo i sacconi da viaggio con noi (prima regola: mai separarsene) con dentro indumenti e sacchi a pelo. Dopo aver acceso una lampada a gas, cenammo “dentro casa” con riso, uova, verdure, chapati e per fortuna anche un paio di birre cinesi. Stefy era, come dire, preoccupata per il “giaciglio” buio e un poco inquietante per la probabile, diceva lei (a ragione) presenza di insetti. Lo perlustrò attentamente con una pila frontale, ma non ne trovò troppi. Dopodiché si imbacuccò da capo a piedi, indossò anche le mutande lunghe di Soro Dorotei (che gli avevo rubato alla spedizione al Nanga) e con una berretta in testa, pile, piumino leggero si infilò nel sacco a pelo con fuori solo gli occhi. Non prese sonno, se non all’alba. La colazione (si fa per dire) tardava ad arrivare, come sempre il primo giorno tutti se la prendono comoda. Ma nemmeno i nostri bagagli erano arrivati.

Avevamo una ventina tra sacconi e bidoni blu da 60 e 120 litri di capienza, che corrispondevano al nostro bagaglio, più viveri, tende e accessori. C’erano anche viveri e attrezzature per Daniele Bernasconi, Hervé Barmasse e Mario Panzeri che ormai da una settimana erano al campo base del Gasherbrum I per tentarne l’inviolata parete nord. Avevo voluto fortemente che questi tre amici potessero realizzare questo mio sogno, com’era accaduto due anni prima con il GII. Mi sarei accontentato di fornirgli tutti i mezzi, raggiungendoli al base, sotto la montagna.

Avevo visto le foto del GII e del GI e poi i film di quelle pareti che Kurt Diemberger ci aveva mostrato dopo la sua perlustrazione nel 1982 con l’alpinista bellunese Bubu e dopo la nostra spedizione al K2 dell’83 durante la quale fece una ricognizione ai Gasherbrum con Pierangelo Zanga e Gianni Scarpellini. Kurt Aveva anche aggiunto con parole sicure che il GI e GII erano i due ultimi grandi versanti di Ottomila rimasti inviolati. In realtà disse “vergini”, arrotando in maniera prolungata la R. E poi il GII è come la lama di una spada nel cielo, aveva aggiunto. Dopo la salita del K2 che effettuai nel 1983 giurai a me stesso che sarei tornato nella Shasgam Valley per salire i due Gasherbrum. Un pensiero che s’era infilato tra i lobi del mio cervello come l’arrosto tra i molari.

Assolto il primo impegno con il GII, eccomi qui per il secondo.

Pioveva e l’auto girò a destra lasciando Yilika alle spalle; raggiungemmo dopo un paio d’ore una dorsale ghiaiosa dove degli operari cinesi stavano costruendo una nuova strada, nel nulla. Stefy, Ali, io e i nostri zaini fummo lasciati lì. Tutto il bagaglio, invece, con calma e a dorso di cammello avrebbe raggiunto il luogo del campo serale: un’oasi nel fondo della valle che porta all’ Aghil Pass, la porta di accesso al Karakorum.

Credevo prima e sperai poi che Alì sapesse dove eravamo e conoscesse il sentiero che ci avrebbe ricongiunto alla carovana dei nostri 29 cammelli. Sbagliavo clamorosamente. Dovetti cercarmi la strada tra piane alluvionali e alte barriere moreniche che precipitavano sul fiume Aghil e solo dopo ore di saliscendi ci infilammo in un ripido canale di ghiaia che ci portò sul fondo e da lì al campo, accolti dal bramito inquietante dei cammelli. Per la verità c’era anche parcheggiata una motocicletta. Montammo la nostra tenda tra un ruscello e un muretto, sul fondo ci misi un paio di materassini di poliuretano con sopra due splendide trapunte di lana damascate con colori spettacolari, oro compreso. Accompagnati dal ruminare e dai rumori corporei dei cammelli prendemmo presto sonno.

I trekking son tutti uguali, ma se quello che stai percorrendo si è mitizzato dentro la tua memoria le emozioni e anche le delusioni sono in agguato.

Nell’83 quel percorso fu per me un incubo. Avevo 28 anni e dato che il leader della nostra spedizione era dovuto rimanere in Italia, fui nominato “capo spedizione” facente funzioni (così si direbbe in burocratese) di quella carovana biblica diretta al K2 composta da 120 cammelli, 30 cammellieri con una sessantina d’asini, un gregge di 60 pecore, una decina di cani, 32 italiani e 8 cinesi tra  funzionari cuochi e aiuto. Il ruolo di “Capospedizione” l’avevo già esercitato a Pechino e poi a Khasgar con le autorità locali, terminando tutte gli incontri con una serie infinita di “gambei” (il cin cin cinese) a base di Maotai, la grappa cinese alla quale volentieri sacrificano parecchie levate di gomito. Proseguii a fare il “capo” con i miei molti amici di spedizione lungo il percorso in bus che da Kashgar, attraverso il deserto del Taklamakan e la catena del Kunlun, ci portò a Yilika. Ma la “carovana biblica” sarebbe stata la vera prova del nove. Avevo 28 anni, ero il “capo spedizione”, per quanto supplente, e il più giovane di tutti quelli che erano lì, tra cui spiccavano alcuni alpinisti importanti come Kurt Diemberger, Sergio Martini, Giuliano De Marchi e Fausto De Stefani, mentre altri erano guide alpine affermate come Luca Argentero e Soro Dorotei.

Con Stefy è bello viaggiare. Lei veniva da un tempo complicato per la sua salute e credevo fosse, come dire, fragile. Invece si trasformò man mano che entrava nel mondo della quota, delle cime, delle fatiche; nella wilderness diventò, come sempre in montagna, il paradosso di se stessa. Nel senso che la sua totale e disinibita socialità e empatia si trasformano in serena, austera introspezione, quasi isolamento, non dall’ambiente nel quale galleggia totalmente immersa, ma dall’umanità. Detta così è un po’ pesante, ma più o meno questa è la condizione del viaggiare a piedi con lei in montagna.

Le capre erano sparse lungo gli ampi versanti delle montagne, migravano lentamente da un luogo all’altro in gruppi di due-trecento: macchie chiare che si spalmavano sui pascoli allungandosi, concentrandosi e prendendo forma a secondo della direzione e della bontà del pascolo. L’odore pungente dell’urina delle gregge e i recinti degli animali ancora vuoti annunciarono l’avvicinarsi della Karka, un paio di casupole di sasso con attorno bimbi lerci che giocano sulla riva di un rigagnolo “di servizio”; ci corsero incontro, Alì che con tono autoritario alzò la voce, senza peraltro riuscire a tenerli a bada. Lo fece meglio il nostro sirdar kirghiso, Haman, che alzando il bastone al cielo fermò tutto e tutti: bimbi, carovana e persino le pecore.

Ci ospitarono, ci dettero latte e caglio, dello yogurt essiccato e noi ricambiammo con cracker e cioccolato. Poi mentre le greggi convergevano verso la Karka, le donne ci offrirono tè al gelsomino. Haman aveva già montato la nostra tenda con dentro materassino, trapunta, sacco a pelo e sacconi da viaggio. All’imbrunire camminammo tra le capre e le pecore che belavano e si spintonavano per entrare nei recinti; era come essere immersi in un mare di lana puzzolente che si muoveva. Seguì la mungitura, poi tutto si fermò. La luce diventò fredda e, con un lungo espiro, andò a esaurirsi. Noi eravamo comodi nella nostra tenda e ci addormentammo cullati dal belato sempre più rado dei nostri vicini.

Nel freddo del mattino saremmo saliti all’Aghil Pass, 4805 metri -quasi in cima al Monte Bianco – e poi scesi dall’altra parte.

C’è un piccolo un tondo lago scuro sul fondo dell’ampia conca valliva di pascoli, ghiaie e rocce che precede l’Aghil. Attorno crode che ricordano le Dolomiti. Avevamo camminato di buon passo e il lago con la sua bellezza ci indusse a una sosta per delle foto, c’erano delle anatre con i loro pulcini. Poi prendemmo su dritto fino all’Aghil, il loggione del gran teatro del Karakorum, da dove, lassù, lo sguardo punta naturalmente a sinistra verso i Gasherbrum; tutt’attorno cime, montagne, creste e ghiacciai; in basso, là in fondo, c’era il proscenio grigio e immenso lungo 50 chilometri. Era solcato da un serpente marrone d’acqua che si contorce tra l’una all’atra riva e talvolta risale per valli laterali sotto alte cime. Uno spettacolo della natura senza confine dell’immaginazione e dello stupore.

Nell’83 mi fermai per più di tre ore sull’Aghil a veder scorrere la carovana dei nostri cammelli, asini, capre, cani e kirghisi. Non finivano mai e Kurt, grande della storia dell’alpinismo e gran cineasta, era lì insieme a Julie Tullis che registrava il sonoro e faceva il “ciak”. Riprendeva, con la preziosa Arriflex 16 millimetri, lo scorrere lento e caracollante dei quadrupedi carichi di masserizie e attrezzature che sfilavano tra le sfumature dell’ocra e del terra di Siena delle ghiaie, del verde pallido evanescente che si trasforma in brillante in prossimità dei corsi d’acqua e dei neri degli scisti di chissà quale provenienza. Avevo guardato a lungo cercando di penetrare con lo sguardo le labili foschie che salivano dalle ghiaie arroventate del fondo valle, da lì cercavo di individuare il percorso di Ardito Desio del 1929 che, lasciato il Duca di Spoleto sul Baltoro, s’era arrampicato sul ghiacciaio Mustang fino al passo omonimo per poi prendere la discesa lungo il Sarpo Laggo Glacier e poi lungo la valle fino all’oasi di Sughet Jangal. Verde con acqua limpida, fresca, ricca di animali e pesci. Poco oltre, nel punto di incontro tra queste mastodontiche valli che scendono dai ghiacciai e dalle montagne più grandi della terra, c’è nel mezzo d’una spianata fluviale il Tek-ri, quel che rimane di un affioramento roccioso di 15 metri di altezza, una stele che segna i confini di quel territorio. Qui Desio, alla sua destra, aveva incrociato la valle Shaksgham e l’aveva risalita per 50 chilometri fino a esplorare il ghiacciaio Gasherbrum e entrare nell’ultima grande barriera naturale, che lo fermò: il ghiacciaio Urdok, prima del passo Indira-la. Impiegò 28 giorni, andata e ritorno. Era il 1929. Non riuscivo a capacitarmi di come quell’uomo, che pure si chiamava Ardito, solo con un gruppo di portatori hunza e balti, avesse potuto aver il fegato di inoltrarsi in un’esplorazione geografica lunga, complessa, pericolosa come quella. Lo adoravo. Ma ancor più lo ammiro se guardo, leggerlo a fondo mi è più difficile perché non ho una specifica competenza geologica, il risultato del lavoro che l’editore scientifico, l’olandese E.J. Brill, pubblicò in 9 volumi. Un’opera scientifica formidabile sul Karakorum, una cartografia anche di dettaglio di formidabile interesse e precisione. Bisognerebbe ricordarsi di tutto questo quando si parla di Ardito Desio e lo si giudica con il metro delle piccole cose dell’alpinismo e del tifo o ancor peggio dell’ideologia.

Per continuare il racconto: 

In viaggio verso il CB sotto la spaventosa parete Nord del Gasherbrum I
Nord del Gasherbrum I: si torna a casa tra difficoltà e sogni

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3 Commenti

  1. luogo stupendo, la zona della valle di shaksgam vorrei davvero vederla con i miei occhi. peccato per la burocrazia e i costi inavvicinabili, inaggirabili nemmeno con i peggiori trick…

    però: “Kurt Aveva anche aggiunto con parole sicure che il GI e GII erano i due ultimi grandi versanti di Ottomila rimasti inviolati.”
    ne è sicuro? a me così senza pensarci troppi ne verrebbero in mente almeno altri due, se possibile ancor più grandi!

  2. Grazie Agostino per aver fatto innamorare del karakorum e tutte le sue cattedrali e soprattutto del k2.,anche persone come me che purtroppo non hanno avuto la fortuna di vistlitare questi posti magici come concordia e le sue cattedrali come dice Francesca Cortinovis,e di scalare montagne uniche come il K2 Gasherbrum e Broad peak
    Grazie per tutti i tuoi articoli e grazie per questo stupendo articolo.
    L amore che hai x il K2 e l esperienze difficili familiari che hai come le avuto,mi fanno avere ancora più rispetto ed empatia per la passione delle tue straordinarie esperienze.
    Ho passato notti intere a guardare video delle spedizioni che hai fatto e che hai diretto.
    Grazie

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