Storia dell'alpinismo

Nord del Gasherbrum I: si torna a casa tra difficoltà e sogni

Eravamo al campo base. I ragazzi avevano preparato una piazzola ben spianata, con ghiaia fine in superficie, a ridosso della tenda mensa. Montammo la nostra tendina con solo i materassini di espanso, sopra ci collocammo un paio di grossi sacchi a pelo aperti. Lo sforzo degli amici di tenerci comodi poteva così essere ulteriormente premiato a conforto delle nostre schiene. Se penso a come e dove ho dormito da ragazzotto un po’ mi vergogno di questa ricerca di comodità, per quanto relativa.

La montagna, quasi pudica, si era nascosta dietro cortine di nuvole e nebbie e solo verso il tramonto riapparve in tutta la sua potente maestosità e eleganza, i colori tenui dell’arancio e del rosa si spalmavano sui suoi nevai e rendevano meno arcigne le poderose muraglie di roccia grigia, nera e i lividi colatoi di ghiaccio.

Seduto su un bidone blu con gli occhi rivolti alla parete del GI ero incantato e sgomento, invaso dallo stupore dell’uomo che si trova di fronte alla potenza della natura nella sua più grandiosa espressione. Non riuscivo a muovermi. Stefania se ne occorse, si avvicinò, mi prese la mano e guardò con me lo spettacolo della natura, che quel suo gesto rese meno duro e drammatico, più umano.

Avevo studiato per anni nei minimi dettagli le foto di Kurt dell’1982 e ‘83 e mi ero convinto che la parete poteva essere salita con una certa sicurezza attaccandola sulla sinistra, raggiungendo la cresta nord est e progredendo in una specie di cresta diagonale che puntava alla vetta. Avevo con attenzione, per ore, valutato i pericoli, le traiettorie di cadute dei seracchi, ma anche delle cornici di cresta e dei possibili distacchi dei pendii. Sulla desta la montagna appariva invece arcigna, sotto il tiro dei grandi seracchi pensili che si formavano dalla rottura dei nevai della parte alta dove si formavano. Forse, ma solo forse, poteva esserci uno spiraglio ancora più a destra in direzione del colle del Gasherbrum Là, che con i suoi 6900, di quota è lo spartiacque tra Cina e Pakistan. Osservavo ogni dettaglio, ogni singolo canale, cresta, colatoio, parete, risalto, seraccata. Impressionante. La via logica nella mia testa rimaneva quella che avevo individuato.

Il secondo giorno guardai la parete per ore, nel frattempo i ragazzi salivano il ghiacciaio e la gran seraccata che ne componeva la parte centrale per poter istallare definitivamente un campo base avanzato oltre i 5000 metri.

L’unica strategia era quella di provarci, metterci mani e piedi sopra, chiudere il cervello e progredire. Provarci un giorno, almeno, per vedere come andava. Certo, ci volevano una determinazione e un coraggio da leoni, possibilmente affamati. Ma da quelle parti, in quel momento non c’era fameHervé propendeva insistentemente per verificare la fattibilità della via in direzione del Gasherbrum là; era però evidente che si trattava di un tentativo per distrarsi dall’obbiettivo vero, che non era la via da me indicata, ma di fare un tentativo e metterci sopra le mani. Berni gli andava dietro e Mario, che ai suoi tempi un leone lo era, l’appetito l’aveva perso con il procedere degli anni. Avevo l’impressione che quella non fosse la loro parete. Forse era soltanto il mio sogno giovanile, la mia promessa, ormai scaduta come le mie forze e la mia capacità di affrontare un obiettivo così impegnativo. Chissà se 25 anni prima avrei attaccato la montagna senza pensarci troppo come feci sul K2 o al Gasherbrum. Era evidente invece che l’elemento che in quest’occasione era subentrato era proprio il “pensarci troppo”.

Continuai a guardare intensamente la montagna e quando i ragazzi tornarono ci sedemmo davanti a lei a parlare, ma era evidente quel che doveva accadere. Le spiegazioni erano di gran lunga più numerose delle soluzioni e questo tanto bastò. Non insistetti e presi l’iniziativa di dire basta, del resto ero io il capo spedizione, almeno formalmente. Avevamo portato lì tutto l’occorrente (tende, gas, viveri attrezzatura alpinistica) e certo non saremmo riusciti a riportare indietro tutto. I viveri vennero dispersi sul ghiacciaio, le splendide bresaole certamente qualche carnivoro le avrò più che gradite.

Al mattino io e Stefy girammo la schiena alla montagna: un gesto che attenua, almeno per quel che mi riguarda, il senso di malinconico vuoto che il rito del rientro a casa mi provoca. Iniziammo la discesa.

I ragazzi prima di lasciare anch’essi il campo avrebbero impacchettato tutto il possibile affinché i nostri kirghisi con i loro asini potessero nei giorni seguenti riportare tutto a valle. Ci incrociarono che eravamo ancora sulle morene dell’Urdok, correvano come ibex; noi ce la saremmo presa con più calma.

Risalimmo il canalone di ghiaia nera e prendemmo a scendere verso il ghiaccio Gasherbrum. Faceva caldo in quelle giornate di fine luglio e il sole era alto nel cielo. Tutto mi pareva immobile, sospeso come se il tempo fosse assorbito dallo spazio e ci proponeva un paesaggio che forse non era di questo mondo o forse di un altro tempo. Irreale. Eravamo all’imbocco di un’ampia conca sabbiosa, ai lati c’erano dorsali di ghiaie e qualche croda che ne emergeva, di fronte, qualche centinaio di metri oltre nel punto della sua massima larghezza, era sbarrata da una morena ormai addomesticata e rotondeggiante. Sullo sfondo il blu, “dipinto di blu”.  C’era un ibex sulla destra, un animale possente: lo si intuiva dalla dimensione fisica e dal modo di incedere. Iniziò ad attraversare verso sinistra, esattamente sul filo della skyline. Vedevo le zampe muoversi armoniose, il corpo forte perfettamente parallelo al terreno, il collo proteso in avanti e il capo alto, incoronato. Uno spettacolo che ci tolse il fiato e ci riempì di stupore e di energia positiva, naturale.

Ripercorremmo a ritroso il Ghiacciaio Gasherbrum e nel tardo pomeriggio arrivammo finalmente al campo casa per un abbondante cena e il giusto sonno che, come sempre, dopo la discesa a una quota meno elevata è particolarmente piacevole e ristoratore.

Dovevamo lasciare nei giorni successivi la valle Shaksgham e per questo, fin dal momento della nostra decisione di abbandonare il tentativo di salire il GI, avevamo telefonato all’agenzia cinese perché provvedesse a inviarci i cammelli per il rientro. Al mattino successivo, senza fretta, iniziammo a impacchettare tutto. Il tempo di attesa dell’arrivo dei cammelli era di 3 o 4 giorni, ma la sera ricevemmo una telefonata dalla nostra agenzia italiana che ci informava che da Kasghar non avrebbero inviato cammelli finché non fosse saldato interamente il conto della spedizione. Controllammo che i pagamenti fossero in ordine e così risultava. Capimmo poi che i cinesi volevano in anticipo anche il saldo finale. Nel frattempo, i portatori kirghisi avevano aumentato il loro costo e dunque bisognava rifare i conti. Scoppiò un’altra grana: i kirghisi, che avrebbero secondo il contratto iniziale dovuto portarci al campo base (quello sull’Urdok), chiedevano un ulteriore e abbondante risarcimento per i trasporti dal campo casa al CB affermando che, per loro, quello era un percorso aggiuntivo.

Non ci fu nulla da fare, tantomeno rifacendo con l’aiuto dell’ufficiale di collegamento cinese e di Alì i conti. Avevo dei soldi in contanti con me e fatti i conti potevamo esaudire un terzo delle richieste. Il resto avrebbe dovuto essere versato dall’Italia alla nostra agenzia che avrebbe provveduto a pagare quella cinese. Quando però le cose si mettono di traverso, raddrizzare la situazione spesso è veramente difficile.

Erano passati ormai tre giorni e decidemmo che io e Stefy saremmo partiti la mattina successiva approfittando della presenza lì attorno di una mezza dozzina di cammelli lasciati provvidenzialmente in quei magri pascoli a brucare. Mario, Hervé e Daniele ci avrebbero seguiti appena i cammelli partiti da Yilika li avrebbero raggiunti e riportati “in salvo”.

Lasciammo il campo casa che il sole faceva capolino dietro la cresta del GII e con i nostri kirghisi, cammelli e cani prendemmo a camminare sull’immenso acciottolato della valle Shaksgam nella direzione contraria a quella dall’arrivo. Ci fermammo dopo una mezzoretta. Il GI aveva un velo di nuvole attorno alla cima: non era per schernirci, ma forse per ricordarci di tornare. Non ebbi la sensazione di lasciare indietro qualcosa.

A sera eravamo oltre Durbin Jungal, ai piedi del cono detritico che iniziava la salita verso l’Aghil. I cammellieri, i cammelli e i cani si fermarono, allestirono un campo e noi montammo lì vicino una tenda. Ricaricai i Turaya e mi misi in contatto con il nostro campo base: mi dissero che avevano sentito l’agenzia cinese. La chiamai anche io e ci disse perentoriamente di fermaci dov’eravamo e che voleva parlare con uno dei nostri cammellieri. Così facemmo, ma mal ce ne incolse: i kirghisi cambiarono atteggiamento e ci dissero che da lì non si sarebbero mossi. Chiamai l’ambasciata italiana a Pechino, mi rispose un giovane diplomatico a cui spiegai la situazione e chiesi di chiamare l’agenzia cinese e che si facessero garanti loro per la nostra sicurezza. Le giornate erano peraltro molto calde e l’acqua dello Shaksgam cresceva ogni giorno di più. Furono telefonate concitate. I nostri kirghisi si riunirono tra loro a confabulare, poi uno di loro venne da Alì e gli disse che loro non si sarebbero mossi se non gli pagavamo una specie di riscatto di qualche migliaio di dollari. Le cose non si stavano mettendo per niente bene. Informai nuovamente la nostra ambasciata e cercai nel fondo del mio sacco l’ultimo involucro di banconote, erano 5 mila dollari. Li divisi a metà e li consegnai ai nostri conducenti. Ma evidentemente loro capirono che noi avevamo altri soldi e insistettero. Non dormii quella notte, preoccupato che l’istinto da briganti del deserto quella volta prevalesse sulla tradizionale ospitalità e sacralità dell’ospite.

All’alba aprimmo la cerniera della tenda e sbirciammo fuori: kirghisi, cammelli, asini e cani erano pronti. In fretta mettemmo le nostre cose nei sacconi, smontammo la tenda, consegnammo il tutto per il trasporto e risalimmo in poche ore il sentiero che portava all’Aghil Pass. Magico Aghil.

Ci fermammo alla Karka e poi di nuovo in fondo alla valle dell’Aghil River. L’acqua dei fiumi era potente e aveva cambiato in alcuni tratti il nostro percorso: alcune vallette laterali erano diventate torrenti difficili da guadare. Ci accampammo sul fondo della valle su un rialzo sotto il quale ruggiva il fiume. C’erano una ventina di cammelli: erano i nostri che stavano andando a prendere Mario, Hervé e Daniele. Sentii il Berni al telefono e lo rassicurai del fatto che la sera del giorno dopo avrebbero visto arrivare cammelli, asini, cani e kirghisi. Dal mattino successivo avrebbero iniziato a smontare e imballare tutto.

Dal punto dove eravamo accampati, in piano raggiungemmo Yilika e il villaggio kirghiso di Sesikamucun quattro case mal messe dove ci diedero un paio di birre e ci prepararono delle patate fritte.

Nell’83 arrivammo a Yilika a tarda sera, affamati come lupi, senza cibo: dopo quasi quattro mesi di spedizione non era rimasto veramente niente. I cinesi cucinarono l’ultimo agnello del nostro gregge che al nostro arrivo non era ancora nato ed ora, al nostro ritorno, era l’ultimo rimasto. Ero in tenda con Pierangelo e con gli amici con i quali avevo condiviso la maggior parte delle giornate di quella spedizione. Avevo salito il K2 dal versante nord, ero arrivato in vetta e ne ero sceso incolume. Avevo un paio di dita scottate dal gelo, ma nulla di importante, Fausto invece era messo piuttosto male. Ero diventato introspettivo, pensieroso: a 28 anni il K2 fatto in quel modo ti lascia un solco profondo nell’essere. Quei mesi avevano plasmato definitivamente la mia personalità: avevano confermato il mio amore e la mia passione per le montagne, ma anche acceso una luce sull’istinto di sopravvivenza che guidava le mie azioni. Non avevo nostalgia o repulsione, sarei ripartito (forse non il giorno dopo), ma certamente il mese dopo per tentare i Gasherbrum, che dall’Aghil, il 28 agosto (giorno del mio 29 compleanno) avevo guardato con aria di sfida.

Altri 29 anni erano passati ed ero ancora qui, nel cuore del Karakorum a respirare l’aria rarefatta e a guardare all’orizzonte gli ologrammi dei miei pensieri, confondendo i tempi dello svolgersi della mia vita.

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