Stefano Gregoretti: in Kamcatka ho riprogrammato le mie ambizioni
Con il suo ormai fidato compagno di spedizione, Ray Zahab, l’ultrarunner italiano Stefano Gregoretti era partito lo scorso febbraio con l’obiettivo di realizzare una traversata della Kamcatka, penisola dell’estremo oriente russo caratterizzata da una moltitudine di vulcani attivi e da una natura ancora primordiale. Luogo semisconosciuto ai più, non fosse per le partite a Risiko, Stefano e Ray hanno voluto cimentarsi in un difficoltoso percorso, da Est a Ovest, lungo oltre 500 chilometri durante la stagione più fredda. Una traversata da compiersi in totale autonomia, portandosi quindi dietro una pesante slitta con tutto il necessario per sopravvivere nella natura per circa trenta giorni. “Se avessimo scelto un’altra filosofia, se avessimo scelto di muoverci in modo assistito, sarebbe stato probabilmente più facile. Con sci da alpinismo, uno zaino da 30 litri, facendo circa 40 chilometri al giorno in dieci giorni sarebbe stato fattibile” spiega Stefano. Non è però stata questa la decisione presa dai due quando hanno scelto di impegnarsi in questo progetto. Hanno invece deciso di vivere questa esperienza come un tempo, seppur supportati da un equipaggiamento moderno, trovandosi a sperimentare l’autenticità dell’esplorazione.
“Spesso camminavamo tutta la giornata per poi fissare il campo ad appena un chilometro da dove ci eravamo accampati il giorno prima” racconta Gregoretti specificando che le ore di luce erano andate in cerca di un varco. “Per capire la direzione da prendere salivamo delle colline da cui poter guardare lontano”, a volte poi finivano in zone in cui non era sicuro avanzare e allora si faceva dietro front, alla ricerca di un nuovo percorso. Avanti così fino a giorno in cui è stato impossibile pensare di avanzare oltre a causa delle anomale temperature di quest’inverno.
È stata dura ritirarsi ad “appena” 100 chilometri in linea d’aria dall’arrivo?
Quando uno si deve ritirare lì per lì è sempre dura. Bisogna però capire che si si trova in un territorio dove noi non comandiamo nulla, dov’è la natura e l’ambiente a decidere per noi.
Ne parlavo poco tempo fa con l’amico esploratore polare Michele Pontrandolfo, oggigiorno è sempre più difficile capire quando fare una traversata. Un po’ per il riscaldamento globale, un po’ perché, nel caso della Kamcatka, si ha pochissimo materiale a disposizione.
In che senso?
Esiste pochissimo materiale informativo, pochissima parte storica reperibile su internet. Per fare un esempio, se vuoi andare al Polo Sud esiste un sacco di materiale consultabile per organizzare la spedizione. Dai report di chi l’ha raggiunto a chi ha attraversato il continente. Trovi facilmente informazioni sulla logistica, sui tempi di percorrenza, sui chilometri. Della Kamcatka invece non si sa nulla o, meglio, la si conosce solo grazie al Risiko. Era sempre importante avere lì un carro armato (ride).
Come avete fatto allora a individuare il percorso?
Inizialmente con Google Earth, poi grazie a quello che è diventato il nostro team logistico locale che ci ha consigliato sul punto di partenza.
Da dove è iniziata la vostra traversata?
Dal villaggio di Krutogorovskiy, un piccolissimo abitato sulla costa Ovest della Kamcatka, raggiungibile solo tramite una winter road (una strada che esiste solo d’inverno, realizzata compattando la neve). Già solo l’avvicinamento al nostro punto di partenza è stata una vera e propria avventura: abbiamo impiegato circa 20 ore per fare 350 chilometri di strada innevata a bordo di un grosso camion 6×6. L’itinerario non è sempre percorribile in quanto il senso di marcia è alternato: lunedì, mercoledì e venerdì di viaggia da Sud a Nord mentre negli altri giorni si viaggia da Nord a Sud.
Questo il punto più accessibile da cui iniziare la traversata mentre, una volta raggiunta la costa Est, ci saremmo dovuti fare venire a prelevare da un elicottero.
Come mai avete scelto febbraio?
Perché dalle informazioni reperite in un anno di studio e ricerche ci indicavano febbraio come il mese più freddo. Gli stessi locali, alcuni ex alpinisti oggi guide che portano i pochi turisti dell’area a fare principalmente eliski, ci hanno confermato questa tendenza.
Si parte…
Siamo partiti utilizzando inizialmente, come via preferenziale, il fiume. Non si tratta di una scelta solo nostra, ma di una scelta tipica e ovvia. Il fiume è più agevole sia in estate che d’inverno. Nella stagione calda sul Mississippi si usano le zattere, sullo Yukon le canoe e, d’inverno, le slitte trainate con i cani. Il fiume tendenzialmente è piatto e libero da vegetazione.
Seguendo il fiume, nonostante le anse, si riesce da avere un ritmo più rapido.
A patto che sia ghiacciato…
Esatto. Già il secondo giorno di marcia abbiamo infatti avuto problemi di questo tipo. Il fiume era sì ghiacciato, ma c’era uno strato talmente sottile. Sopra il ghiaccio c’era una coperta di neve fresca che ha fatto da isolante impedendo all’acqua di ghiacciare ulteriormente. Risultato: in alcuni punti non era possibile saggiare lo spessore del ghiaccio e, quando si passava sopra, sprofondavamo nell’acqua. Ci sarò finito dentro quattro volte e Ray altrettante. Per sicurezza abbiamo così deciso di spostarci sugli argini, nonostante la vegetazione.
Poi?
A un certo punto ci siamo trovati a dover prendere la scelta di rinunciare. Abbiamo affrontato passi veramente faticosi con la slitta al seguito, salendo su per la massima pendenza. Abbiamo trovato i fiumi aperti, scongelati. Immaginate di dover oltrepassare un corso d’acqua largo come il Po. A un certo punto ci saremmo ritrovati a dove superare una gola profonda circa 30 chilometri dove, a causa delle grosse nevicate, non si poteva stare sugli argini. Il rischio valanghe dai pendii circostanti era molto alto. Trovarsi in una situazione del genere avrebbe significato rimanere bloccati e chiamare i soccorsi, mettendo in pericolo anche altre persone.
Saggia decisione la rinuncia…
Diciamo che il teatro dell’avventura non aveva le luci giuste per poter fare questa traversata. Magari un altro anno, forse due anni fa si poteva fare; oppure si poteva scegliere un modo più “light” con una differente filosofia di attraversamento. Magari scegliendo di muoversi in modo assistito anziché in completa autonomia sarebbe stato più facile.
Bisogna però scegliere una filosofia e perseguirla.
Come siete stati evacuati dopo aver rinunciato?
Intelligentemente perché la Kamcatka ha due catene montuose, una a Est e una Ovest, e tra queste passa una strada che tocca l’abitato di Mil’kovo, un centro di circa 8900 abitanti che abbiamo raggiunto e dove sono venuti a prenderci con un fuoristrada.
Avete avuto modo di toccare con mano i cambiamenti climatici…
Si. Ricordo che prima di partire abbiamo avuto modo di parlare con una storica guida della Kamcatka, uno che si è salito tutti e 160 i vulcani della zona. Quando siamo andati da lui gli abbiamo mostrato la nostra ipotetica rotta e, con fare esperto, ci ha detto che sarebbe stata possibile perché a febbraio solitamente i fiumi sono ghiacciati. Parliamo di una persona che consce personalmente quella zona della Kamcatka, una parte del nostro itinerario l’ha percorsa anche lui anni fa, oppure ha avuto occasione di sorvolare l’area con l’elicottero. Noi abbiamo trovato fiumi completamente aperti.
Cosa ti sei portato a casa da questa esperienza?
Voglia di montagna e di neve. Di solito, quando torni da avventure di questo tipo non hai più voglia di stare al freddo, io al contrario ho subito avuto l’istinto di tornare in montagna.
Può sembrare apocrifo ma, mi sono sentito come il buon Fogar o il buon Bonatti dei tempi di Epoca. Non mi sono sentito al loro livello, perché questa sarebbe una vera bestemmia, ma ho avuto la fortuna e il privilegio di poter esplorare un territorio seppur con materiali moderni, come il satellitare o il GPS. È stata un’esperienza davvero intensa che mi ha permesso di riprogrammare le mie ambizioni e di vivere l’avventura non come un record sportivo ma come l’incontro con qualcosa di sconosciuto, da scoprire metro dopo metro.