Alpinismo

Alpinismo ed etica: l'opinione dei lettori

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BERGAMO — Alpinismo estremo, stile alpino ed esplorazione. Fino a che punto ci si può spingere? E’ giusto che nel nome di quest’etica assolutista si sottovaluti il valore della vita? Ecco le vostre risposte cari lettori: un tema "caldo" su cui gli amanti della montagna vogliono fermarsi a riflettere.

E tu cosa ne pensi? Mandaci la tua opinione

Sono un alpinista di bassa livello, un alpinista della domenica. Ma mi considero molto appassionato di montagna. E’ proprio qui il punto, penso che ogni vero alpinista sia innamorato della montagna. E se si ama la montagna la si ama per come è, rispettandola ed ammettendo l’impossibilità di affrontarla in certi casi. Per fare un esempio, se io non sono preparato per una salita, non cerco l’ossigeno o una carrucola per farmi tirare su, mi allenerò di più, oppure rinuncerò. Tutto quello che si prova a fare al di sopra delle proprie naturali possibilità toglie fascino alla montagna e all’impresa stessa. L’etica è una cosa importante nell’apinismo, perchè fa parte del rispetto per la montagna, che è l’oggetto centrale dell’alpinismo stesso. Penso che servirebbe un po’ più di cultura del rinunciare in modo pulito, piuttosto che del riuscire ad ogni costo e con ogni mezzo. Poi un po’ di rischio è insito nella montagna stessa…altrimenti andiamo tutti a divertirci su plastica….
Daniele

Sono perfettamente d’accordo. sono anni che ho espresso lo stesso concetto con mio figlio.
Eugenio

Ciao! Personalmente, voglio vivere ogni secondo di questa vita, ne abbiamo solo una! Amo la montagna, emozionarmi di fronte alla sua immensità, dal raggio di sole che filtra in un bosco al panorama che si gode al termine di una via. Non parlo di alta quota, gli incidenti annunciati non ci sono solo sui tetti del mondo. Quando sento di persone che hanno perso la vita in montagna mi sorge sempre la stessa domanda: erano pronti ad affrontare quell’itinerario? Hanno scelto le condizioni migliori, il meteo, la neve, la propria condizione fisica e psicologica? Io non sono un’alpinista, vado in montagna perché mi fa star bene, salgo, scendo per poi tornare a salire, le tragedie possono accadere, ma perdere la propria vita per seguire un sogno (avendo fatto di tutto per evitare l’incidente) posso capirlo. Invece, chi sfida la forza della Natura, senza essersi preparato, senza saper rinunciare prima che sia tardi, senza pensare ai rischi di chi dovrà andare a recuperarli, non sono veri alpinisti né amanti autentici della montagna! Le persone devo saper accettare se stesse, non si è migliori solo perché si ha sfiorato la morte, si dimostra solo la propria incoscienza.
Valeria

A 55 anni mi considero un miracolato della montagna. Da giovane ho vissuto gli ultimi anni dell’alpinismo sulle nostre montagne, se non propriamente eroico, almeno con una parvenza di misticismo, poi qui da noi le montagne di fatto sono finite e tutto si è trasferito fuori dall’Europa. Alla nascita dell’arrampicata sportiva sono salito sul carro, abbandonando presto la montagna per la falesia ed ora anche quest’ultima per la "plastica" al coperto delle palestre. Nel mio piccolo ho avuto parecchie soddisfazioni, ma ho corso anche diversi rischi. Ho visto troppe persone intorno a me morire e credo che sarei potuto benissimo essere tra loro se la fortuna non mi avesse assistito in diverse occasioni. Il problema è che ho sempre considerato l’alpinismo come un misto di bravura e rischio. Se non sei bravo puoi sempre provare a rischiare un po’ di più per ottenere un risultato; ad alti livelli devi essere molto bravo e rischiare al massimo; in ogni caso è impossibile ridurre il rischio a zero. Ho capito questa verità dopo un volo di venti metri in cima al Ciavazez, mentre sul ghiaione sommitale cercavo un masso dove assicurarmi per recuperare il compagno di cordata: sono scivolato su un sasso instabile tornando di sotto e per fortuna avevo lasciato un ancoraggio all’uscita con l’intenzione di evitare un eventuale "pendolo" al compagno. Vogliamo paragonare l’episodio alle varie solitarie, compresa una Nord della Grande di Lavaredo, canalini invernali con una crostina di ghiaccio o vie sulla Sud della Marmolada senza chiodi sotto il 5+! Il solo fatto di attaccare una parete col primo chiodo anche a "soli" dieci metri da terra può essere a rischio fatale. Detto questo ciascuno faccia le sue scelte.
Maurizio Marsigli (il Gatto)

Sono pienamente d’ accordo sul fatto che nell’ alpinismo, come purtroppo in molti altri campi, la vita ha perso il suo valore oserei dire "sacro". Del resto questo modo di intendere l’ alpinismo è a mio avviso figlio del nostro tempo e del modo di pensare di questo tempo. Non ci dimentichiamo che anche gli alpinisti più puristi devono tornare a casa nei loro paesi o nelle loro città e che quindi lì vengono influenzati da quello che li circonda.
In punta di scarpone

Quando devo, non posso fare a meno i miei complimenti per la riflessione di oggi, il tuo articolo l’ho letto questa mattina presto, nella mia classica rassegna stampa sull’alpinismo e l’esplorazione (che faccio da 10 anni per le mie cose, ogni giorno…). Poi, prima di scriverti, ho ripreso il sito per rileggere alcuni passi e ho visto anche l’intervista a Simone
bella, e solida, anche questa. Due belle cose lette in una giornata, fa bene al cuore
buone cose
Alberto Peruffo

Cara Sara,Ancora una volta complimenti per il Tuo articolo. Hai sollevato giustamente la questione. Vedi io che non sono alpinista, ma che assimilo tutto ciò che riguarda l’alpinismo: libri, articoli relazioni ecc., non ho la risposta ai tuoi quesiti. Ti posso solo dire che non da oggi, purtroppo, provo un senso di nausea per questo alpinismo, non ho nemmeno letto la cronaca di quanto stava accadendo a quell’uomo, solo su una parete sconosciuta, agonizzante per giorni. Ho letto solo del tragico epilogo che mi lascia sgomento. Ecco forse Lui, pensando probabilmente ai suoi figli, a sua moglie, al suo modo di fare alpinismo una risposta l’ha trovata ……….Ma se rifletto bene che differenza c’è tra questi alpinisti estremi e Schumacher, anche Lui per anni, pensando comunque a moglie e figli, è salito su una macchina per correre a 300 all’ora. Forse il denaro, la fama non centrano nulla, è solo passione! una passione ottusa ed egoista che sta in tutti noi. Il miglior alpinista? È quello che sa rinunciare, non alla montagna, ma a inutili rischi.
Federico

Gentile Sara Sottocornola, prendo spunto dal suo bell’articolo per manifestare alcune mie riflessioni "in libertà". Il tema, valore della vita, è di per sè affascinante (e "misterioso"), ma ancor più fondamentale per noi che amiamo la montagna. E amiamo la Vita! La vita, intesa come esistenza fisica, ha valore in quanto tale, ma come tutti gli "oggetti di valore" esiste una scala di valori (valori veri, non monetari) nella quale "posizionarla". La vita in sè non è il bene (valore) supremo;  un esempio: se per una mamma la propria vita fosse il bene supremo non sarebbe disposta a perderla per salvare quella di un proprio figlio. Ma allora cosa dà valore alla vita di quella mamma, cosa è il bene supremo ? E’l’Amore gratuito (generoso, senza calcolo) per il proprio figlio. In vista di cosa? In vista del bene del figlio: rinuncio a ME perchè TU possa crescere, vivere a tua  volt

a, Amare a tua volta ed essere amato. Ma una mamma non metterà mai a rischio STUPIDAMENTE la propria vita sapendo di poter far venir meno la propria "protezione" al figlio; è un atto di reponsabilità (non solo nei confronto del figlio, ma anche di sè stessa, in quanto riconosco che valgo), non di codardia o di paura. Ribaltando il discorso sull’alpinismo, sulla montagna, la montagna NON può diventare IL bene supremo perchè Amare un "oggetto di Valore" (e la Montagna è un "oggetto di Valore", è un Bene Prezioso !) che non possiede Vita (esistenza fisica propria) al punto da farlo diventare il bene supremo in fin dei conti è un atto di egoismo perchè finalizzato non allo sviluppo dell’oggetto amato ma finalizzato all’appagamento del proprio io (il bene supremo divento allora io stesso). Amo la montagna, in tutte le sue espressioni; perchè tramite essa raggiungo il mio più profondo essere; tramite i suoi spazi, profumi, silenzi, incontri, difficoltà e fatiche conosco meglio me stesso, mi "definisco"; tramite essa provo emozioni intense che danno sostanza e sapore alla mia vita, perche anche tramite essa sperimento l’Amore. Ma la montagna, di per sè, ed anche l’alpinismo che è "l’esercizio" della montagna, non ha una propria vita; è un mezzo (assai prezioso ribadisco) per raggiungere qualcosa di più alto, che ha più valore. Non credo che la montagna "soffra" se un’alpinista usa una bombola di ossigeno o pianta un fix; e nemmeno soffra se la bombola vuota resta al colle Sud o se il chiodo resta in parete. Dovrebbe soffrire invece l’alpinista non per per quello che ha fatto (entro certi limiti) , ma, semmai, per il motivo che gli ha fatto scegliere di farlo. L’incidente, la disgrazia, è un evento che ci può stare, nell’agire umano è contemplato (altrimenti saremmo immortali); anzi è la relativa "fragilità" della vita che dà Valore alla vita stessa. Ma sta a noi (tutti) adoperarsi affinchè siano utilizzati tutti gli strumenti necessari (non quelli a disposizione), ed eventualmente anche rinunciare se le "garanzie" sono scarse, nell’affrontare una "impresa in montagna, al fine di preservare un "bene superiore" – la Vita -. Alle domande (dove i luoghi e i mezzi non sono solo fisici): "Cosa vuoi che resti dopo che sarò passato ?" "Dove vuoi andare?" "Come ci vuoi andare?" "Come vuoi che ci vadano quelli che vengono dopo di Te?" bisogna sempre dare sempre una risposta! Concludo con due frasi che ho letto da qualche parte e che mi piacciono molto: "Si va in montagna per Vivere, non per morire" e "La montagna è fatta per l’Uomo, non l’Uomo per la montagna".
Guido Dell’Avalle

Cara Sara, sto leggendo con interesse gli interventi dei grandi personaggi dell’alpinismo sul tema che hai giustamente proposto. Ritengo che come in tutte le cose, anche nell’alpinismo debba valere la regola che ciascuno è libero di agire come meglio ritiene ed è responsabile delle proprie scelte, delle proprie azioni, dei propri sogni fino a quando questi non invadano la libertà altrui o mettano in pericolo altre persone. Detto questo, io sono un alpinista molto dilettante e sono sempre stato affascinato dalle imprese e dalle storie dei grandi personaggi presenti ma soprattutto passati. Ultimamente però provo un senso di fastidio e di distacco nel leggere sul vostro sito storie di grandi alpinisti che rincorrono continuamente nuovi limiti da superare, nuovi traguardi da raggiungere in competizione con altri "colleghi" (penso alla "gara" per il primato della prima donna su tutti gli 8000 per esempio…). Tutto questo viziato dalla rincorsa agli sponsors e dal dovere di rendergli necessariamente conto. La sensazione è quella di assistere a una spirale sempre crescente che perde di vista i valori fondamentali e il rispetto della propria vita e di quella delle persone che ci sono accanto. Il messaggio che viene letto dall’alpinista dilettante, dall’appassionato di montagna e dagli spettatori in genere ritengo sia negativo. Ovviamente questo non è certo generalizzabile a tutti e tutto. Credo che per chi dell’alpinismo, della comunicazione e dell’apparire ha fatto il proprio mestiere, esista l’imprescindibile dovere dell’esempio. Questo non deve limitare la propria libertà ma deve essere anche rispettoso del messaggio che si comunica. Altrimenti ciascuno è libero di fare ciò che crede, di assumersene i rischi, senza però voler attirare clamore e attenzione su di sè per convenienza o fama. Se si vuole entrare a far parte di un mondo, bisognerebbe rispettarne le regole. Condivido quindi il pensiero di Simone Moro quando invita a isolare coloro che della propria attività fanno un cattivo uso mediatico e a rendere bubbliche non solo le imprese ma anche le rinunce e gli errori dai quali si impara. Non penso affatto che l’immagine e l’ammirazione di cui questi atleti sono aoggetto ne avrebbero un riscontro negativo, anzi credo sarebbe esattamente il contrario. Quindi perchè non scrivere un libro, tra i mille che parlano di imprese e morte, di ascensioni gloriose e grandi tragedie, in cui si narrino le sconfitte, le paure, gli sbagli e l’insegnamento che ne è derivato, dei grandi alpinisti che conosciamo troppo spesso solo per i loro records o la loro tragica fine, magari raccogliendone la testimonianza diretta. Come diceva Simone Moro, sarebbe un inizio per cercare di trasmettere non solo emozioni ma anche la cultura della vita, dello sport inteso nella suo aspetto più puro, della rinuncia come virtù e non come debolezza. Spero un giorno di poterlo sfogliare…
Max

Si e’ persa la via di mezzo; i due estremi, sia il bene che il male, sono sempre negativi se estremi. L’uomo, essere pensante, deve credere non ciecamente al bianco o al nero: esistono sempre delle tonalita’ di grigio.
Banfiteresio

Che dire? I regolamenti qui non valgono. Non verrebbero rispettati. Già l’appassionato "della domenica" rinuncia malvolentieri ad una gita, anche se il buon senso a volte la sconsiglia. Quando senti qualcosa che brucia dentro hai solo il desiderio di spegnerlo, e molti di noi sentono nella pratica alpinistica il rimedio a quel bruciore. E’ facile dire che sono pazzi, incoscienti, schiavi delle loro brame, Ma non è così per tutti. Forse per alcuni si, e penso a chi rincorre record o "vittorie". Ma tanti dei nomi che avete citato rincorrevano solamente il loro cuore. E in quel loro cuore probabilmente il rispetto della vita, la famiglia, gli amici e la montagna erano in perfetto equilibrio. Quell’equilibrio che li ha portati alle sfide da cui sono stati capaci di ritornare felici a casa, fintanto che non hanno trovato sulla loro strada l’imponderabile. Quello che non si può prevedere. E quello che la gente "normale" non riuscirà mai a capire e che liquida con un "se la vanno a cercare".
Luca Chiarcos

Ciao mi chiamo Luca e sono un alpinista dilettante. E’ tanto tempo che seguo il Vostro sito e ho seguito purtroppo anche tutti gli incidenti di montagna che pubblicavate. Io penso che l’alpinismo stia prendendo una strada sbagliata che porti solo al dolore e alla morte.Sta diventando una cosa degenerata,patologica che non a più senso e non può dare nessuna soddisfazione o divertimento. Non riesco a capire l’etica che sta nascendo. La mia domanda fondamentale è. Che soddisfazione si può avere andare a sfidare le montagne più pericolose della terra? Andare in luoghi talmente cos&igr

ave; inospitali e pericolosi che nessun essere umano in possesso di tutte le sue capacità mentali non affronterebbe mai. Soffrire il freddo,la fame,i pericoli e per dimostrare cosa?La propria abilità?Noooooo non si dimostra un bel niente a quei livelli si viene a lottare con la casualità, la sfortuna.Anche il più bravo alpinista non può farci niente.Il vincere è solo un fatto di fortuna.
Allora dico di fermarci.Perchè siamo al limite della follia umana.Con tutto il rispetto per Tomaz io dico che lui a fatto una cosa assurda,da incosciente ,non giustificabile ,quasi un suicidio.Non si può partire da soli ,senza assicurazione,corde,senza dire niente a nessuno di dove si va in una parete pericolosissima.E poi una volta avuto un incidente avere il coraggio di chiamare i soccorsi. Se fosse stata una persona coerente e saggia  avrebbe dovuto lasciarsi morire.Non chiamare altre persone con il rischio che ci siano altri morti.In fondo in quella situazione si era messo lui.Questa gente così disgraziata e incosciente alla fine deve scomodare mezzo mondo per farsi venire a prendere.E poi non ha pensato che aveva anche due figli una famiglia.Questo è anche egoismo. Io proibirei la spedizioni nell’Himalaia. Anchio pratico alpinismo ma sulle vie spittate e nelle belle giornate in completa sicurezza.
Luca Minguzzi

Ciao, direi si tratta di un discorso alquanto impegnativo, ma cercherò di esprimermi in poche righe. Trovo che con l’evoluzione dei materiali stessi, siano inerenti l’arrampicata piuttosto che l’alpinismo, abbiano avuto un’evoluzione tale da permettere di poter spostare di gran lunga più avanti il limite de "l’impossibile". Chi onestamente anni fa avrebbe pensato al dry-tooling? Pertanto, da parte degli alpinisti (rimanendo nel contesto del discorso, anche perché per me, riuscire a ripetere una delle loro vie è come aver raggiunto il paradiso!) vi è stata la possibilità di osare maggiormente, d’altronde vorrei vedere chi di loro ripetendo una via aperta decenni fa da alpinisti quali Fava, Messner, Cassin, Bonatti e chi più ne ha ne metta e con il materiale di allora, non si sentirebbe un idiota. Oggi di fatto le ripetono, ma in solitaria, in invernale, a testa in giù, d’altronde chi considerebbe un alpinista (parlo sempre dei grandi) uno che, con tutto il materiale tecnologico di progressione moderno, ha ripetuto una via "semplice"? E qui arriviamo al dunque; gli sponsor, perché ancora nessuno ha parlato di loro. Ora, io non so se Steck, Mondinelli, Moro, Siegrist e tutti gli altri siano finanziariamente indipendenti da potersi permettere spedizioni del genere. Sicuramente tanti alpinisti sono persone con le classiche "pezze al culo" o comunque "finanziariamente normodotati" e da qui la necessità di soldi! Ho avuto modo di sentire parlare alcuni di questi personaggi ed in particolare anche cineoperatori di montagna, i quali per primi dicevano, oggi se non fai qualche cosa di assurdo di soldi non te ne danno e le televisioni, i vari filmati, manco li considerano. Basti pensare alle competizioni organizzate da Red Bull, li avete mai visti sponsorizzare una partita di calcio, bocce, ginnastica artistica? Io no! Ma sponsoring dati a tutti coloro che praticano sport estremi si! Certo, organizzare una competizione di arrampicata sportiva, dry-tooling o ghiaccio, oggi è possibile grazie a tutti i mezzi artificiali, e ciò fa si che si possa organizzare il tutto in luoghi dove è facilmente possibile attirare un folto pubblico e garantire nel contempo agli sportivi, un ampio margine di sicurezza. Questo permette agli sportivi di portarsi a casa un po di soldini rischiando relativamente, ma soprattutto, permette agli sponsor di avere ampi margini di guadagno. Dal momento che ancora (per fortuna) non sono riusciti artificialmente ad allestire montagne quali quelle Himalayane, per gli alpinisti di quel genere, per poter trovare i fondi necessari, devono per forza inventarsi cose che di senso ne hanno sempre meno, e poi ci lasciano le piume…Credo si sia arrivati oramai ad un punto dove soldo fa soldo e l’etica….beh, cos’è? Serve? E con quella quante spedizioni riesco ad organizzare? Per quanto mi concerne tutto quello che sta capitando non mi stupisce e sconvolge affatto, ed anche se non lo condivido, lo trovo del tutto normale nel mondo di oggi.
Nicola P.

Il tema è molto complesso e molto delicato: in fondo stiamo parlando della sicurezza e della vita di persone, uomini e donne. Anche io amo molto la montagna e faccio alpinismo da quasi dieci anni: non ho mai conosciuto alpinisti (seri si intende altrimenti non sono alpinisti ma spacconi e incoscienti) che decidono di andare in vetta senza la sicurezza di poter tornare a casa tutti interi. Sottoscrivo quindi in toto le proposte di Maurizio Gallo e anche io desidero sensibilizzare tutte le persone che si avventurano in montagna: perché la montagna è un’avventura, stupenda avventura e in questo modo va vissuta. La montagna però va anche rispettata, in tutti i sensi; non inquinando innanzitutto, ma soprattutto accettando i propri limiti. Io per esempio non ho mai pensato di affrontare il Cervino perché sono un pessimo rocciatore: se un giorno deciderò di salirlo, mi allenerò molto e lo affronterò con uno scalatore esperto che mi saprà dare le giuste indicazioni. Ognuno di noi può dare il suo contributo per diffondere una cultura di responsabilità e attenzione. E’ assurdo pensare che l’uso di strumenti di comunicazione o la verifica delle condizioni meteo siano doping! Quindi prima di andare in montagna è bene conoscere almeno un minimo di tecniche di orientamento e la meteorologia, tecniche di movimento sui vari terreni, conoscere le attrezzature e saperle utilizzare, sapere come è formata una morena e un ghiacciaio e come questo si muove, sapere cosa e come sono i crepacci, informarsi sulla formazione delle rocce, partecipare a corsi di primo soccorso e soprattutto… non essere presuntuosi. Potrei sembrare esagerato, ma c’è in gioco la propria vita. A volte noi giovani sottovalutiamo i pericoli e affrontiamo le difficoltà con troppa spensieratezza. Ma abbiamo tanta grinta e tanta voglia di vivere!
Matteo – 27 anni

…"La storia ha ampiamente dimostrato come l’idealizzazione della libertà assoluta dell’individuo, spinta all’estremo, non porti che alla confusione di valori e a un peggioramento totale delle condizioni collettive."…Complimenti! Credo che tu abbia centrato il "cuore" del problema! Io sono convinto che anche l’alpinismo risenta del principale "difetto" di questa nostra società moderna ovvero l’eslatazione assoluta della libertà individuale. E’ un concetto che ormai si palesa in tutti i campi dell’umano a cominciare dai temi etici (mi viene in mente il caso di Eluana Englaro) e che addirittura arriva a toccare i frequentatori delle montagne. Gli alpinisti…intorno a loro aleggia questa sorta di "leggenda" di grandi ribelli, anarchici, persone particolari, eclettiche, sicuramente diverse dagli altri! e invece…invece sono come tutti gli altri, ne più ne meno! è un problema antropologico ovvero che riguarda il genere umano, scalatori compresi,… io sono padrone di me stesso, la mia vita è solo nelle mie mani e di me decido solamente io. Questa apparentemente ineccepibile definizione di libertà stà portando, prorio come scrivi tu, ad un peggioramento generale delle condizioni collettive della società tutta, dal momento che, invece, il mio"io" è sempre in inter-azione con un "tu" (classico esempio: se io decido di morire penso anche al dol

ore  che procurerò ai miei cari? o se mi caccio su una parete inviolata penso al rischio che correranno eventuali soccorritori?) Questa definizione di libertà assoluta sta portando ad una società sempre più egoista, è questo il termine giusto! e anche l’alpinismo non fa eccezzione…anzi…in montagna l’egoismo viene ingigantito, in qalche modo "smascherato" senza pudore. Trovo bella e concettualmente giusta la considerazione di Maurzio Gallo sulla figura e il ruolo del "Capospedizione"; non che la sua presenza renda sicuramente immuni gli alpinisti da incidenti fatali, per carità, la storia alpinistica è piena di esempi contrari, ma almeno il ruolo di una figura "autorevole" ci costringe spesso e volentieri a lasciare da parte il nostro egoismo e seguire una logica che magari non è quello che avevo in mente io ma che magari a posteriori risulta la scelta più giusta non solo per me ma anche per gli altri partecipanti della spedizione, magari il suo orizzonte è un po’ più ampio del mio che in quel momento contemplo solo la "vetta ad ogni costo". Insomma, un "allenatore"in campo sarebbe molto meno obbiettivo ed autorevole del "mister" seduto sulla panchina a bordo campo che ha una visione molto più ampia e oggettiva del gioco globale. Un altro problema che enfatizza questo eccessivo individualismo invece di smorzarlo e gestirlo sono gli sponsor spesso e volentieri i primi "apripista" della moderna cultura alpinistica; guardiamo ad esempio i criteri per l’aggiudicazione del "Piolet d’or", il più prestigioso riconoscimento alpinistico mondiale la cui commissione è composta per la maggior parte da sponsor e riviste specializzate (che quasi sempre sono la stessa cosa!). I criteri sono tutti incentrati sulla "pericolosità dell’ascesione" a cominciare dal numero di partecipanti, dall’isolamento allo stile di salita. Inoltre lo sponsor mette quasi sempre "pressione"; tu devi ritornare a casa col risultato, o la vetta o un grande rischio occorso, insomma con qualsiasi cosa faccia parlare della tua impresa e quindi dello sponsor stesso; questa è una logica perversa! Insomma nell’alpinismo c’è qualcosa che non va, perche c’è qualcosa che non va nella società di oggi e l’alpinismo, che si credeva immune alle sue infulenze rifugiandosi sulle vette, ne è assolutamente "impregnato" perchè il protagonista è sempre lui, l’uomo.
Roberto Chillemi

Il "malessere" così ben descritto nell’editoriale rappresenta a mio avviso il peggioramento di una tendenza che è andata crescendo sino ad assumere di recente le proporzioni di un’epidemia, la cui diffusione non si può solo ricondurre all’aumentata frequentazione della montagna o con la ricerca spasmodica di nuove pagine da vergare nel gran libro dell’alpinismo. Di fronte al lungo elenco degli scomparsi di quest’anno, uomini e donne di indubbio valore, abbiamo il dovere di riconoscere l’esistenza di un male oscuro che si sta insinuando sempre più dentro molti di noi. Per arginarlo, la prima azione è contrastare l’impressione, falsa ma colpevolmente diffusa presso il grande pubblico, che l’andare in montagna implichi inevitabilmente giocare alla roulette russa con la propria vita. La vera anomalia dell’alpinismo estremo, rispetto a tutti gli altri sport, è che la possibilità concreta di morire sembra essere accettata, e venduta, come un fatto normale, inevitabile, quando addirittura non la si mistifica, ammantandola di un’aura gloriosa d’altri tempi. Parte del problema sta nella ricerca della fama e della notorietà, merci “cash” molto ambite, immolarsi alle quali concede, di questi tempi, se non la salvezza, almeno l’assoluzione sociale. E questo è purtroppo il caso della “corsa alla vetta” ancora molto in voga nell’alpinismo himalayano di punta femminile e di cui Ms. Go Mi Sun, alla cui tragica scomparsa ho assistito da vicino quest’estate, rappresenta uno dei più recenti agnelli sacrificali. Lungi da me porre limiti alla ricerca di nuovi orizzonti. L’estremo di ieri è l’ordinario di oggi, ma aprire vie nuove su versanti inesplorati e pericolosi comporterà rischi sempre più alti. Su questa via, sin dove ha senso spingersi? Ammirazione a chi ci prova, ma va riconosciuto che su questa china l’alpinismo non ha futuro. A mio parere, prima di ogni considerazione morale su valori veri o presunti della vita, il mostrare un più o meno consapevole disprezzo per la propria vita (e pure per quella altrui, laddove basta una chiamata satellitare per mettere in moto la macchina dei soccorsi) ha sempre meno a che fare con l’alpinismo, il coraggio, la ricerca del limite e assai più con la stupidità.
Giuseppe Pompili

Buon giorno, non mi sento proprio di dire che rischiare la vita per la libertà assoluta sia corretto così come mi riesce difficile pensare che senza il rischio l’alpinismo non avrebbe potuto contare e raccontare le imprese storiche che ha vissuto nel corso dei suoi anni. Come dicono e dicevano i più grandi alpinisti questo desiderio di "andare" pur rischiando la propria pelle non è spiegabile, è qualcosa di profondamente intimo e legato alla propria storia che non si può motivare a parole e che non si può vedere solo in chiave negativa con la possibilità di perdere la vita (anche se è una questione importantissima) e così io non riesco a giudicarlo. E’ una sensazione che nel mio piccolo, e a piccoli dosi, ho provato anche io forse per avventura, per una sfida personale, per un senso di libertà e per una ricerca interiore. Sono comunque dell’opinione che sia futile, poco etico, poco eroico, infinitamente stupido cercare ad ogni costo "l’impresa" per la gloria la fama (copertine, soldi, libri, pubblicità, sponsor, etc). Credo invece sia molto costruttivo l’alpinismo che sfocia in divertimento, fraternizzazione, scoperta e ricerca, sfida con se stesso. La morte poi in molti casi accade per fenomeni che non possiamo controllare o diagnosticare con certezza: condizioni meteo imprevedibili, condizioni ambientali e del terreno non previsti, semplice calo di concentrazione. Si possono contare tra l’altro molti incidenti e molte morti anche su terreni considerati facili (sentieri di trek etc). Sarebbe quindi molto meglio cercare di spiegare ai neofiti (il CAI con lezioni, i media con articoli e racconti per esempio) che si può andare in montagna senza per forza dover raggiungere il livello massimo, senza arrivare a soffrire di ansia da prestazione ma ricercando se stessi, la pace, la natura, il contatto col mondo che è quello che la montagna, l’apinismo dovrebbero maggiormente insegnarci. E a mio parere la vostra redazione spesso e volentieri ci riesce. Grazie per le vostre letture e per l’attenzione alla mia sconclusionata riflessione
Daniele

Un editoriale splendido! Le risposte alle domande ognuno deve trovarle dentro di sè. Confrontandosi con la propria anima e con Dio ( se ci crede). Essere uomini vuol dire accettare i propri limiti. Diversi per ognuno di noi ma , pur sempe, limiti.
Forse, solo i vigliacchi sono senza cicatrici. Anche le cicatrici dell’anima vanno messe in conto. Quelle delle rinunce, delle sconfitte,  dei dietro-front. Quelle che spesso si smorzano in un sorriso di un amico quindi si torna a casa. Vivi!
Adolfo Pascariello

Ciao,
vi scrivo la mia opinione relativamente alla domanda che ponete al lettore. Le tragedie in montagna
si susseguono senza sosta. Al di là della tristezza nell’apprendere le singole notizie, vi faccio una domanda. Cristina Castagna ha chiesto, nell’ipotesi le fosse successo "qualcosa" durante una delle sue spedizioni, di essere lasciata lì. Questo dimostra non solo la consapevolezza di quello che avrebbe potuto accaderle ma anche una certa sicurezza di avere dinnanzi un bivio: o la va o la spacca. Non entro nel merito di una scelta del genere, ma so che tutte le volte che, in montagna, mi sono trovato di fronte alla possibilità di farmi del male, ho scelto un’altra strada se non addirittura ho scartato la gita, ancor prima di iniziarla, scegliendone un’altra, sapendo che non sarei stato in grado di farla. Non penso che sia una prova di maturità ma una consapevolezza dei propri limiti. Al tempo stesso, credo che questi alpinisti che affrontano l’impossibile o l’estremo non possano farne a meno, non riescano a vivere senza. Citate "noi non andiamo in montagna per morire ma per vivere" è la dimostrazione del non poter fare a meno di certe esperienze, anche se rischiose. Settimana scorsa ho visto Mondinelli a Torino (al CAI) ed ha anticipato che proverà il Gasherbrum (I o II non ricordo) dal versante cinese, via mai fatta da nessuno. Mi sono chiesto "ma come, con tutto quello che ha già fatto e raggiunto, mette a repentaglio sè stesso e tutto il suo bagaglio di esperienze, a 52 anni, pur di tracciare una nuova via?". Non penso sia presunzione (non mi permetterei mai), penso che sia una voglia di metterersi sempre in discussione (tanto di cappello) ma anche una dimostrazione di quanto sia indispensabile e vitale, per questi alpinisti, dover sempre raggiungere una nuova conquista. Quanti arrivano in vetta (e poi ridiscendono) e quanti muoiono? Siamo davvero sicuri che chi arriva in vetta e riesce a tornare a casa non faccia mai delle imprudenze ma ciò nostante gli vada bene? Nella maggior parte dei casi, non penso che chi muore in montagna muoia per imprudenza. Forse muore anche per imprudenza ma soprattutto per coincidenze e sfortuna. Chi va sugli ottomila non penso possa essere uno che sottovaluta i rischi in montagna. Chi si sobbarca spese, fatica, organizzazione di quel genere non penso possa essere un superficiale. Chi muore, invece, sulle nostre montagne, può effettivamente peccare, più frequentemente, di imprudenza. Perchè le nostre montagne sono lì, sono alla portata di tutti e, in effetti, può essere anche frequentata dagli imprudenti. Dinnanzi al pericolo (in montagna e non) mi dico sempre "ricordati che se sbagli, la paghi e tutto quello che ho fatto fino ad ora non potrai più farlo". Mi fermo e cambio. La vita è fondamentale ma ognuno dà alla propria vita il peso ed il significato che vuole. Sono contrario a romanzare sugli sfortunati alpinisti che muoiono e gli si dice "ora sei su delle vette che nessuno di noi potrà raggiungere"…..o frasi del genere. Sono contrario perchè al momento della caduta, al momento della tragedia, sono sicuro che ciascuna delle vittime si penta di essere andato troppo in là e sono certo che non affronti la morte con il sorriso.
Fernando Barone

Sara,
È tutto giusto quello che scrivi (e lo scrivi davvero bene, complimenti. L’argomento è complicatissimo: questo è il sesto tentativo di risponderti e di solito mi inchiodo dopo cinque sei righe…). E’ tutto giusto ma credo che non sia applicabile in termini pratici. Gli alpinisti stanno rischiando troppo? E cosa facciamo? Mettiamo delle regole per diminuire i rischi? Siamo sicuri che verrebbero rispettate? Creiamo un “movimento di opinione” per sensibilizzare gli alpinisti a non sfidare la sorte? Siamo sicuri che verremmo ascoltati? Humar sarebbe andato a fare quella parete anche se questo avesse voluto dire non rispettare delle regole o non seguire un codice etico. La chiave di volta è la responsabilità. Gli alpinisti devono essere responsabili delle loro azioni e degli effetti di queste tanto su di loro, quanto sugli altri (compagni di cordata, parenti, soccorritori). Questo vale per tutti: da Humar a Messner a me quando mi alzo alle 4 di mattina e lascio mia moglie nel letto per andare a fare una semplice escursione. Ma anche questo potrebbe non bastare. Chi decide se qualcuno è stato responsabile oppure no? Chi si prende la responsabilità di ergersi a giudice di cosa è lecito fare nell’alpinismo? E quali sono le “sanzioni” per chi sgarra? Il ritiro del passaporto? La pubblica denuncia di un comportamento scorretto? Voglio provare ad uscire dall’empasse sfruttando quelli che di solito sono accusati di intorbidire l’alpinismo: gli sponsor. Ho la sensazione che se l’alpinismo si dovesse discostare troppo da un “comune sentire”, da un “insieme di regole” universalmente accettate anche se non del tutto codificate, allora gli sponsor sarebbero i primi a mollare gli alpinisti e risolverebbero la cosa con molta più brutalità ed efficacia dei nostri pur nobili discorsi. Non temo un ritorno dell’alpinismo eroico. Temo una lenta discesa negli inferi come è successo, ad esempio, al pugilato.
Davide Gambetta

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