Walter Bonatti

l'alpinista

Gian Luca Gasca
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Ha lasciato l’alpinismo estremo a soli 34 anni, nel pieno delle energie giovanili ma con la maturità delle esperienze vissute. Ha scelto di farlo in silenzio nel freddo dell’inverno, con quello stile che l’ha fatto conoscere agli appassionati del periodo. Un modo d’essere solitario che si è fatto sempre più marcato dopo gli accadimenti del K2, la cui ferita è stata eterna nel suo animo.

La storia del Walter Bonatti alpinista è fatta di foto, immagini che lo ritraggono nei più svariati angoli del Monte Bianco o delle Grigne. Foto che in maniera quasi automatica riconduciamo al protagonista, divenuto celebre non solo per le sue scalate, ma anche per i suoi autoscatti nelle terre remote del Pianeta. Risulta a volte difficile pensare che non siano foto “di Bonatti”, ma “con Bonatti”. Scattate cioè da altri, dai suoi compagni di cordata, dagli amici, da chi lo ha accompagnato fin sotto l’attacco della via.

Sono state numerose le persone a cui si è legato, alcune hanno avuto presenza fulminea mentre altre sono comparse e rimaste per un periodo più o meno lungo. Con ognuna di queste Walter ha condiviso una parte del suo percorso umano e alpinistico, due strade destinate a incrociarsi continuamente. È grazie a loro se oggi possiamo presentarvi questa ricostruzione del Bonatti verticale e del suo alpinismo. Quello che ne scaturisce è il racconto di un confronto onesto con la montagna.

Non parliamo di un innovatore, ma di un uomo capace di prestazioni fuori dal comune. Bonatti aveva, per farla breve, una tempra d’acciaio che gli permetteva di resistere fisicamente, ma soprattutto psicologicamente, a condizioni spesso drammatiche. I racconti delle sue avventure alpine, patagoniche o himalayane sono zeppi di situazioni ai limiti dell’estremo. Momenti dove la lucida capacità di ragionamento del protagonista è stata spesso utile a evitare la peggio, anche se non sempre le cose sono andate per il meglio. L’estenuante guerra di resistenza sul Pilone Centrale del Freney (1961) è testimone di queste straordinarie capacità, oltre che di uno spirito forte e deciso ma mai autoritario.
Bonatti adolescente sulle prealpi Orobie, 1947 ante. Foto @ Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino

I primi anni

Le prime esperienze montane di Bonatti risalgono all’adolescenza, quando con l’amico Dino Perolari, iniziò a vivere delle micro avventure sulle montagnole di casa. Un periodo di cui ci rimangono poche tracce fotografiche, ma arricchito dai racconti ancora vivi del compagno di ventura. Walter era un ragazzino curioso, voglioso di sperimentare in prima persone le situazioni. Un giorno scoprì l’esistenza degli alpinisti, di questi uomini che piantando i chiodi nella roccia e usando una fune come assicurazione scalano le montagne. Subito volle provare e cercò di coinvolgere l’amico Dino, lo portò con se sulla Cloca, una cima duecento metri sopra Semonte, frazione di Vèrtova, in Val Seriana. Nulla di alpinistico, ma Bonatti aveva piena coscienza di quello che sarebbe stato il suo obiettivo, l’aveva studiato per tutta la settimana. Sulla cima di questo piccolo monte si trovava un’alta croce lignea, una calamita attrattiva come fosse il Monte Bianco o il Cervino per il giovane Walter.
I due portarono con se una manciata di chiodi da carpentiere e un martello, poi Dino si mise carponi mentre il compagno gli salì sulla schiena iniziando a martellare con forza il primo chiodo. Il primo in assoluto. Piantato lo utilizzò come piolo su cui salire per poi piazzarne un secondo, un terzo e così via fino in cima alla croce.

Fu in questi anni che si formò il carattere deciso, a tratti spigoloso, di Bonatti. E, sempre in questi anni, nacque l’esploratore, prima del mondo verticale, poi di quello orizzontale. Leggeva i grandi classici dell’avventura come London, consultava i libri d’alpinismo e si allenava senza sosta. Mentre gli amici giocavano a calcio lui si dedicava ai salti mortali, alle flessioni e alle trazioni alla sbarra. Walter era un quattordicenne abituato a far le cose da sé, senza bisogno di legarsi sempre ad altri, caratteristica che emerse ancora più forte in montagna. I continui trasferimenti dell’infanzia lo portarono probabilmente a essere autonomo, non bisognoso di legami stabili. A un mese dalla nascita la famiglia lasciò Bergamo per trasferirsi a Monza, le estati le passava però a Semonte, da sua Zia. Nel 1936 un nuovo trasferimento lo portò in provincia di Piacenza, dai parenti del papà, dove rimase qualche anno. Nel 1940 ritornò a Monza, ma con i bombardamenti alleati dopo l’armistizio dell’8 settembre fu costretto a scappare. Per un certo tempo visse in un collegio a Gazzaniga, dove terminò le scuole medie. Ancora un trasferimento lo riportò verso Monza, e fu qui che iniziò prima a praticare ginnastica alla società “Forti e liberi” per poi dedicarsi, poco dopo, all’arrampicata con il gruppo dei “Pell e Oss”. Con loro un Bonatti diciassettenne iniziò a esplorare le montagne lombarde, la prima uscita la fece in Grigna, sul facile Campaniletto.

Bonatti accanto alla croce sulla cima del Sigaro Dones (Grigna meridionale) con un compagno dei "Pell e Oss" (forse Oggioni), nel 1948. Foto @ Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino
Bonatti con amici e cugini sulle Orobie, in val Seriana, 1945 ca. Foto @ Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino
Conobbe poi quelli che furono i suoi compagni d’avventura sulle Alpi, Camillo Barzaghi e Andrea Oggioni in primis. Oggioni in particolare fu il compagno delle prime grandi salite, quelle che fin da subito lasciarono intendere il potenziale dei ragazzi. A 19 anni, nel maggio del 1949, misero a segno la prima ripetizione della Sant’Elia al Nibbio, un sesto grado (con loro si trovava anche Josve Aiazzi). Qualche mese dopo riuscirono poi nella seconda ripetizione della Ratti-Vitali sulla ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey (con loro anche Emilio Villa) e ancora nella salita della Walker alla Grandes Jorasses (con loro anche Mario Bianchi). Insomma, la scalata per Bonatti era qualcosa di naturale.
Una via di quinto e sesto grado dove scoprimmo che, malgrado tutto il nostro allenamento, fuori dalla Grignetta eravamo ancora dei pivellini
Camillo Barzaghi
Ben prima di queste due ripetizioni le loro salite lombarde iniziarono a fare notizia, così che anche i giornali si accorsero di questi alpinisti operai (Bonatti per anni è stato impiegato siderurgico alla Falck), che si cimentavano in scalate sempre più difficili nel tempo libero dal lavoro. Ripetizioni di vie estreme si alternavano a nuovi tracciati, come sul Torrione Magnaghi Meridionale (via Clara, Bonatti-Barzaghi, luglio 1949). Le prima volta lontano dalle montagne di casa lo videro sulla nordovest del Pizzo Badile, insieme a Camillo Barzaghi. “Una via di quinto e sesto grado dove scoprimmo che, malgrado tutto il nostro allenamento, fuori dalla Grignetta eravamo ancora dei pivellini” (Walter Bonatti. Il sogno verticale, Rizzoli, 2016). Dimensioni più grandi, avvicinamenti lunghi e una parete che pareva quasi infinita misero a dura prova la cordata. Per loro fu un nuovo battessimo della roccia, qui sperimentarono per la prima volta un bivacco in parete. Pratica che negli anni a venire diventò quasi quotidiana nella vita alpinistica di Bonatti.

Determinato e metodico

Nel 1950 Walter Bonatti compì vent’anni, scalava da poco ma già era uno dei più forti alpinisti della scena italiana. Era tempo di tentare qualcosa in più, così si prefissò un nuovo obiettivo: il Grand Capucin. Un granitico obelisco la cui parete est, inviolata, rappresentava un importante problema alpinistico. Sul finire degli anni Quaranta era nelle mire dei più forti arrampicatori italiani e francesi, ma nessuno riusciva a coglierne i punti deboli lungo cui poter passare. Bonatti ci provò due volte. Il primo tentativo, con Camillo Barzaghi, non fu un successo. I due vennero ricacciati verso valle da una violenta tempesta di grandine e fulmini. Il secondo tentativo lo fece sul finire di agosto con un ragazzo conosciuto al campeggio della Val Veny, Luciano Ghigo. I due scalarono per tre giorni, riuscendo a superare gran parte della parete, per poi essere nuovamente bloccati dal maltempo. Tentarono comunque di completare la salita, per poi rinunciare definitivamente davanti a una placca di estrema difficoltà. Ancora una volta, ci riprovarono nel luglio del 1951 e questa volta il colpo riuscì. Curioso osservare, come già all’epoca di fronte all’affascinante inutilità delle imprese alpinistiche (parafrasando Lionel Terray), il popolo degli appassionati di montagna si dividesse in polemiche sulle “ambiziose e rischiose prestazioni” dei giovani arrampicatori. Dopo il successo sul Grand Capucin la discussione fu lunga sulle testate di settore, ma a Walter poco importava.
Gli anni che seguirono furono intensi, alpinisticamente parlando. La leva militare lo avvicinò ulteriormente alla montagna, allontanandolo sempre più dalla ricerca di una vita che seguisse i normali canoni impostici dalla società: lavoro stabile, moglie, figli, vacanze programmate. Assegnato inizialmente alla Scuola Motorizzazione di Cecchignola protestò con tanta verve da essere riassegnato al 6° Reggimento Alpini.

È sorprendente scoprire come questi anni, dalle prime scalate fino alla partenza per il K2, siano facilmente ricostruibili scalata dopo scalata. Possiamo conoscere giorno, montagna, via, composizione della cordata e altri dettagli di ogni singola salita. È possibile farlo grazie a un quadernetto conservato tra i materiali dell’Archivio Walter Bonatti, al Museo Nazionale della Montagna di Torino, dove Walter ha annotato ogni dettaglio. Un residuato degli anni scolastici, si nota immediatamente aprendolo alla prima pagina dove si trova un appunto a matita indicante giorno e data della morte di sua mamma Agostina e la scritta “CHIMICA”. Il reperto, se vogliamo trattarlo da archeologi dell’alpinismo, mostra un Bonatti poco noto, metodico e puntiglioso. Svela la passione immediata per il mondo che l’ha accompagnato nella parte più giovane della sua vita fino alla coscienza dell’età più matura. Racconta l’evolversi del suo alpinismo e delle sue capacità. Le ultime pagine parlano delle salite compiute prima della partenza per la seconda montagna della Terra. In questo periodo si lega spesso con il milanese Roberto Bignami (che poi morirà nel 1954 durante l’avvicinamento al poco conosciuto monte Api, in Himalaya), realizzando nel marzo del 1953 la prima invernale della cresta Furggen sul Cervino e poi, qualche mese dopo, “una vera mietitura di successi alpinistici”. Tre prime sulle Alpi centrali: Torrione Fiorelli per la parete nord, Picco Luigi Amedeo per lo spigolo sudovest, Torrione di Zocca per lo spigolo est. I successi più grandi ottenuti con Bignami nel 1953 sono però la salita del Monte Bianco per il canalone nord del colle di Peuterey e, ormai con condizioni invernali, la nord del Pizzo Palù (via Feult-Dobiasch). Qui si interrompe lo schematico racconto alpinistico ricostruibile attraverso i quaderni di Walter, l’anno successivo sarebbe partito per il K2, la sua più dolorosa sconfitta.

Una foto liberatoria

Di quel che accadde sul K2 ormai rimane poco da dire, ogni appassionato conosce a memoria i fatti della più grande, quanto subdola, storia alpinistica nazionale. “Di inedito credo non ci sia rimasto proprio nulla” rispose schietto Bonatti a un giornalista, cinquant’anni dopo.

Quel che è certo è che Walter tornò cambiato dal Pakistan, per un certo tempo venne assorbito dai doveri istituzionali e dalle celebrazioni della vittoria, poi tornò alla montagna. Per un attimo scomparve dalle immagini del trionfo himalayano, ricomparve poi sull’inviolata parete sudovest del Dru. Fu un’esperienza che lo stesso Bonatti descrisse come l’ingresso in un’altra dimensione: sei giorni in parete, cinque bivacchi, arrampicata sostenuta ed estrema. Le uniche foto di quell’impresa furono quelle scattate con il teleobiettivo dalla terrazza della stazione di Montenvers.

Ritaglio dal quotidiano "La Stampa" del 22-23 agosto 1955 riguardante la scalata di Bonatti sul Dru. Foto @ Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino
Bonatti accolto dalla gente al ritorno dalla scalata solitaria sul Cervino, febbraio 1965. Foto @ Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino
La corda rossa utilizzato da Walter Bonatti sulla nord del Cervino. Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino
I cunei di legni utilizzati da Walter Bonatti sul Petit Dru. Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino
Del Dru esiste una pagina intera de La Stampa che titola “Bonatti sull’inviolata parete del Dru”, un reperto importante che racconta una storia d’altri tempi. L’alpinismo di Bonatti stava assumendo una connotazione diversa per il mondo mediatico e degli appassionati. Non era più una questione personale, da Walter ci si aspettava qualcosa di grande: dove lui andava si faceva notizia. A soli 25 anni era già entrato a far parte del mito. Soprattutto il suo alpinismo era questione nazionale e gli si dava risalto come oggi lo si dà al mondo del calcio, altri tempi.

Foto di gruppo della spedizione al Gasherbrum IV nel 1958, al campo base. Da sinistra, in seconda fila: Roccardo Cassin, l'ufficiale pakistano Abdul Dar, Giuseppe Oberto, Donato Zeni, Walter Bonatti, Toni Gobbi, Fosco Maraini. Seduti: Bepi De Francesch e Carlo Mauri.
Foto @ Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino

 

Gli anni che seguirono furono intensi e ricchi di successi. Uno dopo l’altro Bonatti portò a termine la prima traversata scialpinistica delle Alpi e poi alcune delle sue più importanti ascensioni, con diversi compagni. Nel 1957 si legò a Toni Gobbi nel compiere la prima ascensione al Monte Bianco passando per lo sperone nordest del Grand Pilier d’Angle. Il successivo fu l’anno più importante. Dopo una breve ma positiva esperienza patagonica, tornò di fronte al K2. Questa volta l’obiettivo non era la seconda montagna della Terra, quanto il difficile e inviolato Gasherbrum IV, che per una manciata di metri non rientra nella rosa dei quattordici. Di questa spedizione ci rimangono le belle immagini di Fosco Maraini e i rari e nebulosi scatti che ritraggono Bonatti e Carlo Mauri sulla cima. Fu una rivincita per lo scalatore lombardo (ma anche per tutta la spedizione), dopo i fatti di soli quattro anni prima.
Verso la fine degli anni Cinquanta Bonatti tornò a dedicarsi con costanza al Monte Bianco, spesso con Andrea Oggioni altre volte con Gigi Panei. Fu un periodo abbastanza frenetico a seguire la cadenza delle realizzazioni di Bonatti: prima assoluta al Monte Bianco per il Pilastro Rosso di Brouillard e cresta del Brouillard, prima assoluta al Mount Maudit per via diretta sulla parete sudest (con Oggioni e Roberto Gallieni), prima assoluta alla Chandelle du Tacul per la parete est, prima ascensione dello sperone nord della Punta Whymper (Grandes Jorasses, con Michel Vaucher) e molte altre.
Bonatti al ritorno dalla punta Whymper, sulle Grandes Jorasses, raggiunta il 9 agosto 1964. Foto @ Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino
Bonatti e Robert Guillaume si apprestano a scendere con i loro compagni dal Pilone Centrale del Freney, respinti dal maltempo. La visibilità è ridottissima. Luglio 1961. Foto @ Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino
Bonatti e (a seguire) Andrea Oggioni durante una delle salite effettuate nel 1961 sulla Cordillera Huayhuash, nelle Ande peruviane, e culminate con la conquista del Rondoy Nord. Foto @ Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino
Un elenco lungo di cui troviamo oggi numerosi scatti di Walter ai suoi compagni e viceversa. Scorrendo però tra le foto in ordine cronologico incontriamo, a un certo punto, un paio di immagini che ci riportano alle prime righe di questo articolo: Walter trentaquattrenne, solo, in inverno, pronto a dare l’addio a quel mondo verticale che tanto gli ha dato. È il febbraio 1965 e Bonatti si sta muovendo in solitaria sulla nord del Cervino. Sta aprendo un nuovo itinerario, estremo quanto affascinante, è il suo modo per chiudere il cerchio con l’alpinismo. Una foto sfocata lo ritrae in vetta, abbracciato alla croce sommitale della Gran Becca. Gliel’hanno scattata da un piccolo aeroplano in volo sulla montagna. Per molti può sembrare una foto come le altre, ma racchiude in sé tutta la storia di un uomo. È la chiusura di un capitolo, ricco di successi e doloroso per le ingiustizie subite.
La giovinezza non è forse una delle cose più preziose della vita? E la montagna è una inesauribile fontana di giovinezza. Ma attenti, la montagna può essere molto pericolosa, in montagna non si deve sbagliare, ci si dovrà quindi accostare con prudenza, con preparazione scrupolosa e soprattutto con coscienza. Allora, oltre che fontana di giovinezza, la montagna diventerà per voi anche una scuola del carattere – lassù si impara a soffrire – e affinerete quelle doti che sono alla base del progresso e che rendono l’alpinismo utile e valido anche sotto un profilo sociale, oltre che sportivo.
Walter Bonatti - discorso tenuto agli studenti milanesi il 4 aprile 1965
Museo Nazionale della Montagna CAI-Torino

Si ringrazia il Museo Nazionale della montagna Duca degli Abruzzi - Cai Torino per la consulenza e i materiali dell'archivio Bonatti