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La “peste” dell’Everest

KATHMANDU, Nepal – Come le sette piaghe d’Egitto. La prima: la grande valanga che ha ucciso il più alto numero di lavoratori/alpinisti nepalesi due anni fa. La seconda: il terremoto dell’anno scorso e le vittime del campo base. La terza: il mal di montagna diffuso di quest’anno, pervicace, strisciante. Un male che ha già ucciso due alpinisti, ne ha cacciati dal campo base una ventina, ne ha costretti 140 a ricorrere alle cure dei medici che al base hanno una postazione di pronto intervento. Bhuwan Acharya, del presidio sanitario di Periche, un ospedalino che funziona da 30 anni voluto dall’Himalayan Rescue Association, ha detto che ha erogato in tre settimane almeno 320 trattamenti a pazienti , mentre più di 10 persone sono state quotidianamente visitate e trattate con ossigeno: “Sette stranieri e tre sherpa d’alta quota sono stati anche evacuati ” ha aggiunto.

Le calamità della grande montagna non accennano a diminuire, la sua rabbiosa indignazione, ancorché divina, è ancora ad elevato potere distruttivo.

Sono certo che in buona sostanza è questo che pensano i mitici e miti (sempre meno) compagni autoctoni degli alpinisti delle spedizioni commerciali accampati sui fianchi del Sagarmatha, la Dea Madre.

400 alpinisti presenti, secondo le autorizzazioni di salita concesse, oltre a 500 tra cuochi, ragazzotti di cucina, portatori d’alta quota e sherpa. Una tonnellata di cacca al giorno, prodotta al campo base e portata a spalla e seppellita su una morena secca più a valle, e, nelle giornate di bel tempo, almeno un’altra mezza tonnellata tra campo due, tre e quattro. Mi perdonino le anime belle delle montagne, ma, se di sostenibilità ambientale dobbiamo parlare, di questo bisogna occuparsi. E la Dea, che sarà pure Madre, credo si sia stufata di pulire il culo dei suoi ingordi figli, asiatici o occidentali che siano.

Perché se tutto questo mal di montagna, gli edemi polmonari e pure quelli cerebrali, è ascrivibile a una forma di psicosi determinata più dalla grande inesperienza di chi è in questo Luna Park d’alta quota, che dalla fisiologia, allora, magari, la questione non è grave da un punto di vista medico, ma lo è certamente da quello ambientale.

Mi spiego. Difficile fare valutazioni sull’esperienza alpinistica dei partecipanti alle spedizioni commerciali che si iscrivono per salire l’Everest e che ora (moda lanciata al Nanga Parbat lo scorso inverno) si pre-acclimatano sulle montagne circostanti come il Loboche Peak.

Non è che i quasi 6200 metri di questo bel monte siano meno letali della stessa quota a campo due all’Everest se non si è acclimatati per nulla. Difficili anche che le considerazioni su coloro che assumono 5 o 6 pastiglie di Diamox (diuretico) al giorno per poi farsi delle flebo per reidratarsi. Lakpa Norbu Sherpa, che lavora con un team di medici al campo base dell’Everest, ha informato che di aver trattato clinicamente almeno 140 persone nelle ultime tre settimane.

Pemba Sherpa, forse il maggior e più esperto organizzatore nepalese di spedizioni commerciali con la sua Agenzia Seven Summit (dopo le decine di clienti sull’Everest, pensate che porterà 44 clienti anche al K2 quest’estate), ha confermato che la maggior parte dei lavoratori/nepalesi quest’anno  ha problemi di salute, ma ha anche detto che ce ne sono pochi di esperienza che hanno accettato di tornare sulla montagna. La maggior parte sono ragazzotti che vengono da valli lontane, verso il Terai: esperienza 0.

Causa della “pandemia” reale o immaginaria, possono poi essere le condizioni igieniche che si determinano al campo base. Vero che ci sono le latrine obbligatorie, ma è altrettanto usuale pisciare dietro la tende: lo fanno i cuochi, gli sherpa e gli ospiti lautamente paganti, che la fanno di notte anche in bottiglie e contenitori vari che svuotano al mattino (dove?). Il lavaggio delle mani poi è consuetudine poco frequentata. In più di temperature miti non facilitano, come fa il gelo, il blocco delle gite batteriche.

Le epidemie di gastroenterite, o più semplicemente di “cagotto”, in passato si sommavano, nelle giornate di maltempo e di grande scambio di germi dentro le tende collettive, a quelle di potenti raffreddori e bronchiti, che si sommavano agli effetti dell’ipossia e al mal di testa conseguente.

Se prima tutto ciò era considerato una normale ricaduta dell’essere in quota, in un luogo disagiato e freddo, ora il terrore della vendetta della Dea Madre pare stia seminando il panico e pare che gli alpinisti ricorrano ai medici dell’Himalayan Rescue più che i malati a quelle dell’ASL.

Vedremo le statistiche a fine stagione.

Rimane il dubbio che dopo le prime due “piaghe” e dopo la rivolta del popolo lavoratore delle alte quote, il film Sherpa lo documenta anche con crudezza, si sia pensato che riprendere con l’andazzo precedente fosse normale, anzi giusto. Si è creduto che autorizzare qualche volo di elicottero da campo base a campo uno, per diminuire i rischi e fare un paio di visite politiche al campo base, fosse rassicurante e risolvesse i problemi.

Ma le spedizioni commerciali organizzate in Europa, Nuova Zelanda o Nepal (la maggior parte ormai) e i permessi collettivi gestisti al ribasso sono stati e sono la vera degenerazione dell’alpinismo, lo svilimento del valore culturale ed estetico delle montagne. Pochissimi se ne sono sottratti e le evitano, anche tra i grandi, i puri ed i politicamente e socialmente corretti. E questa storia di innaturale malessere lo dimostra ampiamente.

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5 Commenti

  1. Dipendera’ da fatto che le organizzazioni commerciali di spedizioni e trekking non lasciano ai clienti il tempo necessario per akklimatarsi. I tempi calcolati sono sempre minimi, ogni giorno in piu’ aumenta sensibilmente i costi e la forte concorrenza costringe a tenerli il piu’ basso possibile. Gli organizzatori si affidano ai Certec-Bags e inoltre chi non e’ piu’ in grado di continuare deve fermarsi e magari tornere indietro a spese proprie. Solo le organizzazioni piu’ serie richiedono appropriate condizioni di salute e una certa esperienza.

  2. da una parte dicono di mettere permessi così costosi per scoraggiare gli impreparati a salire, dall’altra fanno salire persone che non farebbero neanche un trekking in Dolomiti.

  3. Grazie Da Polenza, parole sante sulle quali tutti, anime belle comprese, devono riflettere.
    Appunto: trekking sulle montagne di casa, scalate sulle montagne di casa, alpinismo sulle montagne di casa, sono attività eticamente più serie. Poi, se si vuole l’alt(issim)a quota, ci si prepari come si deve e non si vada a far ridere i polli, nepalesi o tibetani che siano.

  4. già se poi aggiungiamo anche il fatto che certi grandi alpinisti vogliono portare il Gabibbo sulla vetta dell’Everest, lo svilimento è servito !!!

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