Alpinismo

Cerro Torre, prime salite e menzogne: l'alpinismo è una verità senza testimoni

COURMAYEUR, Aosta — Alpinismo, menzogne, verità e polemiche. L’ultima discussione sulla salita del Cerro Torre da parte di Cesare Maestri, che viene messa in dubbio da decenni e ancora torna alla ribalta sui giornali, ha aperto sulla nostra testata una serie di riflessioni su quanto ci si possa “fidare” degli alpinisti, la cui storia è segnata da imprese incredibili ma anche da altrettanto incredibili bugie. Riceviamo e pubblichiamo oggi un bell’editoriale scritto di Gioachino Gobbi, patron di Grivel: il “De veritate” dell’alpinsimo. Che vi lascerà sicuramente con molto materiale su cui riflettere.

“Un antico proverbio cinese recita: quando si devono fare dieci passi, nove sono metà del cammino.  (In Toscana suona: chi di dieci passi n’ha fatti nove è alla metà del cammino. Però la citazione cinese è più culturale e più “figa”.)
Pochi aforismi hanno un riscontro così preciso nell’alpinismo. Inutile raccontare quante volte siamo arrivati a 100 metri dalla vetta, abbiamo preferito lasciare gli ultimi 200 metri perché le condizioni erano troppo inutilmente pericolose, e così via con tutte le spiegazioni possibili che, in fondo in fondo, sottintendono il messaggio: sì, in pratica l’abbiamo fatto!
Ci sono voluti tanti anni perché si avesse una specie di verità sulla prima salita al Monte Bianco sui ruoli di Balmat e di Paccard, l’8 agosto 1786 data considerata l’inizio dell’alpinismo; come più tardi per Bonatti al K2; nel 1838 Henriette d’Angeville venne acclamata come la prima donna a salire sul Monte Bianco (la prima fu in realtà Marie Paradis nel 1808) poi, con grande imbarazzo, si cominciò a dire: la prima donna straniera a salire sulla vetta (lei era francese ed il Monte Bianco apparteneva al Regno di Sardegna dai due lati).
Oggi vedo un nuovo risorgere delle polemiche sul Cerro Torre che in più si tirano dietro l’eterno dilemma della “verità”. Si può rispondere su tre livelli:
1-La storia della salita al Torre
2-La veridicità ed il controllo in montagna
3-La definizione della “verità”

1-Cinquanta anni di polemiche non hanno risolto nulla. Oggi mi chiedo: interessa veramente al mondo alpinistico questa querelle? Secondo me no. Continua ad esistere e a creare interesse solamente perché, attraverso gli interventi, le accuse e le difese si possono vedere e comprendere un po’ meglio la personalità e le caratteristiche degli attori. In altre parole: non interessa la salita ma la reazione di chi partecipa alla sceneggiata.
Kant diceva:  pazienta per un poco; la verità è figlia del tempo, tra non molto essa apparirà per vendicare i tuoi torti. Speriamo avesse ragione perché io sono convinto che questo genere di discorsi e polemiche non servono ad allargare il numero di base degli alpinisti ed a far appassionare più giovani alla montagna ed alle sue molteplici opportunità di esplorazione e di divertimento.
E questo è il vero problema ed il vero futuro!

2-L’alpinismo è una attività senza testimoni. Non si fa in uno stadio davanti ad un gran numero di tifosi, non si fa in teatro davanti ad un piccolo numero di spettatori, spesso non c’è anima viva nel raggio di molti chilometri. La verità è perciò affidata ai protagonisti con le loro caratteristiche più o meno amate e più o meno amabili, e coinvolge quindi  anche l’aspetto etico essendo collegata con l’esigenza di onestà intellettuale, con la buona fede e la sincerità. D’altronde bisogna sempre essere almeno in due perché la verità nasca, uno per raccontarla e l’altro per ascoltarla. E in fondo noi italiani siamo maestri nel  gioco dei contrasti: lui non è affidabile e quindi io lo sono! Le varianti sono infinite: lui non ci è arrivato e quindi io ci sono arrivato, lui non riesce a passare e quindi io passo, lui … bla, bla, bla.
Diceva Joseph Goebbels, il tristemente famoso ministro della propaganda nazista: ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità. Può valere in entrambi i casi, a favore o contro.
Certo non vorremmo che il nostro mondo funzionasse così, ma è l’uomo che funziona così.
Per esempio, nonostante una volta moltissimi  lo credessero, la terra non è piatta. Le stelle non ruotano intorno alla terra. Mangiare un pomodoro non porta alla morte immediata, e  l’uomo  può volare e persino superare il muro del suono.  Per esempio nel nostro mondo negli anni ’50 si credeva fosse impossibile  arrivare in cima ad una montagna di 8000 metri senza ossigeno e non morire!
Forse oggi i moderni mezzi tecnologici, dal GPS ai telefoni satellitari, alle GoPro e chi più ne ha più ne metta, renderanno più difficile nascondere gli insuccessi e contemporaneamente renderanno più facile dimostrare le riuscite. Certo tolgono molto all”avventura”, ma sono i tempi che cambiano e solo in futuro vedremo i pregi ed i difetti di queste innovazioni.

3-Nel terzo punto il discorso si fa molto più difficile e spero di non annoiare i miei venticinque lettori (come diceva il Manzoni).
Si aprono due problemi: il relativismo e l’esperienza personale.
Oggi si considera che la verità sia nella maggioranza dei casi “relativa” e da qui nasce il “relativismo”secondo il quale tutte le verità che ricadono in un particolare ambito sono relative, e ciò comporta che ciò che è vero o falso varia al variare delle epoche e delle culture.
Ad esempio questo vale nelle verità scientifiche che non sono così definitive come spesso si crede. Tante volte quello che riteniamo una verità scientifica ben controllata è qualcosa che, con una strumentazione più raffinata, viene ridotta di portata, e diventa meno universale. Questa “verità” è sostituita da una verità un po’ più profonda.
Nel nostro campo alpinistico abbiamo infiniti esempi di cambiamenti dei giudizi sulle attività alpinistiche ed arrampicatorie. Dalle grandi e pesanti spedizioni nazionali allo “stile alpino”. Il già citato ossigeno. L’utilizzo del  Pervitin ( una amfetamina che veniva distribuita ai soldati tedeschi durante la prima guerra mondiale) da parte di Herman Bhul per la prima salita al Nanga Parbat nel 1953: ma siamo sicuri di poter giudicare quel comportamento con il pensiero di oggi? E lo stile totalmente artificiale con il quale si realizzarono le grandi salite in Yosemite? L’elenco potrebbe essere lungo come la storia dell’alpinismo!

E veniamo all’esperienza personale. Una antica parabola racconta di sei uomini ciechi che vanno a conoscere un elefante. Ognuno di loro tocca una parte diversa dell’elefante e poi descrive agli altri ciò che ha scoperto. Uno degli uomini trovò la zampa dell’elefante e la descrisse essere tonda e ruvida come un albero. Un altro prese la zanna e disse che l’elefante era come una lancia. Il terzo afferrò la coda insistendo nel dire che l’elefante è come una fune. Il quarto trovò la proboscide e affermò che l’elefante è come un grosso serpente. Ognuno descriveva qualcosa di vero e poiché la verità di ciascuno derivava da un’esperienza personale, ognuno continuava ad affermare che sapeva quello che sapeva. Morale:tutti erano in torto sebbene ognuno avesse in parte ragione.

Vorrei terminare con una annotazione bella, che a me ha insegnato molto e che non è abbastanza conosciuta. Il 25 maggio 1955 due alpinisti inglesi George Band e il famoso Joe Brown arrivarono in vetta al Kangchenjunga, la terza montagna più alta della terra dopo Everest e K2. In realtà non arrivarono proprio in vetta ma si fermarono volontariamente alcuni metri sotto la cima: rispettarono una promessa fatta al Chogyal  (Re del Sikkim) di non calpestare la vetta dove le popolazioni locali pensavano vivessero gli Dei. Il Kang rimase dunque inviolato; ma i nostri possono essere considerati i primi salitori?”

 

Gioachino Gobbi

 

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