Medicina e benessere

Il ferro, un antidoto contro il mal di montagna

BERGAMO — Il ferro è un elemento importante nella dieta e non può essere tralasciato. E’ stato oggetto di numerosi lavori scientifici nel campo della nutrizione applicata all’esercizio fisico, in quanto risulta fondamentale per la formazione dell’emoglobina, quel pigmento rosso dall’architettura proteica piuttosto complessa che è in grado di trasportare l’ossigeno nel sangue. Gli allenatori hanno contato molto in passato sui periodi trascorsi in altitudine dagli atleti di varie discipline sportive per stimolare la liberazione di eritropoietina, ormone prodotto dal rene utile a far aumentare i globuli rossi nel sangue. A tal proposito molti ricercatori si sono chiesti quale sia l’impatto di tale procedura sul metabolismo del ferro.

E’ sufficiente una riduzione del 10% dell’emoglobina per ridurre una performance di resistenza del 20-25%. Nessun organismo animale è in grado di vivere senza il ferro. I globuli rossi rappresentano il 35-50% del sangue circolante nell’organismo: ogni globulo rosso è costituito per il 25-35% da emoglobina ( 2.7 gr di ferro, pari al 54% del totale). Si trova circa 1 gr di ferro nel sistema reticolo-endoteliale (fegato, milza, midollo osseo), dove il ferro è legato a delle proteine particolari: emosiderina, transferrina e ferritina. Il ferro si trova anche nella mioglobina, una proteina che rappresenta l’analogo muscolare dell’emoglobina. L’assorbimento del ferro è molto variabile e si trova in molti alimenti sotto due forme differenti: eminica, legato all’emoglobina nelle carni animali, e non eminica allo stato di sale nei vegetali.

Si riscontra una forte percentuale di carenza di ferro tra la popolazione sportiva, in particolare tra coloro che praticano gli sport che richiedono resistenza. Alcuni maratoneti americani per esempio, a causa dell’intensa attività fisica, sono soggetti ad un grande consumo di ferro con conseguente diminuzione dello stesso elemento nel corpo. Ciò accade in parte a causa delle cattive abitudini alimentari, che condizionano in senso negativo il metabolismo del ferro, e comporta una riduzione della performance degli atleti. Spesso si prendono in considerazione solo l’esame del ferro serico e dell’emoglobina per diagnosticare uno stato di carenza di ferro, invece è opportuno effettuare anche il dosaggio della ferritina serica, che è in grado di valutare in modo accurato lo stato del ferro di riserva nell’organismo umano (un microgrammo di ferritina per litro di sangue è in grado disporre di 8 mg di ferro). Va segnalato che tale proteina può subire incrementi in occasione di infezioni o di infiammazioni e che soltanto il 10% del ferro è biodisponibile in una dieta idonea.

Nel maschio si trovano circa 50 mg/Kg di peso corporeo di ferro, e 35 mg/Kg nella femmina; il contenuto totale si aggira intorno ai 5 gr. E’ buona cosa quantificare il consumo di ferro di un atleta per calcolare la quantità di ferro richiesta dall’organismo. I maschi sedentari consumano di solito 1 mg di ferro al giorno, mentre le femmine 1.5 mg a causa delle perdite mestruali. Il ferro può essere eliminato con il sudore (perdita poco significativa), con l’allenamento, con l’urina (0.1 mg) o dall’intestino (le perdite fecali sono di circa 0.3 mg al giorno). Una donna fertile può perdere con le mestruazioni da 3 a 60 mg di ferro al mese. Nel corso di un allenamento pesante di tre ore al giorno si possono perdere fino a 1.5 mg di ferro, giusto per fare un esempio. Una perdita di ferro si può verificare attraverso l’emolisi dei globuli rossi, ovvero la loro distruzione (“emolisi da colpo del piede”) a causa di un esercizio fisico pesante che comporta una contrazione muscolare intensa; ciò accade in particolare durante una corsa in discesa. I globuli rossi più vecchi, essendo più rigidi, si rompono con maggior facilità: l’emoglobina che si libera viene captata dall’Aptoglobina, una proteina che riporta il ferro al sistema reticolo-endoteliale. La diminuzione dell’Aptoglobina nel siero testimonia la distruzione di una parte dei globuli rossi e rappresenta un importante marcatore di emolisi: quest’ultima sembra avere scarsa importanza nello sci di fondo e nel body-building, mentre si verifica nel nuoto e nel canottaggio.

Il ferro può essere perso negli atleti che si allenano in modo intenso tramite perdite ematiche a livello dell’apparato gastrointestinale, attraverso l’acidosi e la perossidasi delle membrane cellulari dovuta ai radicali liberi: tutto ciò infatti, comporta una perdita di ferro giornaliera pari ad almeno 1 mg. Si può ipotizzare l’assunzione di una quantità di ferro da assumere ogni giorno pari a 36 mg nell’atleta maschio e a 41 mg nell’atleta femmina. E’ opportuno elaborare un programma di allenamento razionale quale misura preventiva nei confronti delle cosiddette anemie da carenza di ferro. Utile per esempio l’integrazione di ferro di 20-25 mg al giorno per sostenere il metabolismo del ferro.

Gli allenatori hanno contato molto in passato sui periodi trascorsi in altitudine dagli atleti di varie discipline sportive per stimolare la liberazione di eritropoietina, ormone prodotto dal rene utile a far aumentare i globuli rossi nel sangue. A tal proposito molti ricercatori si sono chiesti quale sia l’impatto di tale procedura sul metabolismo del ferro. In effetti un soggiorno di varie settimane ad oltre 1800 metri di quota può portare ad un decremento delle riserve di ferro e perciò, dell’emoglobina. In realtà lo stress dovuto alla carenza di ossigeno in quota ed all’allenamento conducono ad una mobilizzazione delle riserve di ferro nell’organismo umano per produrre nuovi globuli rossi e per far fronte agli aumentati fabbisogni delle cellule, in particolar modo le cellule dei muscoli che incrementano il loro contenuto di mioglobina. Se, infatti, le riserve di ferro sono scarse si assisterà ad una caduta dell’emoglobina, che l’aumento cronico dell’adrenalina in quota può aggravare.

La rivista scientifica americana “High Altitude Medicine & Biology” (Volume 12, numero 3, 2011) ha pubblicato un articolo scritto da alcuni ricercatori inglesi e peruviani che hanno dimostrato con uno studio in doppio cieco in un gruppo di 24 soggetti volontari sani residenti sul livello del mare che la somministrazione di ferro per via endovenosa prima di una rapida salita a Cerro de Pasco (4340 metri) in Peru è in grado di proteggere l’organismo umano dal male acuto di montagna. La disponibilità di ferro ha dimostrato di condizionare in senso positivo la risposta dell’organismo alla carenza di ossigeno, facendo diminuire la pressione dell’arteria polmonare causata dall’alta quota nei soggetti che hanno assunto ferro, rispetto al gruppo di controllo, che hanno ricevuto solo soluzione fisiologica in vena. La somministrazione a scopo profilattico di ferro in vena protegge dal male acuto di montagna soggetti volontari sani che sono saliti velocemente in quota; altra osservazione interessante emersa dallo studio è che variazioni della ferritina serica correlano negativamente con i vari gradi di male acuto di montagna in alta quota. Attenzione al ferro in eccesso che sembra favorire le infezioni e che viene eliminato con difficoltà dall’organismo.

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