AlpinismoAlta quota

Himalaya, nulla di fatto sul Chakung: rientro per Bonino e Meli

Enrico Bonino e Nicolas Meli
Enrico Bonino e Nicolas Meli

AOSTA — “Ci siamo resi conto che in Himalaya anche per tentare i “non 8000”, non bastano le capacità tecniche e l’esperienza acquisita nelle Alpi. E’ un gioco tutto nuovo da imparare, dove contano molto l’esperienza locale e la strategia”. Ecco il commento delle guide alpine valdostane Enrico Bonino e Nicolas Meli, che sono rientrati dalla loro spedizione himalayana con un nulla di fatto. I due volevano aprire una via nuova sul Chakung, 7.036 metri, nella valle del Khumbu, in stile alpino. Ma problemi di quota e forse di logistica hanno impedito loro di raggiungere l’obiettivo: ecco il loro racconto.

Bonino, 29 anni, e Meli, 31, erano partiti dall’Italia il 16 novembre con l’ambizioso obiettivo della via nuova in stile alpino sul Chakung. Prima, però, si sono diretti con una cliente verso il Nireka, vetta di 6.200 metri individuata come salita di acclimatamento.
“Abbiamo deciso di portarci appresso una cliente durante la salita di acclimatamento – dicono i due alpinisti nella loro relazione –  chiaramente rivisitata per adeguarla alle capacità della ragazza. Al campo base del Nireka ultimiamo i preparativi, facciamo scuola di ghiaccio, “addobbiamo” il ghiacciaio come un parco giochi perché Marine possa impratichirsi con tutte le manovre di corda, quindi decidiamo di partire per la vetta. Marine dà però segni di debolezza e dopo pochi passi torna indietro. Per Nik e me, però, è estremamente importante portare a termine la salita e continuiamo dopo averla riaccompagnata”.

Dopo la salita, i due alpinisti salgono verso Gokyo, mentre la cliente rientra accompagnata da uno sherpa. La prima ricognizione mostra subito alla cordata che le due linee di salita individuate sulla parete non sono in condizioni ottimali. Così Bonino e Meli, piuttosto che percorrere una via già aperta, cambiano meta e si dirigono al Chumbu, 6.870 metri, che si trova nella valle dietro al Chakung, affrontando un lungo e accidentato avvicinamento tra dune di ghiaccio e sassi, morene, colline erbose.

“Forti delle nostre capacità e delle nostre precedenti esperienze alpine e himalayane – scrivono ancora i due alpinisti -, predisponiamo
questo piano: C1 all’evidente colle alla base dello sperone più ripido, “tanto aspettiamo il Sole che in 3 h max siamo su”. Poi “dormiamo, il giorno dopo saliamo in vetta e scendiamo a C1, e poi si torna a Gokyo a mangiare bistecche e patate. Lo sperone di roccia e ghiaccio fa 1.400m di dislivello circa. Dovremmo farcela”.

I due alpinisti partono leggeri, ma solo arrivare alla crepaccia terminale si rivela “un’impresa massacrante” per la neve profonda e inconsistente. La salita è anche peggio. “Proseguiamo lenti e il terreno si fa sempre più ripido e complesso – scrivono nella relazione -. Entriamo in una zona di seracchi, incontriamo tiri di cui uno a 90 gradi, si sprofonda nella neve. Al bivacco, 6000 metri, siamo demoliti. Stiamo benissimo, niente mal di testa, nessun sintomo di mal di montagna, solo grande stanchezza fisica”.

“Il giorno successivo decidiamo di acclimatarci ulteriormente – scrive Bonino – e di riposarci, e di dare spazio solo ad una piccola ricognizione poco oltre. Attacco il primo tiro dopo la cengia, un diedro di misto delicato che deve condurre in cresta. Faccio 10 metri, poi un po’ confusamente costruisco una sosta e dico a Nik di calarmi. C’è qualcosa che non va. Eppure sto bene, non ho mal di testa, non ho nausea… non capisco cosa stia succedendo. La testa mi gira e la vista è appannata. La vetta mi sembra all’improvviso lontanissima e lo sperone insormontabile”.

“Sono ancora lucido – confessa l’alpinista -, sento che non può essere nulla di grave perché non ne ho i sintomi, ma tutt’a un tratto mi sento davvero sperso nel nulla, lontano da tutto e da tutti. Non è come da noi che basta una telefonata e pochi minuti dopo arriva
l’elicottero. In questi momenti, in questi luoghi più che mai, ognuno deve avere la lucidità di chiedersi se vale la pena rischiare. La cordata qui assume un significato fortissimo di legame tra persone”.

Dopo la rinuncia, i due si sono chiesti come mai fosse andata male. “Cosa c’era di diverso dalle salite che abbiamo effettuato l’anno scorso? – scrivono -. Il trittico di vie realizzato precedentemente era fatto di salite che raggiungono una quota massima di 6.000 metri, con un avvicinamento relativamente breve e tiri di corda con possibilità di riposo tra uno e l’altro. L’obbiettivo di quest’anno era invece una montagna di 7.000 metri che, benché dura, richiedeva lunghi tratti di arrampicata in conserva. Ma in realtà questa è solo una piccola parte di ciò che ci ha sfiniti. Questa era una via dura ma assolutamente alla nostra portata, da un punto di vista tecnico. Il problema e’ stato, a nostro parere, la strategia errata ad averci logorato poco a poco”.

“Se si parte per un obbiettivo così alto ed impegnativo – proseguono -, bisogna ottimizzare le energie durante tutto il periodo di acclimatamento e di spostamento. Non si può pensare di portare un cliente al seguito per fare una salita di acclimatamento che sarà sicuramente un compromesso. Non si può neppure girare mezzo Khumbu alla ricerca di buone condizioni e poi, una volta trovate, partire in totale autonomia per affrontare una salita come quella che avevamo in mente, senza avere almeno un campo base attrezzato dove riposare adeguatamente. Noi al campo base siamo già arrivati stanchi”.

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