
Il 3 settembre del 1925, un gruppo di escursionisti risale un ghiaione delle Dolomiti d’oltre Piave, oggi più note come Dolomiti Friulane. Il sentiero è ripido, fa caldo, nessuno arriva a Forcella Montanaia.
Un giovane alpinista di Vicenza si muove con passo diverso. Si chiama Severino Casara, ha 22 anni. La sua prima avventura, nel 1918, è stato un viaggio solitario in bicicletta per vedere l’ingresso delle truppe italiane a Trento. Ha iniziato ad arrampicare due anni dopo, con la prima italiana della Punta Frida in Lavaredo. Poi le ascensioni si sono moltiplicate.
Quel 3 settembre Casara sale la Cima Emilia, poi scende ai piedi del Campanile di Val Montanaia, una delle cime più bizzarre delle Alpi. Culmina a 2173 metri, è difeso su tutti i lati da strapiombi, è stato definito “l’urlo pietrificato di un dannato”.
A salirlo per primi, nel 1902, sono stati gli austriaci Viktor Wolf von Glanvell e Gunther von Saar, che hanno completato la via dei triestini Napoleone Cozzi e Alberto Zanutti. Un’esposta ma facile traversata ha consentito ai due austriaci di superare gli strapiombi.
Quattro anni dopo Tita Piaz, celebre guida della Val di Fassa, ha raggiunto la vetta con quattro clienti per la via dei primi salitori, ed è sceso verso nord con una corda doppia di 37 metri, in buona parte nel vuoto. Un exploit normale con le corde, i discensori e gli ancoraggi di oggi, ma che all’epoca sembra una follia
Severino Casara conosce la storia del Campanile, ma non sa dove passa la normale. Alle 14 è alla base delle rocce, e la nebbia rende difficile orientarsi. “Non avevo mai letto la relazione, ignorando anche il versante della via. Sapevo che in meno di due ore si poteva raggiungere la cima e che le difficoltà erano relative” scriverà.
L’alpinista di Vicenza attacca il Campanile da nord, sul versante opposto alla normale. Superato un avancorpo, è alla base degli strapiombi discesi in doppia da Piaz. Sopra di lui “la muraglia del mostro si erge strapiombando, rossigna e striata di nero”. Basta guardare da vicino la parete per capire che la normale (terzo grado, una fessura di quarto superiore) non può passare da qui.
Ma Casara prosegue. Sopra di lui vede dei chiodi piantati in una fessura che traversa verso destra, e uniti da uno spezzone di corda. A lasciarli sono stati i fratelli veneti Berto, Paolo e Luisa Fanton, e la guida austriaca Franz Schroffenegger con il cliente Otto Bleier.
Nel 1913, gli alpinisti hanno superato lo strapiombo iniziale con un numero da circo, una quadrupla piramide umana, e poi hanno traversato a destra verso lo “Spigolo a denti di sega”, interrotto da brevi strapiombi. Poco più in alto la parete si corica.
Casara si toglie gli scarponi, sale con le pedule e poi con le calze. Lancia la sua corda verso l’alto, la fa passare dentro allo spezzone. Sale al primo chiodo, traversa in qualche modo verso destra, poi passa la corda nell’anello di uno dei chiodi piantati dai Fanton e prosegue.
Vola per qualche metro ma insiste. Sfila la corda dal chiodo, si allunga fino a raggiungere con la mano una fessurina orizzontale, poi raggiunge lo Spigolo. Si riprende dallo shock, riparte, evita un tetto a sinistra, e raggiunge la vetta, dove scrive sul libro di aver compiuto la 67a salita del Campanile, la prima per gli Strapiombi Nord.
Bivacca in vetta, individua la normale e la percorre in discesa. Risale a Forcella Montanaia, poi tre alpinisti padovani lo rifocillano con tè, biscotti e marmellata. Al rifugio Padova scrive una dettagliata relazione. Resta per vari giorni nella villa di Antonio Berti, medico, alpinista e autore di guide. Delira più volte, gridando “mamma mia, cado, cado!”.
Berti crede al racconto di Casara, e nella guida Dolomiti Orientali, CAI e Touring Club pubblicano nel 1929, include la relazione della via degli Strapiombi Nord. C’è anche uno schizzo di Annibale Caffi, realizzato grazie a una foto scattata nel 1923 da Arnaldo Marchetti, nella quale si vedono i chiodi e la corda dei Fanton.
Il dubbio: Tissi e Andrich contestano la salita
La polemica scoppia nel 1930, quando gli alpinisti bellunesi Attilio Tissi, Giovanni Andrich, Attilio Zancristoforo e Francesco Zanetti cercano di ripetere la via Casara. Usano anche loro una piramide, piantano vari chiodi, ma poi Tissi non riesce a uscire verso destra.
I quattro accusano Casara di aver mentito, perché la fessurina orizzontale non esiste. Lui si difende spiegando che il disegno è sbagliato, e che la fessura è più in basso, all’altezza dei chiodi. Dino Buzzati difende l’accusato, Gino Soldà e altri alpinisti si schierano con Tissi. Il CAI, ed è la prima volta che accade, crea una commissione d’inchiesta presieduta da Berti, e composta da alcuni dei migliori alpinisti del tempo. Tita Piaz e Raffaele Carlesso tentano la traversata assicurati dall’alto ma non ce la fanno, Luigi Micheluzzi rinuncia prima di tentare.
Nel 1931 Celso Gilberti pianta altri due chiodi, tocca lo Spigolo a denti di sega, e poi scende perché ha iniziato a piovere. Qualche settimana dopo, due cordate di triestini (capicordata Giulio Benedetti e Giordano Bruno Fabjan) ripetono l’itinerario di Gilberti e continuano fino in cima. Casara è riabilitato, perché la sua ascensione – della quale continuano a non esserci prove! – è possibile.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale superano gli Strapiombi Piero Mazzorana, Attilio Tissi (che diffonde uno schizzo firmato) ed Hermann Buh, che schioda in parte il passaggio. Nel 1953 tocca a Spiro Dalla Porta Xydias, che poi pubblica un libro, Montanaia, in cui sostiene Casara.
Nel 1985, sessant’anni dopo l’ascensione contestata, Alessandro Gogna percorre la via in libera (rotpunkt). Trova tre metri di VII- all’inizio, mentre “la traversata è di VI continuo con un tratto a metà di VI+”. Ci sono 14 chiodi. Ripete l’exploit Mauro Corona, alpinista e poi scrittore famoso. “Casara non fece più nulla di così stupefacente. Ottimo arrampicatore e capocordata sul quinto grado, fu buon secondo a Emilio Comici sulle vie estreme. Lo spezzone Fanton era vecchio 12 anni e la canapa non resiste tanto alle intemperie da permettere tutte le evoluzioni e le sollecitazioni raccontate da Casara” commenta Gogna, che rimasto scettico. “La sua impresa”, prosegue, “se veramente compiuta, sarebbe in anticipo di quasi dieci anni sui tempi e renderebbe meno importanti perfino le imprese solitarie di Winkler, Piaz, Preuss e Dülfer”. A favore di Casara, ricorda che “la storia ci ha presentato altri esempi di lucida follia, e quando si sta per cadere con effetti mortali si estraggono le ultime forze della disperazione”.
Chi era Severino Casara
I cent’anni trascorsi dalla misteriosa salita sul Campanile sono una buona occasione per ricordare Severino Casara. Un alpinista appassionato (per qualcuno “esaltato”), che apre circa 150 vie nuove, forte ma non fortissimo (con Comici scala sempre da secondo), che diventa un divulgatore della montagna.
Nel dopoguerra smette di fare l’avvocato, e firma come regista 27 lavori, tra i quali Cavalieri della Montagna (1947) e Gioventù sul Brenta (1967). Tra i suoi libri spiccano Al sole delle Dolomiti (1947), L’arte di arrampicare di Emilio Comici (1957) e Preuss l’alpinista leggendario (1970).
Casara avrebbe voluto scrivere un altro libro, Processo a un alpinista, sulla sua salita al Campanile e sulle successive polemiche ma non ci riesce. Escono invece due libri postumi, La verità obliqua di Severino Casara (2008) e Sulle Dolomiti del Cadore (2013). Nel secondo, il curatore Italo Zandonella Callegher inserisce 27 cartelle dattiloscritte da Casara, che ha ricevuto da sua sorella Lelia. Sono parte di un libro inedito, che avrebbe dovuto intitolarsi Sulle Crode del Piave. Il libro del 2013 si legge piacevolmente. Ma la storia degli Strapiombi Nord del Campanile, e di quell’ascensione misteriosa, resta quella che già conoscevamo.