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La mia salita al Castore (3)

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..Il panorama è veramente eccezionale! Non ho mai visto tanta neve in vita mia! Ovunque giri lo sguardo vedi bianco immacolato nelle sfumature azzurrognole e verdastre che lo caratterizzano. Le cornici sono lavorate dal vento come merletti lavorati al tombolo dalle mani esperte delle nonne, le nuvole sotto di noi incorniciano le vette e costituiscono un mare burrascoso ma quasi completamente bianco, in continua e lenta evoluzione. Mi piange già il cuore a pensare che domani sarò nuovamente a Ponte San Giovanni, tra il caos, lo smog ed il rumore..

Scaccio via questi pensieri per godere pienamente delle emozioni che mi stanno pervadendo. Mi volto indietro un momento e vedo sotto di noi, sul versante est: sotto un tratto di cresta appena percorso c’è un alto seracco dal quale si è da poco staccata una mole enorme di ghiaccio (un pulmann come le chiama Raffaele), rovinata lungo il pendìo, disperdendosi in migliaia di blocchi di varie dimensioni, creando un contrasto, tono su tono, del bianco-azzurro del ghiaccio sul bianco-panna della neve.
 
Sul versante del Lyskamm, altri enormi seracchi incombono sulla valle sottostante, messi in risalto dai raggi del sole che scolpiscono le fenditure con giochi di luci ed ombre.

Raggiungiamo il Colle del Felik che si trova a circa 4000 metri di quota, dove ci fermiamo per consumare il pranzo: ancora panini con affettati e formaggi annaffiati da acqua di fusione con integratori salini e qualche pezzetto di cioccolata (grazie Tiziano).

Dopo la sosta, riprendiamo il cammino in discesa verso il Rifugio Quintino Sella, ma ormai le difficoltà tecniche sono veramente sparite in quanto si tratta di attraversare una estesa depressione ghiacciata, pressoché pianeggiante e solcata da alcuni sottili crepacci.
 
Giunti al rifugio, ci liberiamo dell’attrezzatura da alta montagna, riponendo negli zaini i ramponi, le piccozze, le corde e l’abbigliamento pesante: siamo ormai dentro una nuvola (metri 3585), una di quelle che poco prima vedevamo dall’alto, fa ancora abbastanza freddo, ma niente in confronto di quello della mattina.

Raffaele ci consiglia di attrezzarci con cordino e moschettoni all’imbraco, in quanto ora attraverseremo un breve tratto attrezzato con salti di roccia che, in caso di pioggia, possono diventare scivolosi e quindi pericolosi.
 
Ripartiamo dal rifugio seguendo gli “ometti di pietra” (ce n’è qualcuno lungo questo tratto di percorso che è più simile, come dimensioni, agli stupa himaliani, che agli ometti a cui siamo abituati): ci portano al tratto attrezzato con paletti metallici che sorreggono un “canapone” da utilizzare come corrimano ed in alcuni punti come aiuto all’equilibrio, ma non incontriamo alcun problema nel superare gli ostacoli che ci si presentano. Il tratto attrezzato è più lungo di quanto ci aspettassimo, ma sicuramente sarebbe stato apprezzato maggiormente in caso di visibilità migliore, trattandosi di un attraversamento in cresta sassosa ed esposta.
 
Terminato il tratto protetto dalle attrezzature, inizia la discesa con pendenza più accentuata, sempre tra salti di rocce brunastre, seguendo i soliti segnavia gialli e gli ometti di pietra. In alcuni punti non è facilmente individuabile la traccia, in quanto la zona dovrebbe essere soggetta a frequenti smottamenti che spostano e spaccano le pietre su cui sono stati dipinti i “bolli” del segnavia. Comunque procediamo regolarmente la nostra marcia e, mentre, tornando a quote più consone alle nostre abitudini, Cristina si riprende definitivamente dalla sua “crisi” prestazionale, Caterina comincia a sentire l’appesantimento dovuto all’accumulo di fatica non indifferente.
 
Però la tenacia è la nostra forza e non demordiamo: proseguiamo in questo mare di pietre, perdendo lentamente quota, temendo in alcuni momenti di dover affrontare anche la pioggia, ma anche il cielo resiste tenacemente e ci risparmia.

Finalmente arriviamo in prossimità della Cima Bettolina, che aggiriamo per raggiungere il Colle di Bettaforca (2727 metri) da dove, raggiunta la stazione a monte della funivia, iniziamo a scendere lungo il sentiero che segue più o meno parallelamente i piloni della stessa, fino ai due rifugi affiancati, il Ferraro e il Guide Frachey, posti a poco più di 2000 metri di altezza presso l’abitato di Resy.

Qui, finalmente, possiamo bere acqua di fonte (non di fusione), che ci permette di ripulire la bocca dal sapore dolciastro dei sali disciolti nelle nostre borracce per due giorni.

Da qui, perdiamo rapidamente quota lungo un sentiero stretto in mezzo al bosco caratterizzato da gradini più o meno alti che mettono a dura prova la residua resistenza delle piante dei piedi, delle ginocchia, e della muscolatura delle nostre gambe.

Dopo una discesa interminabile, raggiungiamo finalmente l’abitato di Saint Jacques, dove troviamo ad attenderci le nostre auto (da 4226 metri sul livello del mare a 1685 ovvero 2541 metri di dislivello in discesa!).

Ci rinfreschiamo all’acqua della fonte sotto la grotta della Madonnina che si trova sul parcheggio, ci cambiamo, e, saliti in auto, riprendiamo la strada di casa, che non è proprio dietro l’angolo!

A parte la discesa di Domenica che è sembrata a tutti interminabile per motivi oggettivi (2541 metri di dislivello sono tanti) e per motivi soggettivi (dopo aver visto uno spettacolo simile dalla cima e dalle creste del Castore, camminare in mezzo alla nebbia su pietre “infami” che ti spaccano i piedi e le ginocchia, non ti fa apprezzare molto lo scenario comunque suggestivo che ti circonda), l’esperienza maturata in questi due giorni tirati è stata, senza eufemismi, magnifica!

L’essere così vicini nelle difficoltà, l’aiutarsi vicendevolmente, il fatto di affrontare insieme le novità tecniche richieste dall’ambiente di alta montagna, l’essere fisicamente legato ai tuoi compagni facendoti sentire ancora più vicino a loro, i suggerimenti cordiali ma fermi di Raffaele che ti insegna e spiega le giuste manovre con tono rassicurante, la tenacia, la forza e la resistenza che tutti abbiamo tirato fuori in questi momenti, sono stati per me un motivo di orgoglio per aver fatto parte di questo gruppo sparuto di “avventurosi”.

Questo è un aspetto dell’andare in montagna che, chi è venuto al Gran Sasso con noi, ha già vissuto in prima persona, ma la maggiore difficoltà oggettiva dell’”impresa” ed il fatto di essere in numero così ridotto, ci ha fatto sentire più intensamente l’emozione che ci ha accomunato in questi due giorni.

Ed è questo che il Gruppo escursionistico della Turris vuole comunicare a coloro che partecipano alle sue iniziative: emozioni positive, trasmesse sì, dall’ambiente montano (appenninico, dolomitico o alpino che sia), ma soprattutto dagli stessi membri con i loro punti di forza, di debolezza, le loro incertezze, le loro sicurezze, le loro emozioni trasmesse agli altri, per “crescere” tutti ogni giorno di più.

Un ringraziamento doveroso, ovvio, ma sentitissimo a Raffaele per aver spinto l’iniziativa ed averla portata a termine con professionalità ed umanità uniche, a suo figlio Lorenzo, per queste doti sulle orme del padre, a Caterina per le emozioni che sa trasmettere, a Cristina che ha grinta da vendere e non finirà mai di stupire per forza fisica ed emotiva, a Tiziano Bieller per l’appoggio logistico, l’amicizia disinteressata dimostrataci, ed infine per coloro come Claudio e Lucio e gli altri che, rimasti a casa, sono stati in apprensione e hanno cercato di contattarci telefonicamente per avere notizie rassicuranti.

Affrontare la montagna non è un gioco: sia essa la verde collina umbra o il ghiacciaio alpino, l’importante è rispettare i ritmi dettati dalla natura, saper interpretare correttamente i segnali che la natura stessa ci invia per metterci in guardia ed agire di conseguenza nel modo migliore possibile e questo atteggiamento non lo dona nessun pezzo di carta o distintivo, ma l’esperienza ed il cuore. La prima viene con l’età e la passione, il secondo non lo si inventa!

Sono tornato a Ponte San Giovanni da un giorno e la mia testa è ancora lassù, i miei occhi mi fanno ancora male per l’intensità della luce e lo spettacolo impressi sulla retina, il cuore ancora gonfio delle emozioni, quasi mi fa male: il mal di montagna non è quello che viene descritto nei manuali medici, è quello che si prova tornando a casa!
 

 
Peppe

 

La mia salita al Castore (2)

La mia salita al Castore (1)

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