A tu per tu con Dario Eynard: “il mio Cerro Piergiorgio”
Il giovane alpinista del CAI Eagle Team racconta la sua esperienza sulla mitica parete della Patagonia con Matteo Della Bordella e Mirco Grasso
“Quella che Maspes e Giordani hanno individuato e in buona parte salito 30 anni fa è sicuramente una via visionaria. Un vero capolavoro di intuito e difficoltà su una parete che praticamente non offre linee di salita evidenti”.
Il commento di Dario Eynard, membro del CAI Eagle Team, che nei giorni scorsi ha completato assieme a Matteo Della Bordella e Mirco Grasso la via “Gringos Locos” sulla parete nordovest del Cerro Piergiorgio, lascia trasparire tutto il suo entusiasmo per questa splendida salita e l’ammirazione per i due scalatori che nel 1995 ne salirono i primi 21 tiri, fermandosi a poche lunghezze dalla fine della parete a causa del maltempo.
Negli articoli già pubblicati nei giorni scorsi su Montagna.tv abbiamo avuto modo di raccontare ampiamente la storia di questa via e di soffermarci sui dettagli dell’ascensione da parte di Della Bordella, Grasso ed Eynard. Abbiamo quindi voluto approfondire con quest’ultimo le emozioni e le impressioni più personali sulla recente avventura, vissuta con lo sguardo di un giovane scalatore alla sua prima esperienza di spedizione extraeuropea.
Dario, questo viaggio in Patagonia come ha arricchito il tuo bagaglio alpinistico?
“Sicuramente confrontarmi con quelle montagne mi ha consentito di acquisire una prospettiva molto diversa da quella alpina a cui sono abituato. Non dico che ho dovuto imparare tutto da zero, ma comunque ho dovuto resettare i miei parametri per adeguarli a un territorio caratterizzato da distanze molto più lunghe di quelle alpine negli avvicinamenti, da pareti spesso di dimensioni molto più grandi e da dinamiche meteorologiche assolutamente imprevedibili. Poi c’è il vento, che lì si manifesta con una forza che da noi fatichiamo a immaginare. Insomma, è un contesto molto differente, che bisogna imparare a interpretare e al quale bisogna adattarsi”.
A proposito di grandi distanze e grandi pareti: come è stato il tuo primo approccio con il Cerro Piergiorgio?
“La nordovest del Piergiorgio si raggiunge percorrendo la valle del Rio Elettrico e l’approccio è davvero lungo: più di 20 chilometri che, fra l’altro, nella prima finestra di bel tempo abbiamo percorso portandoci in spalla tutto il materiale per installare il nostro campo base sotto la parete, compresi 450 metri di corde da fissare. Viste le condizioni meteorologiche della stagione e il tempo richiesto dalla salita di una via come quella a cui puntavamo, infatti, avevamo rinunciato da subito all’idea di un approccio in stile alpino, decidendo di arrivare il più in alto possibile nella prima finestra di bel tempo e installare le fisse, per poi poter risalire velocemente quando si fosse aperta una nuova finestra. La parete del Piergiorgio si svela un poco alla volta addentrandosi nella valle. All’inizio resta un po’ coperta da una quinta rocciosa e quindi si vede solo la parte sommitale, poi la si ammira in tutta la sua interezza. Matteo e Mirco già la conoscevano, ma per me, che la vedevo per la prima volta, l’impressione è stata fortissima: mi pareva quasi impossibile che potesse esistere una parete così enorme e compatta!”.
Lo stesso giorno in cui siete arrivati sotto la parete avete cominciato la scalata, che offre subito un tiro molto difficile: una bella terapia d’urto…
“Certo, Gringos Locos fa capire il suo carattere fin dalla prima lunghezza, che presenta un tratto impegnativo e abbastanza expo. Mirco lo aveva già affrontato in un tentativo di diversi anni prima, che si era concluso con un volo fino a terra, dove si era piantato nella neve alta, per fortuna senza gravi conseguenze! Visto che lui aveva già dato, ce lo siamo giocati a sorte io e Matteo. Alla fine ha vinto lui, e l’impegno che ci ha dovuto mettere ci ha fatto subito capire cosa ci aspettasse…”.
Come ti sei trovato in cordata con due alpinisti dell’esperienza di Mirco e Matteo?
“Sono entrambi scalatori di lungo corso, che già conoscono bene le montagne patagoniche, Matteo, in particolare, è sicuramente uno dei maggiori esperti nel panorama internazionale, visto che le frequenta ininterrottamente da quindici anni. Il loro contributo è stato fondamentale, prima di tutto dal punto di vista logistico. Per affrontare un’ascensione come quella del Piergiorgio bisogna avere le idee chiare su qual è il tipo di approccio da utilizzare. La loro esperienza da questo punto di vista è stata sicuramente una chiave di volta per il raggiungimento del risultato e una grande lezione per me. In parete poi abbiamo subito trovato un grande affiatamento come cordata, cosa che non si può mai dare per scontata. Abbiamo lavorato come una vera squadra e ci siamo divisi equamente l’impegno. Ciascuno di noi ha salito nove tiri da primo di cordata, impegnandosi sempre al massimo. Tenete conto che, su quella via, praticamente non ci sono tiri facili: sei quasi sempre impegnato al massimo, affrontando in ogni lunghezza passaggi di alto livello sia in libera che in artificiale, spesso passando dalle staffe appese ai cliff a tratti di scalata che arrivano fino al 7a/b”.
Oltre alla difficoltà tecnica, una caratteristica di Gringos Locos sembra essere la precarietà delle protezioni che si possono piazzare sui tiri. Come vi siete trovati da questo punto di vista?
“Come ho già detto quella individuata e in gran parte salita da Giordani e Maspes nel ‘95 è sicuramente una linea visionaria. Guardando la parete non c’è un sistema logico di fessure per salire. Non solo osservandola nel suo complesso dalla base, ma anche quando sei in parete, la linea da seguire non è mai evidente, ma si svela un poco alla volta. Ti trovi alla base del tiro, guardi verso l’alto e dici: qui è impossibile salire! Poi, in realtà, man mano che sali, si riescono sempre a individuare metro dopo metro, le tacche che ti fanno pian piano progredire, ma la possibilità di mettere protezioni a prova di bomba su un terreno del genere è sempre molto limitata. Il Fitz Roy o il Torre sono montagne elegantissime, con diverse linee evidenti dove negli anni sono state aperte numerose vie. È impressionante invece come sul Piergiorgio, una parete di 1000 metri, nel mezzo di un contesto importante per l’alpinismo internazionale come quello patagonico, le linee aperte si contino sulle dita di una mano… Salire su una parete del genere richiede anche un grande impegno psicologico. È stato davvero un onore e una soddisfazione per noi completare una via così bella e impegnativa e siamo stati molto contenti di essere riusciti a farlo senza aggiungere protezioni fisse lungo i tiri, nonostante avessimo il permesso dei primi salitori, cui avevamo chiesto se potevamo aggiungere uno spit sul famoso tiro dove bisogna affrontare un difficile run out con la sola protezione di un RURP molto distante… Alla fine anche le nuove tipologie di protezioni veloci che oggi abbiamo a disposizione ci hanno consentito di gestire la pericolosità delle diverse lunghezze, mantenendola entro livelli per noi accettabili”.
A proposito di armonia ed equa suddivisione dei compiti nella cordata: alla fine tu sei stato eletto come lo specialista del freddo e della notte…
“Sì, è una cosa che ci siamo detti un po’ per scherzo, ma alla fine è stato proprio così. In particolare nell’ultimo giorno di scalata, quando abbiamo raggiunto le cenge dove la via si congiunge con “La Ruta de lo Hermano”, abbiamo preso la decisione di proseguire ad oltranza, scalando di notte per poter uscire dalla parete prima dell’arrivo della perturbazione ormai imminente. Quegli ultimi tiri saliti a notte fonda sono toccati proprio a me, ed è stato un bel circo! Non sono lunghezze tecnicamente difficili come quelle precedenti, ma è un terreno che alterna placche anche impegnative e fessure. Quindi ho dovuto procedere con le scarpette ai piedi e la piccozza in mano, per cercare di tirarmi su in qualche modo lungo le fessure sempre intasate di ghiaccio…”.
Come è stato il momento dell’arrivo in vetta?
“Sono uscito dall’ultimo tiro che erano più o meno le 2.30 del mattino. Poi attorno alle 3 mi hanno raggiunto anche Matteo e Mirco. È stata una vetta strana: uno fa una parete di mille metri e si immagina la soddisfazione di arrivare in cima, con tutto il panorama che si apre intorno… Invece eravamo lì nel buio più totale, senza neppure uno spicchio di luna, facevamo fatica persino a vederci fra di noi. Dopo tre minuti stavamo già facendo le doppie per scendere, neppure il tempo di accorgerci di essere arrivati! All’inizio questa cosa mi aveva lasciato un po’ di amaro in bocca, ma col passare dei giorni, la soddisfazione e il ricordo dell’esperienza vissuta hanno preso il sopravvento. Sembra un po’ banale dirlo, ma davvero mi sono reso conto di quanto il percorso fatto per arrivare sia importante quanto e forse più della meta raggiunta… Alle 5 del mattino eravamo di nuovo alle cenge dove abbiamo riposato per un paio di ore e poi abbiamo ripreso la discesa, rimuovendo tutte le corde fisse nella prima parte della parete. Come annunciato dalle previsioni meteo, la perturbazione è puntualmente arrivata, con vento e nevischio fin dalla mattina. La nostra scelta di proseguire ad arrampicare di notte in una maratona ininterrotta di ben 23 ore era stata corretta: probabilmente se avessimo fatto un altro bivacco non saremmo riusciti a completare la salita”.
Uno degli obiettivi dell’Eagle Team era anche quello di “fare gruppo” rafforzando i legami fra scalatori provenienti da esperienze e aree diverse. Sotto questo aspetto cosa ha rappresentato questo mese vissuto assieme in Patagonia?
“Penso che l’obiettivo principale dell’Eagle Team fosse proprio quello di formare dei legami tra giovani alpinisti, anche a prescindere dalla spedizione in Patagonia, che è stata solo uno dei momenti per arrivare a questo risultato, auspicando che questi legami di amicizia portino nei prossimi anni a vivere insieme nuove esperienze. L’avventura in Patagonia, però, ci ha consentito di vivere a stretto contatto per un mese intero, conoscendoci meglio anche a livello umano. Spero di avere l’opportunità in futuro di vivere altre esperienze in montagna con gli altri ragazzi dell’Eagle Team e con i tutor, perché mi sono trovato molto bene con loro, siamo diventati davvero un team ed è stata un’esperienza estremamente importante e positiva”.