Qual è il femminile di Ragno? In montagna la parità di genere è ancora lontanissima
Cinque donne, fortissime, ammesse nei Ragni di Lecco. Ma la discriminazione e l’insidioso paternalismo dominano ancora nelle Terre alte. Lo dicono numeri e scelte
Il Gruppo Ragni della Grignetta, che tutti noi chiamiamo più affettuosamente Ragni di Lecco, cambia al femminile. Ne abbiamo già parlato e se ri/leggiamo il pezzo non possiamo che rimanere senza fiato davanti al curriculum delle cinque donne, sui sette nuovi membri ammessi in uno dei più esclusivi club alpinistici. Stupisce anche l’età, tre di loro hanno vent’anni o poco meno, e già una carriera alle spalle. Ma prima di rallegrarci, diamo un’occhiata più in profondità ai numeri. Fino a quest’ultima “infornata”, nei Ragni la rappresentanza femminile era poco sotto il 2 per cento. Oggi è salita al poco più dell’8 per cento. Le donne CEO, in Italia, sono il 4 per cento, le CFO (direttore finanziario), il 6 per cento. Nelle istituzioni italiane, tra Parlamento e governo, le donne sono il 33,6 per cento. La popolazione generale della nostra Penisola registra il 51,2 per cento di donne.
Tornando all’alpinismo, nel 2022 il CAI aveva il 38 per cento di tesserati donne, ma solo il 19 per cento di loro attualmente sono presidenti di Sezione o ricoprono il ruolo di Accompagnatore/Istruttore. Per non parlare del CAAI, che fino al 1978 manco ammetteva donne all’interno del sodalizio: quando si aprì, prime socie Adriana Valdo e Silvia Metzeltin, il presidente Renato Chabod era ancora contrario, Massimo Mila favorevole. Insomma, il gap di genere rimane un enorme problema e se n’è accorto anche il CAI che nel 2023 ha costituito una Commissione sull’uguaglianza di genere: la sua composizione è tutta femminile, un segno della triste tradizione per la quale solo le donne parlano di cose di donne. Una commissione così è rassicurante come il club dell’uncinetto.
Come sono le donne alpiniste? Invisibili. È questo anche il titolo, Alpiniste invisibili, che Linda Cottino ha dato ai suoi due saggi sull’alpinismo femminile, pubblicati nell’Annuario CAAI, il primo nell’edizione 2021, il secondo nel 2024. Di Linda ho sempre invidiato la lucidità del pensiero, per cui lascio a lei la parola, riportando un brano del saggio più recente: “La storia dell’alpinismo andrebbe riscritta, e rivista la cronologia, inserendo le donne là dove ha senso che compaiano; così il quadro sarebbe esauriente e ragionato. Soprattutto ragionato, perché se gli uomini da sempre vanno in montagna punto e basta, le donne devono (tuttora) attraversare territori complessi e accidentati prima di giungere alle pareti – se vogliamo stare nella metafora. E benché a un primo sguardo tutto oggi sembri semplice e scontato, la cultura patriarcale non molla la presa, anche se imbellettata di politically correct”.
Un esempio plastico di questa imbellettatura è stata la spedizione “femminile” al K2 promossa quest’anno proprio dal CAI, criticata per mille motivi ma soprattutto per il paternalismo con il quale è stata fin dall’inizio organizzata. O, visto che era una spedizione internazionale, patronized. Un termine che in inglese esprime benissimo l’ambiguità dei rapporti: patronize si traduce in “patrocinare”, “proteggere”, “condiscendere”, ed è quello che i bravi maschi continuano a fare verso le donne che si fanno valere. Le proteggono, magnanimamente.
Invito a leggere i due saggi della Cottino, dove rivivono tantissime donne che non hanno alcun bisogno di protezione: Alice Damesme e Miriam O’Brien, prima cordata femminile sul Grépon nel 1929; Paula Wiesinger e Mary Varale, mai messe in ombra dai loro compagni di cordata maschi (nomi giganteschi come Hans Steger e Emilio Comici); Loulou Boulaz, femminista, politica e alpinista a tutto tondo; Claude Kogan, caduta al Cho Oyu, che lo stesso Messner definì “la più famosa alpinista del dopoguerra” (ma oggi chi la ricorda?); e ancora Ivette Vaucher, Helma Schmicke, Gwen Moffat, Bianca Di Beaco, Junko Tabei, Wanda Rutkievicz, Arlene Blum, fino a Lynn Hill che con la sua prima libera del Nose al Capitan (1990) stabilisce un nuovo parametro, non dell’arrampicata femminile ma dell’arrampicata tout court.
L’esempio di Lynn Hill, che è stato seguito dalle moltissime sue epigoni, ultime le nuove Ragne (si può dire?) di Lecco, è illuminante: obiettivo delle donne alpiniste è di superare la discriminazione, il paternalismo, il patronizing che riecheggiano nell’aggettivo “femminile”. La “specie protetta” esce ormai dal recinto, non si distingue più dal resto della mandria. Perché fin dal nuovo millennio, per dirla ancora con Cottino, “il gap tra prestazioni maschili e femminili inizia ad assottigliarsi fino quasi a scomparire del tutto”.
Anche le lucertole, come i ragni, si arrampicano bene; se il gruppo di Lecco si chiamasse le lucertole di Lecco? Non ci sarebbe più discriminazione? O discriminazione al contrario? O forse volere ridurre la questione (vera) della discriminazione uomo donna a una questione linguistica è una stupidaggine? Montagna è femminile. Monte è maschile. Ma diciamo: “vado in montagna”. Se lasciassimo queste sciocchezze linguistiche ai poveri di ingegno e si parlasse di cose serie? (e non solo in montagna)
Non ho capito il senso dell’articolo né, tanto meno, il suggerimento sul riscrivere la storia dell’alpinismo. Non discuto sul gap di genere, ma l’alpinismo e la sua evoluzione si sono concretizzati attraverso imprese che hanno via via spostato il limite delle capacità umane verso sempre nuove e maggiormente ardite realizzazioni. Molte sono state realizzate dagli uomini (sicuramente anche per il fatto che la società era maggiormente favorevole a sostenere la loro realizzazione personale piuttosto che quella femminile), ma altre sono state realizzate da donne e, più significativa fra tutte, la libera del Nose che è riuscita per prima in assoluto a Lynn Hill vincendo là dove molti uomini avevano fallito. Questa è storia dell’alpinismo ed è una sola e come tale resterà scritta, perchè, in questo contesto, sono soprattutto i fatti che contano. Dove le donne sono state in parte o in tutto protagoniste hanno sempre avuto la loro parte di merito (penso a Mary Varale sullo spigolo giallo o Lulù Boulaz sulla nord delle Grandes Jorasses). Sicuramente l’evoluzione di questa nobile arte vedrà portare molti nomi maschili nelle tappe più significative che l’hanno contraddistinta, ma anche qualche nome femminile come l’esempio sopra citato. L’auspicio è che una società più favorevole alla realizzazione femminile come quella che, con fatica, si sta cercando di realizzare in questi tempi moderni, vedrà il genere femminile sempre più protagonista nel futuro di questa disciplina. Di sicuro la strada, a mio modesto avviso, non è quella di fare spedizioni pseudo nazionali riservate a sole donne (come se fossero una categoria protetta), ma quella che siano le stesse ad autodeterminarsi negli obiettivi e nel perseguimento degli stessi. Messner le sue spedizioni se le autofinanziava al fine di mettere in pratica le sue idee che, sicuramente, non avrebbe conseguito partecipando a pesanti spedizioni nazionali.