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K2 1954, i giorni di Walter Bonatti

Il giovane (24 anni) e fortissimo alpinista lombardo lavora in silenzio sullo Sperone Abruzzi, sogna di tentare la vetta, bivacca a 8100 metri il 30 luglio per portare l’ossigeno a Compagnoni e Lacedelli. Senza il sacrificio di Bonatti e del portatore Mahdi, il K2 non sarebbe diventato “italiano”

La mattina del 28 luglio 1954, ai 7340 metri del Campo VII del K2, un alpinista della spedizione italiana teme di essere arrivato al capolinea. Walter Bonatti non sta bene, e non riesce a lasciare la tenda, vede partire sul “pendio che il sole ha reso incandescente” Erich Abram, Achille Compagnoni, Pino Gallotti, Lino Lacedelli e Ubaldo Rey.  

Dalla tenda, l’alpinista lombardo è testimone della sofferenza degli amici. “Lentamente i cinque compagni continuano a salire passo su passo. Lo sforzo a cui sono sottoposti è visibilmente estenuantescriverà in “Le mie montagne”. Rey è il primo a cedere, e torna al Campo VII dopo aver lasciato il suo carico sulla neve.

Ma Walter Bonatti, dentro di sé, ha enormi riserve di energia. Lo dimostrerà negli anni successivi sugli strapiombi del Pilastro Sud-ovest del Dru, nell’invernale dello Sperone Walker delle Jorasses, nella lotta per salvare sé stesso e i suoi compagni dopo essere stato respinto dalla bufera sul Pilone Centrale del Monte Bianco. 

All’alba del 29 luglio, dopo un giorno di riposo, Walter sta meglio e si rimette a disposizione del gruppo. Intanto sono accadute due cose importanti. Le previsioni che arrivano via radio da Karachi hanno detto che nei prossimi giorni il tempo sarà bello, come gli alpinisti hanno capito grazie al gelido vento che soffia dalle steppe della Cina.

Dopo la buona notizia sul meteo, è stata scelta la cordata che tenterà la cima. Ardito Desio ha incaricato Compagnoni di dirigere l’attacco. Rey, che ha tracciato la via insieme a lui sul camino Bill e sulla Piramide Nera ha ceduto, e Achille sceglie Lino Lacedelli, lo Scoiattolo di Cortina. 

Walter sperava di essere lui il prescelto, ma si mette a disposizione della squadra. Ventiquattr’ore più tardi, la sua classe e la sua disponibilità al sacrificio – insieme a quella del portatore Amir Mahdi – permetteranno la conquista della seconda montagna della Terra da parte della spedizione italiana. 

Walter Bonatti, che compie 24 anni ai piedi del K2, è il più giovane componente del team diretto da Desio. Il suo nome non compare nel verbale della prima riunione della Commissione del CAI il 21 novembre 1953, ma viene aggiunto il 15 dicembre. 

La candidatura di Walter resiste ai test attitudinali e medici che portano all’esclusione di Riccardo Cassin e Cesare Maestri, e ai due campi del Plateau Rosà e del Monte Rosa, dove il gelo dell’inverno alpino simula le condizioni che gli uomini incontreranno in Karakorum. 

Tra il 1953 e il 1954 Walter Bonatti non è ancora la star dell’alpinismo che diventerà negli anni successivi, ma è un giovane più che promettente. A 19 anni, nel 1949, ha ripetuto lo Sperone Walker delle Jorasses, poi ha salito vie importanti nelle Alpi centrali e sulle Dolomiti. Nel 1951, con Luciano Ghigo, ha salito al terzo tentativo la monolitica parete Est del Grand Capucin, nel massiccio del Bianco. 

Anche Walter, come gli altri alpinisti, sale per la prima volta su un aereo per viaggiare verso il Pakistan e il K2. Anche lui, tra Skardu, il ghiacciaio Baltoro e il campo-base, scopre la disciplina ferrea imposta dal professor Desio, che dirige la spedizione a colpi di ordini di servizio scritti. Anche Walter, come i compagni, è annichilito dalla morte di Mario Puchoz, il 21 giugno, a causa del mal di montagna. Ma poi si rimette al lavoro. 

“Il tempo è sempre stato orribile, abbiamo così poco tempo davanti, e se non concludiamo in 20 giorni addio K2!” scrive al padre il 6 luglio. Poi, nel timore di essere punito da Desio, aggiunge “vi torno a pregare, e sottolineo che le mie notizie non vadano in giro assolutamente”.

La mattina del 29 luglio Walter Bonatti sta meglio. Mentre Compagnoni e Lacedelli salgono a piazzare il Campo 8, gli altri devono seguirli con viveri, materiale e le bombole di ossigeno. Un gruppo di Hunza arriva dal basso con altri rifornimenti. 

Ma la stanchezza fa del 29 una giornata complicata. Rey e Abram non ce la fanno a partire, Gallotti non riesce a portare uno dei basti con le bombole, che pesano 18 chili ognuno. Walter e Pino portano dell’altro materiale, e quando arrivano da Achille e da Lino promettono che torneranno su con l’ossigeno il giorno dopo. Sanno che sarà durissima, e per questo Bonatti e Gallotti chiedono alla cordata di punta di piazzare il Campo 9 più in basso del previsto. 

Il 30 luglio, Bonatti e Gallotti scendono fino ai basti abbandonati, e qui trovano Erich Abram, che si è ripreso, e gli Hunza Isakhan e Mahdi. Risalire al Campo 8 è bestiale, Gallotti ha “il volto gonfio e sfigurato dallo sforzo”. Non è finita, però. 

La sera del 30 Lacedelli e Compagnoni sono al Campo 9, e le bombole devono arrivare lassù il giorno stesso. Gallotti, Abram e Isakhan sono a pezzi, Mahdi sta bene. Per convincerlo a ripartire, Bonatti e gli altri gli offrono una sostanziosa paga extra, e forse gli fanno capire che potrebbe arrivare anche lui sulla cima.

Bonatti, Abram e Mahdi ripartono alle 15.30, quando restano quattro ore di luce. E’ un percorso non facile, tagliato da un muro di ghiaccio e da insidiosi crepacci. L’altoatesino, l’asso lombardo e l’Hunza si alternano nel portare i due basti con l’ossigeno e uno zaino più leggero.

Dove il pendio diventa più ripido, Walter vede la traccia sulla neve ma non la tenda. Chiama a lungo, e dall’alto gli arrivano le voci dei compagni. Poi il sole tramonta e la temperatura scende a picco. Abram non sente più un piede e alle 18.30 rinuncia.  

Il buio coglie Walter e Mahdi dove il dosso di neve si restringe e diventa più ripido. Il pakistano urla e agita furiosamente la piccozza. Ma ormai è troppo tardi per scendere, e occorre prepararsi a un bivacco a 8100 metri, senza sacchi a pelo né tende. Bonatti scava con la piccozza un gradino, poi la voce di Lacedelli che arriva dall’alto spinge Mahdi ad affrontare delle pericolose rocce ghiacciate. 

La sofferenza di quel bivacco entra nella storia. Mahdi tenta per due volte per scendere, ma Walter lo blocca. Tre bufere di neve coprono i due uomini e il gradino. Prima dell’alba torna il sereno, ma il gelo è spaventoso. “Non sento più i piedi né le mani, le gambe non mi reggono, il resto del corpo è scosso da un tremore continuo”, scriverà Bonatti.

Prima dell’arrivo del sole Mahdi scende da solo, slegato. Barcolla, si ferma e riparte, esce dal tratto ripido. Walter lo segue, badando a non cadere nei crepacci. Quando arriva al Campo 8 gli altri gli danno da bere e gli massaggiano i piedi martoriati. 

La sera del 31 luglio, dopo una giornata di attesa, Bonatti, Abram, Gallotti e i due Hunza accolgono Compagnoni e Lacedelli che hanno raggiunto la vetta, riportando dei seri congelamenti alle mani. La discesa verso il Campo base, che dura 48 ore per gli alpinisti italiani e 72 per gli Hunza, è un’odissea spaventosa. 

Il 4 agosto, tutti i giornali della Penisola hanno titoli a nove colonne sul K2. “Da parecchi anni gli Italiani non avevano avuto una notizia così bella” scrive Dino Buzzati sul “Corriere della Sera”. Un mese dopo, 40.000 persone accolgono la nave degli alpinisti a Genova. L’Italia, per anni, è in preda alla “febbre del K2”. 

Bonatti, nei primi mesi, tenta di curare in silenzio le ferite fisiche e morali provocate dal bivacco a 8100 metri. Poi, quando scopre che il suo sacrificio non viene quasi citato nel libro ufficiale della spedizione e nel film “Italia K2” si arrabbia, protesta, inizia una battaglia contro Desio, Compagnoni, Lacedelli e il CAI destinata a durare per decenni. 

Ne riparleremo più avanti. Intanto, è fondamentale ricordare che senza il sacrificio di Bonatti e di Mahdi, e quindi senza le bombole di ossigeno, la spedizione italiana del 1954 non avrebbe salito il K2.

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