Storia dell'alpinismo

L’ultima intervista ad Achille Compagnoni: dal K2 non volevo più scendere

Achille_CompagnoniSANTA CATERINA VALFURVA, Sondrio — Il 13 maggio del 2009, ormai 5 anni fa, moriva Achille Compagnoni, uno dei “grandi vecchi” dell’alpinismo mondiale. Sono passati sessant’anni da quando, insieme a Lino Lacedelli, saliva sulla cima del K2 compiendo una di quelle salite che nel mondo di allora avevano un valore alpinistico, sportivo ma anche patriottico. Fu un’impresa salutata dal mondo intero con grande ammirazione.  Achille Compagnoni, nonostante tutto, restò un uomo semplice e per certi versi restio. Non amava comparire su rotocalchi e rilasciare interviste. Vi proponiamo qui di seguito probabilmente una delle ultime interviste che concesse. In occasione dei 50 anni dalla prima salita al K2, Gian Pietro Verza, per conto di Montagna.tv  andò a trovare Achille Compagnoni in Valfurva. Pur vivendo a Cervinia, Compagnoni amava tornare nella sua Valfurva e passare alcuni giorni all’anno nella sua malga, verso l’alpe Ables, sopra Santa Caterina.

Che ricordo le rimane di quell’avventura a quasi 50 anni di distanza?
E stata una spedizione meravigliosa: siamo partiti dall’Italia con il sogno della conquista ed un entusiasmo incontenibile. E’ difficile spiegare quello che provavamo allora. Sapevamo che non era una cosa semplice, che avremmo dovuto stare lontani da casa per più di sei mesi e correre anche dei rischi, ma la voglia di partecipare a quell’avventura era troppo grande. Anche laggiù le cose non sono state comunque facili, basti pensare che su 70 giorni di permanenza al campo base ne abbiamo avuti 40 di tempo brutto ed era davvero difficile non lasciarsi andare allo sconforto. Eppure abbiamo sempre continuato a credere che ce l’avremmo fatta e siamo sempre andati d’accordo. Eravamo ben affiatati e ognuno cercava di collaborare in base alle proprie forze e alle proprie capacità.

Per gli italiani la conquista del K2 fu una questione di orgoglio nazionale, legata a forti sentimenti di  patriottismo e alla voglia di dimostrare al mondo quanto il nostro popolo era capace di fare. Quanto erano importanti  queste cose per voi, mentre eravate alle prese con la montagna
Certo che anche noi sentivamo la spinta del patriottismo! E’ stato così fin dai primi momenti dell’organizzazione: non era una spedizione come le altre, era una cosa che andava ben al di là dell’alpinismo! Anche quando abbiamo raggiunto la cima sentivamo che l’importante non era che lassù ci fossimo noi, io e Lacedelli, ma che ci fosse l’Italia, la bandiera italiana! Sapevamo di essere lì a fare qualche cosa di importante per tutti gli italiani, e questo ci univa e ci spingeva a dare il massimo che potevamo. Mi ricordo di quando scendendo al campo 1 incontrai Mario Puchoz, che già stava male. Era sdraiato nel sacco a pelo e praticamente non riusciva più ad alzarsi, ma continuava a ripetere che aveva già lo zaino pronto e l’indomani voleva salire. Io gli dissi che doveva piuttosto pensare ad andar giù, ma lui rispose “Achille, se scendiamo adesso la becca non la facciamo più!”. Insomma, era in fin di vita, eppure tutte le sue energie erano concentrate sulla montagna.

Lacedelli e Compagnoni in vetta al K2
Lacedelli e Compagnoni in vetta al K2

Che importanza ha avuto nella sua vita il fatto di essere diventato “l’eroe del K2”?
Per me il K2 è stata una cosa grandiosa, che ha soddisfatto tutti i miei desideri, tanto è vero che io in vetta ci volevo rimanere! Quando ho visto le mie mani congelate ho pensato: “Ma cosa ci torno a fare a casa conciato così? Con due figli da mantenere?”. Ho anche pregato: “Dio fa che i miei bambini non mi odino perché li ho lasciati, ma io resto qua!”. Poi ho ritrovato la volontà di vivere e ho cominciato la discesa. Anche i congelamenti secondo me sono una cosa che fa capire quanto era forte la motivazione che ci spingeva. Infatti c’è stato anche chi mi ha detto “potevi tornare indietro prima che le mani si congelassero e potevi evitare di toglierti i guanti per fare le fotografie in vetta!”. Queste sono parole che mi hanno fatto male, perché chi dice così non ha capito proprio niente di quello che noi sentivamo su quella montagna!

Quale è stato il momento più difficile della  spedizione?
La cosa più difficile che abbiamo dovuto affrontare è stato il maltempo, che praticamente non ci ha dato tregua. Eppure io non mi sono mai sentito demoralizzato, non ho mai pensato che non ce l’avremmo fatta! Mi ricordo di quando io e Ubaldo Rey eravamo al quinto campo, in mezzo alla bufera. Ad un certo punto ci chiama via radio il professor Desio e dice di tornar giù perché anche i compagni ai campi più bassi volevano scendere. Io rifiutai: “Se usciamo adesso dalla tenda il vento la porta via – dissi – e la cima ce la scordiamo!”. Lo sapevamo tutti che se abbandonavamo allora non saremmo più saliti. Desio non volle impormi di abbandonare e anche gli altri, quando sentirono la mia decisione, dissero: “Se non scende Compagnoni non scendiamo neppure noi!”.

 A proposito di Desio: qual era il rapporto fra lui e la squadra alpinistica e come vivevate voi scalatori il fatto di essere guidati, in una delle più difficili imprese alpinistiche della storia, da un professore universitario?
Io ho sempre avuto fiducia in lui, perché capii che sapeva bene dove andavamo. Lui era già stato lì, era l’unico che conosceva bene quel paese e quella gente. Forse i miei compagni non erano così convinti, ma questo più che altro prima di partire. Qualcuno probabilmente pensava:”Beh, Desio va bene fino a che arriviamo sotto alla montagna, poi ci arrangiamo noi alpinisti!”. Alla prova dei fatti però si rivelò un vero capo spedizione, senza il quale non so come sarebbe andata a finire…”.

 Perché il K2 è una montagna ancora tanto temuta dagli alpinisti?
Il k2 non è una montagna facile, anche Messner che è stato il primo a salire i 14 Ottomila dice che il K2 è il più difficile di tutti. E’ una montagna che ti mette alla prova sia con le difficoltà alpinistiche che con quelle
meteorologiche: mi ricordo di un colpo di vento che mi prese e sollevò di netto. Mi fece un’impressione tale che ancora oggi ogni tanto me lo sogno!

Gli italiani si preparano a tornare al K2, per celebrare la vostra impresa. Quale sarebbe a suo parere il modo più bello per ricordare la vostra vittoria?
Arrivare in cima naturalmente! Auguro con tutto il cuore ai ragazzi che torneranno sulla montagna di avere successo, e di provare l’emozione che ho provato anche io! Ho saputo che la spedizione si occuperà anche di aiutare l’ospedale di Askole, anche questo è un bel modo per celebrare i 50 anni della conquista ed è una cosa importante, perché può salvare delle vite umane…Poi io ho un ricordo stupendo di quel villaggio! Askole è un oasi, l’ultimo posto dove puoi trovare alberi ed erba prima di addentrarti sul ghiacciaio del Baltoro. Quando ci arrivammo c’erano tutti gli albicocchi in fiore ed era bellissimo… Al ritorno dal K2 i frutti erano ormai maturi e noi avevamo fame! Ne chiedemmo un po’ agli abitanti del villaggio e loro ce ne diedero volentieri, raccomandandoci però di restituire i noccioli… Noi quando mangiamo un frutto buttiamo via il nocciolo senza nemmeno pensarci, per loro invece anche quei semi erano vitali!”.

Intervista di Gian Pietro Verza

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6 Commenti

    1. Doveva esse insignito dell’onorificenza uno che aveva deliberatamente condannato a morte un ragazzo di 24 anni ? La medaglia gli è stata tolta ?

  1. Senza Walter Bonatti Compagnoni e Lacedelli non sarebbero mai arrivati in cima mentre Bonatti avrebbe potuto raggiungere la vetta anche senza le bombole di ossigeno se sono non fosse sceso e risalito a prendere le bombe insieme al suo amico sherpa per passarle ai due bugiardi. IL K2 E’ DI WALTER E NON DI Compagnoni e Lacedelli che forse cercavano anche la vittima per rendere più eroica l’impresa.

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