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K2 1954, dall’Italia allo Sperone Abruzzi. Cronaca di un avvicinamento ricco di imprevisti

Il 25 maggio 1954 la spedizione italiana inizia ad attrezzare lo Sperone degli Abruzzi dopo un tormentato trekking di avvicinamento alla montagna. La storia, poco nota, delle settimane che precedettero l’inizio della scalata

Quando inizia la spedizione italiana al K2? Se si bada al viaggio dall’Italia verso l’Asia, la data da sottolineare è il 19 aprile, quando la maggioranza degli alpinisti decolla dall’aeroporto di Ciampino in direzione di Beirut e Karachi. Se si preferisce andare più indietro nel tempo si può tornare al 19 giugno del 1953, quando Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri ad interim, ottiene dal suo collega pakistano Mohammed Ali Bogra l’impegno che il permesso per l’anno successivo verrà concesso all’Italia.

Nell’autunno del 1953 l’impresa prende forma, con una lunga serie di riunioni del Club Alpino Italiano. In quei mesi concitati Ardito Desio viene nominato capospedizione, si scelgono i partecipanti (con le esclusioni illustri di Riccardo Cassin e Cesare Maestri, e le relative polemiche), vengono scelti e ordinati i materiali da utilizzare sul K2, dagli scarponi alle tende e dalle bombole di ossigeno alle corde. Due campi invernali, al Plateau Rosà e poi sul Monte Rosa, consentono agli alpinisti di conoscersi e di prepararsi al meglio.

Un capitolo complicato è quello della ricerca dei fondi, che lo Stato promette ma che non riesce a erogare in tempo. Ci pensa il CAI, che chiede 25 milioni di lire alla Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde. Sulla richiesta, oltre a quella del presidente generale, compaiono per fideiussione le firme di 23 soci. Molti altri, anche di condizione finanziaria modesta, inviano contributi a fondo perduto. 

Seguono il volo dall’Italia al Pakistan, e poi quello da Rawalpindi a Skardu che viene rinviato più volte per il maltempo. Il 30 aprile i primi 270 portatori s’incamminano verso Shigar e la valle del Braldo, scortati da Soldà, da Bonatti e dal maggiore pakistano Beshir. Il resto del gruppo li segue nei due giorni successivi.

Il 30 aprile c’è anche un volo che fa storia. Un DC3 della Orient Airlines, con a bordo Ardito Desio, il fotografo e operatore Mario Fantin e l’alpinista altoatesino Erich Abram, che si occupa di respiratori e bombole, decolla per una ricognizione intorno al K2. L’aereo non ha un impianto per l’ossigeno, e i piloti, oltre i 6000 metri, respirano dalle bombole arrivate dall’Italia. Il capospedizione, dal finestrino, vede una montagna “molto più erta di quanto ci fosse sembrata dalle foto”.

La prima parte del trekking, dalla riva dell’Indo verso Shigar e l’imbocco della valle del Braldo, non presenta difficoltà e problemi. Gli alpinisti camminano tranquillamente, si ambientano, si accampano nelle oasi nei pressi dei villaggi. Più avanti, procedendo verso Dassu e Askole, il percorso diventa complicato e a tratti pericoloso. 

I diari di Pino Gallotti e Guido Pagani

Oltre che nella relazione ufficiale, scritta dal professor Desio, raccontano quei giorni i diari, molto più vivi e più ricchi, che ci sono stati lasciati dall’alpinista milanese Pino Gallotti e dal medico Guido Pagani, e che purtroppo non sono mai stati pubblicati. Ricco di spunti anche il diario del geologo Bruno Zanettin, tra i componenti del team scientifico, che da Skardu, s’incammina in una direzione diversa.

Il “nucleo volante” composto da Gallotti e Mario Puchoz deve assistere i portatori nell’attraversamento dei fiumi con dei rudimentali traghetti o sulle jola, i traballanti ponti di corde di vimini. 

A Dasso, al posto della zhak, il battello di otri gonfiati che si utilizzava fino all’anno prima per traversare il Braldo, accoglie alpinisti e portatori un ponte formato da “due travi oscillanti in modo pauroso sotto i nostri pesi, soltanto appoggiate alle estremità sui sassi”. Il cuoco Ishak cade in acqua, viene trascinato per qualche centinaio di metri, secondo Gallotti ne esce “trascinato dalla mano di Allah”. 

Al guado del Dumordo, oltre Askole, Puchoz ha paura, e viene aiutato da un baltì che se lo carica sulle spalle. In mezzo al fiume l’uomo si ribalta, Gallotti e gli altri assistono impotenti dalla riva, poi il valdostano e il pakistano riemergono. Il professor Desio, che è piccolo e leggero, viene trasportato senza tuffi.

L’8 maggio il sentiero taglia dei lastroni rocciosi a picco sul Braldo, che per Pino Gallotti “richiedono qualche dote arrampicatoria”, poi ridiventa facile e conduce all’oasi di Paiju. L’indomani si mette piede sul ghiacciaio Baltoro ricoperto di pietre, e dopo qualche ora ci si sposta verso destra fino alla valletta sabbiosa di Liligo. La sera per la prima volta nevica, e il viaggio entra in una fase diversa. 

A Urdukas la neve è abbondante e occorre spalare le piazzole per le tende, mentre i baltì, secondo Gallotti, “lavorano come formiche per trovare pochi sterpi per il fuoco”. La nevicata non si ferma, e per due giorni i portatori si rifiutano di proseguire. Il 12 maggio, come annota Guido Pagani nel suo diario, “ha nevicato la notte, ed il cielo del mattino non lascia sperare alcun miglioramento”. 

Poi in cielo compare qualche squarcio di sereno, e si riparte scavando una traccia profonda nella neve. Ma è ancora il medico e alpinista di Piacenza a notare che Desio e Ata Ullah “racimolano 350 portatori, mentre la punta massima è di 620 circa”. 

Finalmente al Campo base

Il 14 maggio, nell’anfiteatro di Concordia, il tempo ridiventa bello e appare finalmente il K2, ma molti portatori lasciano i carichi nella neve e se ne vanno. I primi italiani raggiungono il campo-base il 15, ma poi riprende a nevicare con forza. Prima che arrivino tutti i carichi, e si inizi ad affrontare il K2, passa ancora una decina di giorni. 

A complicare la vita ai portatori, oltre al freddo e alle coperte insufficienti, pesa la mancanza degli occhiali da ghiacciaio, perché il ritorno del sole causa la diffusione di dolorose oftalmie. “In questa faccenda ha giocato l’eccessivo ottimismo di chi aveva dissuaso il prof. Desio, nella corrispondenza di mesi addietro, dall’approvvigionare occhiali e coperte in numero adeguato ai portatori” commenta Pino Gallotti.

Pagani, intanto, si concede uno sguardo al panorama. “Concordia acquista da stamane il merito di posto più bello del mondo. Il Baltoro con le sue onde di neve, la sfilata di guglie del Biarchedi, il bianco del Bride e del Golden Throne, il rosato altissimo del Gasherbrum e la piramide del K2, con le fiammate altissime delle cime” annota nel suo diario.

Nonostante la magia del panorama, per una decina di giorni, gli alpinisti, i portatori d’alta quota arrivati da Hunza e i pochi baltì rimasti devono affrontare una faticosa corvée, portando con una serie di viaggi i carichi da Concordia alla base del K2. 

Poi il tempo migliora, le tende vengono piantate una accanto all’altra, di fronte alla montagna sventola una bandiera tricolore, affiancata dalla copia della Madonnina del Duomo che l’arcivescovo Schuster ha donato alla spedizione il giorno della partenza da Milano.   

Il 25 maggio, finalmente, inizia il lavoro sullo Sperone degli Abruzzi per attrezzare la via e per installare e rifornire i campi. Quattro italiani, Achille Compagnoni, Pino Gallotti, Mario Puchoz e Ubaldo Rey, si fanno aiutare da due hunza che ritrovano le piazzole del primo campo utilizzato nel 1953 dalla spedizione di Charles Houston. 

Fin qui si arriva camminando sul ghiacciaio ricoperto di sassi, e superando una innocua seraccata. Da qui in poi, verso la selletta rocciosa dove sorgerà il campo 2, si deve arrampicare su roccia e salire per ripidi pendii di neve. L’ascensione del K2 è iniziata. 

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