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A tu per tu con Silvo Karo

Dalle salite in Patagonia ai suoi compagni di cordata, dal severo giudizio su Tomo Cešen al festival che cura in Slovenia. La grandiosa parabola di un alpinista stimato in tutto il mondo

Da una famiglia contadina che nulla sapeva di montagna, alle prime salite su straordinarie pareti della Patagonia e dell’Himalaya. L’alpinista sloveno Silvo Karo, Piolet d’Or alla carriera nel 2022, è stato protagonista di una serata autobiografica al Trento Film Festival, accolto da un pubblico caloroso di ammiratori che ne conoscono bene le imprese. 

Significativo, a fine serata, il caloroso e lungo abbraccio scambiato con il trentino Elio Orlandi, appena insignito del titolo di socio onorario dello stesso Festival. Silvo ha raccontato, in un italiano scarno e essenziale, ma anche con l’aiuto di Alenka Možina traduttrice del suo primo e per ora unico libro Rock’n roll on the wall, i suoi quarant’anni di passione per la montagna, ricordando scalate eccezionali, diverse delle quali non sono mai state ripetute.

Sono nato in una famiglia povera di contadini – ha esordito – ma se una volta avvertivo le mie origini come una mancanza, oggi le ricordo con orgoglio, perché nascere poveri è una ricchezza in tempi in cui molto si basa sul superfluo. La povertà aguzza l’ingegno e ti insegna a dare il giusto valore alle cose”. 

Il colpo di fulmine arriva nel 1976, a sedici anni, quando un parroco porta lui e alcuni suoi coetanei a fare un’escursione estiva nelle Alpi Giulie e, qualche giorno dopo, la vetta del Triglav, la montagna più alta della Slovenia (allora ancora Jugoslavia). “Quel prete ci portò su di notte e arrivammo in cima all’alba: così mi è stata mostrata la via verso i monti, l’ho imboccata e non l’ho più abbandonata. Sono felice che questo sia avvenuto”.

Dagli inizi sulle Alpi Giulie alle imprese in Paragonia

E le Alpi Giulie diventano negli anni successivi la sua (e dei suoi compagni di scalata) palestra di formazione per le grandi pareti, dopo quelli che definisce “inizi modesti” con un corso di alpinismo, la passione per la corsa in montagna e la frattura di una tibia che fu colpo di fortuna e svolta per il suo destino di scalatore. “Per la riabilitazione dovetti andare alle terme, e lì vicino alle abitava Franček Knez: il mio incontro con lui fu cruciale”. 

Con Knez, che ha cinque anni più di lui, Silvo Karo inizia a sognare più in grande. Molti anni dopo, nel 2010, riceveranno entrambi l’Ordine al Merito dalle mani del Presidente della Repubblica Slovena per “i loro successi nella scalata delle montagne slovene e per il loro contributo che ha aumentato la reputazione, la conoscenza e la notorietà dell’alpinismo sloveno e ha reso grande la Slovenia nel mondo”. Karo, Knez e Janez Jeglič diventeranno noti come “I Tre Moschettieri”, per il gran numero di eccezionali prime salite compiute insieme sul Fitz Roy, sul Cerro Torre, sulla Torre Egger.

In tempi in cui il governo della ex-Jugoslavia finanziava prevalentemente coloro che tentavano di salire gli “ottomila”, Silvo Karo e i suoi compagni, di origini contadine come lui e con profonde motivazioni condivise, cercarono ispirazione nell’alpinismo praticato da britannici e americani per puntare alla ricerca di vie nuove su grandi pareti, e a una forma di alpinismo più leggero.

Siamo stati una generazione fortunata e abbiamo anche sperimentato un grande progresso tecnologico nei materiali”, ha ricordato, sottolineando però ironicamente che durante il tentativo alla parete Est del Fitz Roy, quando nella stessa zona c’erano anche gli italiani Maurizio Giarolli, Ermanno Salvaterra e Elio Orlandi, le corde fisse che usarono nella prima parte del percorso erano state realizzate da una ditta che abitualmente produceva lacci da scarpe. 

La scelta dello stile alpino

In quegli anni (gli anni Ottanta, ndr) la Patagonia era molto diversa da oggi: c’erano sei-sette ore di avvicinamento alle pareti, e non esistevano le previsioni del tempo per quella zona”. Anno dopo anno Karo capisce che è sempre più lo stile alpino il modello che vuole inseguire perché piccole spedizioni significa maggior velocità, da conseguire con costanti allenamenti e preparazione. 

Ci allenavamo sulle pareti delle vecchie case e poi, estate e inverno sulle pareti delle Alpi Giulie. Avevo capito che bisognava andare in montagna spesso, per rafforzare la preparazione fisica e mentale e di conseguenza aumentare la sicurezza”.

Karo ha raccontato in sintesi, con modi quasi spicci, le sue spedizioni da una parte all’altra del mondo, come quella al Bhagirathi III con Jeglič, con diversi bivacchi e otto giorni trascorsi in parete. E ha ricordato che l’intensità del suo alpinismo lo ha portato a dover lasciare il lavoro in fabbrica per iniziare a lavorare su corda. 

Ha definito gli anni Novanta come “anni bui per l’alpinismo sloveno, dopo che un “superman” – riferendosi alla dubbia impresa di Tomo Cešen – “ha scalato la parete Sud del Lhotse in solitaria e ha posto il livello dell’alpinismo falsamente in alto, portando molti a perdere la vita”. Qui, a un intervento dal pubblico che gli chiedeva cosa ne pensasse di quella salita ha risposto, un po’ irritato per la domanda, “se conosci la storia non serve parlare”. 

Karo ha ricordato la perdita dei suoi più grandi amici (Janez e Francek) a venti anni di distanza l’uno dall’altro e l’ultima grande spedizione alle Torri di Trango con il giovane Andrej Grmovšek e la salita in giornata di Eternal Flame. Ha citato anche l’argentino Rolando “Rolo” Garibotti, un altro protagonista dell’alpinismo patagonico. Infine ha sottolineato la sua attenzione per le nuove generazioni e il Festival Gorniškega Filma, che cura da 18 anni con passione e orgoglio in Slovenia.

Per me l’alpinismo è una cosa semplice – ha chiosato Silvo – perché ho inseguito sempre la pratica, non la filosofia. Ho iniziato con la piccozza di legno, ora scendo con il Piolet d’or”. Pochi concetti, ben chiari agli addetti ai lavori che meriterebbero, per un alpinista così unico, una resa più ricca, anche di parole.

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