Alpinismo

Guzmàn, Garcìa e Gonzalez scalano Afanassief al Cerro Chaltèn

I tre alpinisti spagnoli alla loro prima esperienza in Patagonia hanno completato salita e discesa in 35 ore. Cronaca di un’ascensione un po’ folle ma gestita come ha richiesto la montagna

Javi Guzmán, Cristian García e Álex González hanno portato a casa la loro prima cima patagonica. Questi giovani alpinisti, già noti per le loro imprese sui Pirenei, hanno salito la celebre via Afanassieff al Cerro Chaltèn (Fitz Roy). Con stile leggero e con l’audacia di chi non ha ancora assaggiato il meteo patagonico, i tre hanno approfittato di una breve finestra di bel tempo per affrontare questo ambizioso obiettivo.

Afanassief, via aperta dai francesi Jean e Michel Afanassieff, Guy Abert e Jean Fabre nel dicembre 1979, è diventata nel corso degli anni una delle più emblematiche linee del Fitz Roy. Tra le ascensioni più importanti, la solitaria integrale di Jim Reynolds nel 2019 e la rapida scalata di Colin Haley insieme ad Austin Siadak, saliti e scesi in meno di 24 ore.

La salita di Guzmàn, Garcìa e Gonzalez

L’avventura dei tre spagnoli ha avuto inizio nove mesi fa, quando i tre hanno iniziato ad andare in montagna insieme. Per mantenere alta la motivazione, hanno messo in programma un viaggio in Patagonia: “Dopo molto lavoro, adesso ci troviamo qui” racconta Guzmàn.

Non ci eravamo ancora riposati dopo l’acclimatamento quando abbiamo visto una finestra meteo di un giorno e mezzo in arrivo. Abbiamo valutato le opzioni, e preso una decisione più dal cuore che dalla ragione, decidendo di attaccare il Fitz Roy da una delle vie più lunghe la Afanassief. L’unica carta che avevamo da giocare era quella della velocità e della leggerezza.

Il venerdì abbiamo salito più di 1000 metri di dislivello con un vento che non incoraggiava per niente a salire verso la cima a cui ci stavamo avvicinando. Una parte di noi si illudeva con la versione ottimista dell’avventura, l’altra parte non sapeva cosa stessimo facendo. Se uno fa una pazzia e sbaglia, è considerato un pazzo, ma se riesce automaticamente diventa un genio. Non sapevamo se era genialità o stupidità, ma andavamo…” racconta Guzmàn.

All’una del mattino i tre partono dalla tenda con gli zaini ridotti al minimo. In tre ore e mezza raggiungono la base della parete e iniziano a salire alternando ramponi, scarponi e scarpette da arrampicata. Arrivano alle placche, una sezione di 300 metri di 6a continuativo: “C’erano ghiaccio e neve su tutti gli appoggi per i piedi, e avevamo pochissimi friends. La severità di questa via ci ha fatto cadere tutti, per fortuna sempre i secondi”.

Dopo dodici ore di arrampicata, i tre realizzano che la via era più difficile e lunga di quanto indicato nelle relazioni. Incalzati dalla notte, dopo aver sbagliato strada, senza equipaggiamento da bivacco, decidono che l’unica opzione è andare avanti. “Al posto del facile terreno che ci sarebbe stato sulla via, avendo sbagliato strada, ci trovavamo davanti un muro verticale. In quel momento ho raccolto nella mente tutti gli avvenimenti duri che ho superato, per trarre forze dalla mente, dato che quelle del corpo si stavano esaurendo. Abbiamo attivato la modalità sopravvivenza, facendo un mix di arrampicata libera e artificiale, e aprendo una variante per necessità” prosegue Guzmàn.

I tre arrivano in vetta dopo 16 ore di arrampicata no-stop e cominciano subito la discesa, a digiuno e assetati. Alle prime luci del giorno raggiungono la base della parete, ma mancano ancora 10 calate in un canale nevoso a rischio valanghe da affrontare prima dell’arrivo del sole. Dopo 35 ore di attività ininterrotta i tre raggiungono la Laguna de los Tres, dove si dissetano e dormono qualche ora prima di tornare a El Chaltèn, “Esausti ma felici di aver fatto tutto quello che dovevamo per salire e scendere illesi da una montagna come il Fitz Roy. Pensavamo di averne abbastanza, ma dopo un bel po’ di cibo e riposo stiamo già architettando i prossimi piani. Noi alpinisti siamo così, nel mondo là sotto i mantiene vivi il sogno di tornare in alto, e quando siamo su in montagna ci mantiene vivi la voglia di tornare ad abbracciare il mondo che ci aspetta in basso” conclude Guzmàn.

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