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A tu per tu con Francesco Ratti, una Guida che si divide tra il Cervino e l’Himalaya

Nato in Brianza e residente a Valtournenche, Ratti ha aperto importanti vie nuove sul Monte Bianco, sul Cervino, in Patagonia, in Himalaya e nel Karakorum

L’alpinismo valdostano è cambiato. Il merito è soprattutto di un gruppo di giovani guide alpine, che oltre ad accompagnare i clienti sulle vette del Bianco e del Cervino, hanno iniziato ad aprire vie nuove sulle montagne di casa e sulle grandi catene del mondo, dalla Patagonia all’Alaska.

Tra i leader del gruppo è Francesco Ratti, brianzolo trapiantato in Valtournenche, che ha alle spalle molte spedizioni importanti e belle imprese sulle Alpi come due vie nuove sul Cervino: la “Diretta allo Scudo” è stata aperta nel 2018 con François Cazzanelli ed Emrik Favre, e poi salita in libera integrale, “L’Amitié” è stata tracciata con Cazzanelli e Marco Farina nel 2021. Sulla seconda via le difficoltà arrivano al 6c, sulla prima c’è del 7a.

Nell’estate del 2020, Ratti e Cazzanelli, con il lombardo Matteo Della Bordella, hanno aperto “Incroyable” (8a max, 7b obbligatorio) sul Pilastro Rosso del Brouillard, una delle strutture più belle e famose del Bianco. L’elenco delle spedizioni di Francesco include mete classiche come il Manaslu (finora il suo unico “ottomila”) in Himalaya e il Denali/Mc Kinley in Alaska, e vie nuove sul Tengankpoche in Nepal, la Uli Biaho Spire in Pakistan e l’Aguja Guillaumet nella Patagonia argentina.

Al contrario di molte guide del Cervino, che ai piedi della “Gran Becca” sono nate e cresciute, Francesco si è trasferito in Valtournenche dopo essere diventato guida. E’ nato 42 anni fa a Rogeno, in provincia di Lecco, una zona dove il suo cognome fa pensare a Vittorio Ratti, alpinista, partigiano e compagno di Riccardo Cassin.

“Ho fatto delle ricerche, e ho scoperto che non sono imparentato con Vittorio. Invece c’è una lontanissima parentela con Achille Ratti, Papa Pio XI, che nel 1890 partecipò all’apertura dell’odierna via normale del Monte Bianco dal versante italiano”, racconta Francesco. Lo abbiamo incontrato a Roma, prima di una conferenza organizzata dal negozio “Campo Base” e presentata dall’amico e collega Riccardo Quaranta.

La parola Valtournenche per un alpinista significa Cervino. Quanto è importante la “Gran Becca” nel vostro lavoro? Quante volte la sali ogni anno?
Per noi, e per la valle, il Cervino è importantissimo. Lo salgo con i clienti dalle 10 alle 15 volte ogni anno. Dipende anche dalle condizioni in quota.

Quali sono le altre vette frequentate da guide e clienti in Valtournenche?
Il Breithorn, che è una breve e facile salita su neve. Un gradino più su il Castore o il Polluce.

E per i clienti “evoluti”, che preferiscono mete più solitarie?
Sul versante italiano le Grandes Murailles, frequentate dalle guide di Valtournenche in passato. Sul versante svizzero, i grandi “quattromila” come la Dent Blanche e lo Zinalrothorn.

Quanti clienti chiedono ascensioni di questo tipo?
Non molti ma ci sono, e tanto dipende dal rapporto che si crea tra guida e cliente. Nei primi anni di lavoro avevo solo clienti che passavano per l’Ufficio guide, e che chiedevano il Cervino e altre vette classiche. Poi ci si conosce, ti crei una clientela personale, puoi proporre mete diverse. Bisogna imparare a immedesimarsi nel cliente.

Tu riesci a farlo?
Negli anni ho imparato, e non è stato facile. A Valtournenche abbiamo i clienti “da selfie”, che vogliono solo la foto accanto alla croce di vetta del Cervino. Altri amano i luoghi solitari.

Che differenza c’è tra il lavoro di guida e il tuo alpinismo “privato”, quello delle vie nuove e delle spedizioni?
Sono due mondi diversi. La guida non scala per sé, deve garantire la sicurezza e la soddisfazione del cliente. Quando vai per conto tuo scatta un interruttore, ti trasformi. Non è sempre facile.

Non tutte le guide hanno queste due vite diverse. Cosa pensi dei suoi colleghi che non si allontanano mai dalle vette di casa?
Ognuno fa le sue scelte, ovviamente. Però credo che sia importante tenere accesa la fiamma, mantenere la curiosità dell’alpinista. Conosco dei colleghi “spenti”, a cui la troppa routine ha fatto male.

Negli ultimi anni le guide della Valle d’Aosta sono cambiate. Molti giovani hanno iniziato ad aprire vie nuove sulle Alpi e a partire con spedizioni leggere. Come è accaduto?
Dopo essermi trasferito in Valtournenche ho conosciuto François Cazzanelli e ho iniziato ad aprire vie con lui. Abbiamo “trascinato” un gruppo di ragazzi che oggi vanno fortissimo, a iniziare da Jérome Perruquet.

 Qual’è stata la tua prima spedizione?
Nel 2015 in Patagonia con due ripetizioni importanti, la via Carrington-Rouse sull’Aguja Poincenot e la via Greenpeace sul Cerro Piergiorgio. Nel 2017, con Cazzanelli, Favre, Tomas Franchini, Matteo Faletti e Fabrizio Dellai siamo andati al Mount Edgar, 6618 metri, nella regione cinese del Xichuan. Abbiamo salito cinque cime minori, e poi la vetta principale.

 Poi è arrivato l’Alaska, giusto?
Sì, nel 2019. Ho salito due volte in una settimana il Denali (o McKinley, 6620 metri, la cima più alta del Nordamerica), per la West Rib e poi per la via Cassin in 19 ore. In autunno ho salito il Manaslu, 8163 metri, il mio primo e finora unico “ottomila”, senza ossigeno supplementare. Poi abbiamo tentato una via in stile alpino sul Pangpoche, 6620 metri, ma abbiamo rinunciato a 300 metri dalla cima per le condizioni della neve.

 Dopo il Covid-19, invece, ti sei concentrato sull’Asia.
Sì, nell’autunno 2021 ho aperto una via nuova sul Tengkangpoche, 6490 metri, una magnifica cima che sorveglia il villaggio di Thame, nel Khumbu. Con me c’erano Roger Bovard, François Cazzanelli, Emrik Favre, Jérome Perruquet e il lombardo Leonardo Gheza.

 Nel 2022 sei andato in Pakistan, quest’anno in India…
Nel luglio 2022 sono andato in Karakorum, con Gheza e Alessandro Baù. Abbiamo aperto una via sull’Uli Biaho Spire, 5620 metri, con difficoltà fino al 7a e A2. L’abbiamo chiamata Refrigerator Off-Width, perché dalla fessura in mezzo alla parete usciva un vento gelido, poi abbiamo ripetuto la Nameless Tower di Trango combinando le vie Eternal Flame e Slovena. Qualche settimana fa siamo andati nella Miyar Valley, la “Yosemite dell’India”, con Baù, Perruquet e Lorenzo D’Addario. Abbiamo aperto Wind of Silence sulla Neverseen Tower, poi abbiamo tracciato Super Thuraya sul pilastro Sud-ovest del Mont Maudit.

Hai progetti? Quali montagne ti piacerebbe salire?
Tra qualche settimana tornerò in Patagonia, e stavolta verranno con me mia moglie e i miei figli. Vorrei salire il Cerro Torre, anche ripetendo la via del Compressore. E’ una cima meravigliosa, impossibile non desiderarla.

So che conosci gli alpinisti del Centro-sud, e che sei venuto ad arrampicare al Gran Sasso.
E’ vero, quando ho fatto il corso guide da allievo ho conosciuto il molisano Riccardo Quaranta. Prima di partire per la Miyar Valley mi sono informato sulle spedizioni di Massimo Marcheggiani, Bruno Moretti e Roberto Iannilli. Sono andato al Gran Sasso come istruttore del corso guide. Una settimana ad arrampicare al Corno Piccolo, che roccia!

Che differenza c’è tra le Alpi, la Patagonia e l’Himalaya? Ha ancora senso parlare di spedizioni?
In Patagonia la parola “spedizione” è, spesso, esagerata. Si viaggia in un Paese simile al nostro, a El Chaltén, ai piedi del Fitzroy e del Torre, ci sono ristoranti e ostelli come sulle Alpi. In Himalaya o in Karakorum sei in un altro mondo. Ma quando sei in parete, in Sudamerica o in Asia, sai che non esiste un soccorso come da noi.

Torniamo al Monte Bianco, alla tua ripetizione del “trittico del Frêney”, inaugurato da Renato Casarotto nell’inverno del 1982. Quanto è importante la storia?
Con François Cazzanelli ho salito la via Ratti-Vitali sull’Aiguille Noire de Peutérey, la Gervasutti-Boccalatte al Pic Gugliermina e la via di Bonington e compagni al Pilone Centrale del Frêney. La storia è importante, in Valle d’Aosta e altrove.

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