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“Le otto montagne”, il David di Donatello che piace tanto agli americani

Il miglior film ai David di Donatello 2023 è sbarcato negli USA, dove è stato apprezzato da gran parte della critica

Esattamente un anno fa, durante il Festival di Cannes, quando “Le otto montagne” veniva proiettato per la prima volta, un poster gigantesco, molto più grande di quelli che di solito si stampano per i film italiani, campeggiava all’ingresso di una delle molte aree del mercato. Il luogo, cioè, in cui non si vedono film, ma si vendono e comprano per la distribuzione nei vari Paesi del mondo. Non è un poster pubblicitario, non mira a convincere le persone a vederlo (in fondo è un film in concorso al Festival, non ha bisogno di presentazioni), è un poster che dichiara la potenza del film e la fiducia che chi lo vende ha nelle sue potenzialità. Così tanto da pagare per lo spazio pubblicitario più grande che c’è. Avevano ragione. “Le otto montagne” era un successo annunciato in Italia e poi nel mondo. È stato venduto in diversi Paesi e anche nel più grande per il cinema, l’America, da dove ci sono giunte recensioni entusiaste più che grandi incassi.

“Le otto montagne” è uscito in due sale su tutto il territorio degli Stati Uniti e poi il weekend successivo in quattro sale, quindi il doppio, incassando (in totale) la metà. Non è inusuale per film non americani (quindi sottotitolati per loro), e per nulla spettacolari nel senso hollywoodiano del termine, quando escono negli Stati Uniti. Lì il cinema straniero è roba per pochissimi. Per fare un esempio, anche “Parasite” in America uscì in 3 sale all’inizio, però incassando dieci volte la cifra che ha incassato “Le otto montagne” e ricevendo a quel punto una distribuzione nazionale più seria. Quindi “Le otto montagne” è uscito in America ed è piaciuto alla gran parte della critica americana.

La spiegazione più semplice di questo successo sta nel fatto che “Le otto montagne” è un buon film, scritto bene, diretto con grande intelligenza e interpretato altrettanto bene. Quella più complessa, invece, ha a che fare con quello che il pubblico (e la critica) americano si aspetta dal cinema del resto del mondo. I loro sono film molto spesso spettacolari e di grandissimo intrattenimento, anche quando raccontano storie di persone ordinarie. Per questa ragione, raramente guardano polizieschi o film d’azione stranieri, perché apprezzano i propri, che sono già buoni. Quello che si aspettano dall’estero, o almeno quello che si aspetta il piccolo pubblico dei film stranieri, molto ben educato e radicato a Los Angeles e New York, è qualcosa di più audace, sofisticato e intellettualmente probante. “Le otto montagne” conferma tutto questo con, in più, un atteggiamento riguardo la sessualità che involontariamente si inserisce perfettamente nei discorsi e nei mutamenti che la società americana sta guidando.

I due amici e le loro due vite insieme sulle montagne, in giro per il pianeta e sulle Alpi, la storia che li lega e, soprattutto, i singoli momenti e singoli sguardi che li uniscono, parlano di sentimenti non facili da descrivere, che hanno tanto a che vedere con un profondo senso di amicizia, tanto quanto ce l’hanno con il desiderio sessuale. Il film si colloca a metà, occupando una posizione che da sé impone una visione più ampia dello spettro del desiderio sessuale (entrambi del resto hanno storie con delle donne). Non mostrano mai di essere gay nel senso convenzionale del termine, eppure il loro sentimento è più potente di un’amicizia, non sono certo repressi (anzi “Le otto montagne” è un film su una grandissima libertà e sui suoi limiti), semplicemente non definiscono ciò che provano e va bene così.

Poi ci sono le montagne. Il cinema americano è povero di montagne, nonostante nel Paese non manchino. I grandi spazi per Hollywood sono e rimangono le praterie, quella è la dimensione naturale in cui gli eroi e i cattivi del cinema americano si misurano, le inquadrature larghe in cinemascope che abbracciano le vallate e non i passi montani. Anche film d’azione ambientati in montagna (come “Cliffhanger” di Sylvester Stallone) sono stati girati spesso al di fuori degli Stati Uniti. Questo significa che il secondo grande elemento di appeal di “Le otto montagne” è proprio lo scenario montano e come viene sfruttato per la storia. Il cinema americano lo pratica pochissimo, lo conosce poco e quando lo riprende lo fa con la meraviglia del turista in cerca di esotismo (come per esempio in “Tutti insieme appassionatamente”), oppure lo trasforma in un luogo dell’anima, trascendentale (si pensi a “La vita nascosta” di Terrence Malick o “Sette anni in Tibet”). Qui invece la montagna è la montagna e i personaggi sono in cerca di un rapporto con essa.

“Le otto montagne” del resto viene da chi la montagna la conosce e la considera qualcosa di proprio, al pari del mare o delle città. Ovviamente è un film in cui le cime sono in quasi ogni inquadratura, in cui il paesaggio montano è cruciale e le durezze della montagna sono importanti nella trama (uno dei due protagonisti non riesce a superare un’ascesa troppo difficile da piccolo, ma ci riuscirà da grande con una soddisfazione che si mescola alla possibilità di incontrare il suo amico, che lì in alto, ormai, ci vive). È, dal punto di vista statunitense, cinema di conoscenza nuova, che mostra dinamiche eterne come l’amicizia e le difficoltà del portare avanti la vita, ma in un posto selvaggio che chiede parecchio, che ha difficoltà sue e fa sembrare quelle dinamiche eterne e nuove.

Tutto girato nel formato 4:3 (quello un po’ più quadrato), esalta la verticalità delle cime rispetto al rettangolare 16:9; tutto giocato tra le facce di due attori che per noi sono star note, ma per gli americani sono una scoperta nella scoperta (scoperta la loro bravura, scoperta il loro affiatamento), il film è stato anche accusato di essere uno spettacolo cartolinesco. Lo ha fatto Richard Brody, critico del New Yorker esperto e molto intellettuale, noto nel giro per la sua intransigenza e le sue molte stroncature. Brody oppone al film la sua scarsa considerazione delle condizioni dei personaggi, del contesto, del Paese in cui vivono, della storia e della politica nelle loro vicende, criticando come lo sfondo sia sempre in primo piano, facendo quel che lui definisce “cinema-cartolina”. Non è un caso che questa critica venga da quello che, forse, è il più europeo dei critici americani.
Ma New Yorker a parte, di fatto “Le otto montagne” è riuscito presso la parte più intellettuale della discussione cinematografica americana, in modi che erano inaspettati per tutti, tranne che per i venditori di Vision, che un anno fa compravano lo spazio più grande a Cannes e avevano visto giusto.

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