AlpinismoStoria dell'alpinismo

Corno Grande, 27 marzo 1923, Aldo Bonacossa fa nascere lo scialpinismo in Abruzzo

In questi giorni tra inverno e primavera, centinaia (ma forse sono migliaia) di scialpinisti salgono verso le montagne d’Abruzzo. Alcuni affrontano percorsi impegnativi come il canalone Maiori del Sirente o le Rave della Maiella, altri preferiscono itinerari più soft sul Velino, sul Genzana o sui monti del Parco d’Abruzzo, Lazio e Molise. La vetta più ambita è il Corno Grande del Gran Sasso, 2912 metri, che si raggiunge da Campo Imperatore o dai Prati di Tivo, e da cui si scende per il ghiacciaio del Calderone o per il canalone Bissolati. Qualche appassionato locale lo sa, molti dei “forestieri” che arrivano dall’Italia settentrionale o da più lontano lo ignora. Ma lo scialpinismo in Abruzzo, e nell’Appennino Centrale, inizia proprio sul Corno Grande, esattamente cento anni fa.

Il merito è di un uomo che arriva dalla Lombardia. Si chiama Aldo Bonacossa, è un conte e un industriale, le seterie di Vigevano, create dal padre e dagli zii nel 1872, gli richiedono poco tempo. A trentott’anni, quando arriva al Gran Sasso, ha alle spalle uno straordinario curriculum di ascensioni. Ha iniziato ad arrampicare a diciott’anni alla corda di grandi guide come lo svizzero Christian Klucker e il valtellinese Bortolo Sertori. E’ stato compagno di cordata di Paul Preuss, di Hans Steger e del re Alberto del Belgio. Nel 1904 ha calzato per la prima volta gli sci, nel 1906 è stato chiamato a far parte del Club Alpino Accademico, nel 1920 è stato eletto presidente della neonata Federazione Italiana Sport Invernali. Più tardi scriverà delle guide del Bernina, del Disgrazia, dell’Ortles e delle vette di granito della Val Masino.

Il 25 marzo del 1923 Bonacossa sale sul vagone-letto che collega la Stazione Centrale di Milano con Bologna, l’Abruzzo e la Puglia. I ferrovieri sono abituati a vedere gentiluomini vestiti da montagna salire e scendere dai treni diretti in Valtellina e in Svizzera, ma Bonacossa parte nella direzione sbagliata. Quando consegna all’addetto al bagagliaio i suoi sky, come si scrive allora, il ferroviere annota sulla ricevuta “attrezzatura scientifica”. Da Giulianova, il conte prosegue con un accelerato per Teramo, poi in corriera fino a Montorio al Vomano, infine con un calesse a noleggio. Scende al ponte sul Rio Arno, all’inizio della mulattiera che sale a Pietracamela, dove non lo attendono né una guida locale né un mulo. In estate, i forestieri che salgono al Gran Sasso sono ormai una presenza consueta, e insieme a loro tornano a rivedere il paese i pretaroli emigrati. D’inverno i forestieri non si sono mai visti, specie se senza guida né mulo.

Dopo qualche minuto di preparativi, legati gli sky sullo zaino, il conte s’incammina di buon passo sulla mulattiera. Il tempo è al bello stabile, dopo un tratto nel bosco compaiono le cime del Pizzo d’Intermesoli e dei due Corni, abbondantemente innevate. Due ore e mezzo dopo, all’imbrunire, il viandante arrivato dal Nord sbuca sulla piazza del paese, dove viene accolto con sorpresa dagli “americani”, i paesani tornati in paese dopo anni di fatica negli USA. Di alpinisti qui se ne sono visti molti, ma quegli aggeggi di legno sono una novità assoluta. Bonacossa trova una stanza per la notte, cena presto, arruola per l’indomani “un ometto”, che gli porterà gli sci e lo zaino fin dove possibile. Alle quattro di mattina del 27 marzo il lombardo e l’abruzzese s’incamminano sulla mulattiera tra i faggi.

Dopo un’ora, un gradino di neve indurita dal gelo costringe il portatore a rientrare. Bonacossa fissa le pelli di foca agli sci, lega gli scarponi agli attacchi, saluta il portatore e prosegue. Si affaccia nell’ampia e spettacolare Val Maone quando la prima luce del giorno illumina le rocce e le nevi dell’Intermesoli e del Cefalone. A sinistra, giganteschi, si alzano il Corno Piccolo e il Corno Grande. Non c’è nessuno, ma questa per Bonacossa è “una solitudine che non mi par quasi solitudine, ben diversa da quella tante volte provata e quasi temuta a nord delle Alpi, sotto i cieli plumbei. Qui il sole è un buon compagno, e i famosi lupi non si vedono”. A Campo Pericoli Bonacossa piega a sinistra, sale per dei pendii più ripidi, si siede a riposare e ha una sorpresa. “I miei calcagni hanno battuto una roccia. Guardo distrattamente e sobbalzo. Non è una roccia, bensì un muro: sono seduto sul culmine del tetto del rifugio Garibaldi” scriverà.

Più in alto la pendenza aumenta, ma la neve resta buona. Bonacossa risale il pendio innevato del Brecciaio, si toglie gli sci per precauzione e si affaccia sulla Conca degli Invalidi, in vista del Corno Piccolo. Ora il pendio è ripidissimo, ma uno strato di farina gli consente di rimettere gli sci, e di proseguire con brevi diagonali. Dove la neve ridiventa ghiacciata il conte si toglie nuovamente gli sci e continua con ai piedi i ramponi. Da una sella si affaccia sulla conca del Calderone, oltre la quale si alzano la Vetta Orientale, la Centrale e la guglia che verrà battezzata Torrione Cambi. Un quarto d’ora per una cresta di neve lo porta ai 2912 metri della cima. Sono le undici e mezza, per quasi duemila metri di dislivello ha impiegato sette ore e mezza. Bonacossa riconosce la Maiella, il Sirente, le altre vette del Gran Sasso. Da uomo delle Alpi, lo emoziona la “linea d’acqua dell’Adriatico” che chiude l’orizzonte verso est.

Da sciatore guarda la distesa innevata di Campo Imperatore, dove scopre un terreno d’avventura straordinario. Poi torna agli sci, li fissa agli scarponi, scende con cautela verso la Conca degli Invalidi, con in mano la piccozza per frenare un’eventuale caduta. Alla Sella del Brecciaio passa sul versante del sole, lascia andare gli sci e si diverte. Torna al rifugio, poi riattraversa in velocità la Val Maone. Tra i faggi deve rallentare, ma in due ore dalla cima è di ritorno in paese. I montanari di Pietracamela lo accolgono, ma non credono al suo exploit. Per farglielo accettare, Bonacossa li conduce su un prato da cui, grazie a un cannocchiale, si può vedere la sua traccia sulla neve del Corno Grande. Poi la bottega del calzolaio si trasforma in un bar, e il conte brinda con “i figli del trattore e qualche semi-autorità del paese”. Infine, via via riprende il sentiero, la carrozza, la corriera, l’accelerato e il vagone-letto, e torna a Milano.

Qualche mese dopo, sulla Rivista Mensile del CAI, spiega agli stupiti alpinisti padani di “una scivolata bellissima, quanto mai veloce”, a livello delle più belle delle Alpi Occidentali, che “vale senz’altro il Col Turras sopra Bousson e supera nettamente (come discesa certo, non come ambiente) il Nuvolau di Cortina”. Sei mesi dopo, con il romano Enrico Iannetta, il conte torna al Gran Sasso per compiere le prime salite delle creste Ovest (o delle Spalle) e Nord-est del Corno Piccolo. Nel 1934 torna sul massiccio con Giusto Gervasutti, il “Fortissimo”, per superare sulla Punta dei Due il primo passaggio di sesto grado del Gran Sasso.

Aldo Bonacossa però ama soprattutto lo sci. Tra il 1928 e il 1932, insieme ad amici lombardi come Luigi Binaghi e Ninì Pietrasanta, sale e scende dal Monte Corvo e dal Prena, e inaugura la traversata della Provvidenza, da Campo Imperatore alla valle del Vomano. Infine Bonacossa percorre il miglior itinerario sciistico alle due vette culminanti del Corno Grande, per il Vallone delle Cornacchie (dove oggi è il rifugio Franchetti) e il Calderone. S’innamora della neve d’Abruzzo, e quando scrive di Campo Imperatore afferma che “una simile zona sciistica non esiste nell’Europa Centrale e nemmeno in Norvegia”. Anche perché l’altopiano del Gran Sasso è “illuminato da quel caldo sole d’Italia che i nostri amici di lassù mai avranno”.

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