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L’invernale al Manaslu, la paura, il “montañismo”. Alex Txikon si racconta

Venerdì 17 marzo, in una serata della serie “A tu per tu con i grandi dello sport” organizzata da DF Sport Specialist Brescia, il grande alpinista basco Alex Txikon ha saputo emozionare, e far scendere anche qualche piccola lacrima ai presenti.

Si è parlato di montagne e di grande alpinismo. Quello con la A maiuscola, capace di far sognare, di creare tormento, gioia e disperazione nel contempo. O meglio, più che alpinismo, di himalaysmo o di andinismo, si è semplicemente trattato di montañismo, che per Alex e quelli come lui ha un significato molto più ampio. Un termine accogliente e inclusivo, che abbraccia molte cose, e non riguarda solamente le grandi imprese. L’alpinista basco, però, è uno dei grandi e come tale non ha potuto esimersi dal raccontare la sua ultima ascesa (il Manaslu in invernale) e la dolorosa vicenda di quattro anni fa che lo ha visto coinvolto nel tentativo di salvataggio di Daniele Nardi e Tom Ballard al Nanga Parbat nel marzo del 2019. Fatti che rimangono nella testa ma soprattutto nel cuore.

Il 6 gennaio scorso Alex Txikon ha raggiunto la vetta del Manaslu, 8163 metri, insieme agli alpinisti nepalesi Tenjen Lama Sherpa, Pasang Nurbu Sherpa, Mingtemba Sherpa, Chepal Sherpa, Pemba Tasi Sherpa e Gyalu Sherpa. Si è trattato della prima realizzata completamente d’inverno, dato che i polacchi Maciej Berbeka e Ryszard Gajewski, arrivati in cima nel gennaio 1984, avevano iniziato la spedizione prima del 21 dicembre. La salita e il rientro al campo base sono stati completati da Txikon e compagni nel tempo record di 60 ore. Nella serata di Brescia ha avuto spazio anche il grande cuore di Alex che, incalzato dall’amico e conduttore Luca Calvi, ha raccontato i progetti umanitari che lo vedono in prima linea in diversi Paesi del mondo.

Quello dì venerdì scorso è stato un Alex “diverso” che, davanti a una platea sorpresa, non ha nascosto di essere ancora fortemente scosso per le modalità con cui si è svolta la sua ultima ascesa. Un’esperienza fortissima, che gli ha fatto conoscere i suoi veri limiti, sia fisici sia mentali. In più di una occasione, nel bel mezzo della salita, ha pensato che fosse giunto il suo momento e che, forse, questa volta non sarebbe più riuscito a tornare a casa. La sua voce rotta dall’emozione ha portato la platea a riflettere sul legame indissolubile che esiste tra l’uomo, la montagna e la vita. Nei momenti più emozionanti è stato Calvi, con lui sul palco, ad aiutarlo a uscire dall’impasse. Cinquecento persone in sala e il silenzio assoluto. Solo la voce di Alex, solo quella.

Alex, partiamo dall’esperienza durissima che hai vissuto sul Manaslu. Hai raccontato di un freddo estremo e di un vento fortissimo.

È stata una delle esperienze più dure e pericolose della mia carriera di alpinista professionista, e ci ha richiesto una forza fisica e mentale incredibile. Soprattutto nella prima parte la montagna era in condizioni peggiori di quanto pensassi. Le temperature sono scese fino a -45 gradi, e le raffiche di vento hanno raggiunto i 50 chilometri orari. È difficile da casa farsi un’idea di cosa siano queste condizioni. Anche l’acqua delle borracce che portavamo tra il petto e la tuta di piumino gelava, una cosa che non mi era mai accaduta prima!

Quanto conta la testa in questi casi?

Quando scali una montagna in queste condizioni, con un freddo così intenso e un vento così forte, la testa è senza alcun dubbio molto importante. Non meno del fisico, sia chiaro. La componente piscologica va di pari passo con il fisico, perché se in salita devi lavorare molto con testa, durante la discesa, con la testa “alleggerita” dal fatto di aver raggiunto la vetta, tutte le tue forze si concentrano sullo sforzo fisico.

Dici che è stata una esperienza estrema e pericolosa. Che rapporto hai con la paura? Hai delle paure in generale, magari anche non legate alla montagna? Lavori per superarle oppure le accetti come tali?

Sono una persona normale e quindi ho molte paure. Percepisco le situazioni di pericolo, non ne sono immune. Passare sotto a un seracco spaventoso e mantenere la calma, per esempio, non è una cosa scontata. Ci sono voluti anni di esperienza per imparare a controllare le mie paure, e a rendermi conto che vanno accettate. Compreso il fatto che, in qualsiasi momento, tutto potrebbe finire. La paura è la miglior compagna della prudenza. Se prima mi paralizzava, oggi invece riesco a trasformarla in energia positiva.

Come è stato vivere questa esperienza con i sei alpinisti nepalesi? Ci sono differenze rispetto a come l’avresti vissuta insieme a Simone Moro, se non fosse stato male?

Il fatto di aver cambiato compagni di scalata non ha cambiato per me il valore di quest’ascensione. Mi sento super orgoglioso di aver potuto condividere con il team nepalese la salita al Manaslu. È stata una meravigliosa opportunità condividere questa esperienza, non cambierei assolutamente nulla e nessuno di loro. Sono persone buone, oneste e valorose. Spero che i nostri cammini si possano incrociare nuovamente nei prossimi anni.

Alpinismo, himalaysmo, andinismo… Tu, come molti altri spagnoli, usi il termine “montañismo”. Cosa significa?

“Montañismo” significa essere un amante della montagna e della natura in senso lato e generale. Non definisce solo chi compie grandi imprese ma chi, semplicemente, esce di casa e va a camminare (o a correre, o a scalare) in mezzo alla natura. Non si tratta solo di fare qualcosa, c’è una connessione più profonda con l’ambiente che lo circonda. Chi ama la natura, l’ambiente, le montagne, non può che essere una persona positiva. Questo per me significa “montañismo”.

Avete parlato anche delle tristi vicende del 2019, che ti hanno visto in prima linea sul Nanga Parbat. Dopo la morte di Tom Ballard e Daniele Nardi hai una percezione diversa della montagna e dell’andare in montagna?

Non era la prima volta che perdevo dei compagni in montagna, era già capitato prima del Nanga Parbat. Ogni perdita insegna qualcosa, ed è dolorosa ma anche un motivo di crescita. Tutte le volte cerco di imparare qualcosa, di trasformare il dolore in un insegnamento. E ogni volta cambia il mio modo di approcciarmi alle salite e affrontare le sfide.

Quello di cui parli poco sono le tue opere filantropiche. In cosa consistono? Ci fai qualche esempio pratico? Com’è possibile aiutarti da casa nella realizzazione dei tuoi progetti umanitari?

Si cerca sempre di lavorare per aiutare, facendo il massimo compatibilmente alle nostre possibilità. Ma la cosa più importante è perché lo facciamo. Per quanto mi riguarda, dare aiuto a chi ha bisogno è qualcosa che mi motiva, e che mi riempie il cuore. Serve anche per restituire alla società un debito, perché siamo persone che hanno la fortuna di poter viaggiare in qualsiasi parte del mondo. In tutti questi anni il 99% delle persone che ho incontrato mi hanno fatto del bene, magari anche solo con un sorriso, ed è proprio questo che vorrei restituire alla società. Tutto il lavoro che faccio con diverse fondazioni, come quella per l’energia fotovoltaica in Africa e Asia, lo faccio a titolo personale, senza volere nulla in cambio. Ed è proprio questo il bello.

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