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Il “bisogno” della vetta spiegato dalla psicologia

Manca poco alla cima, ormai la vediamo, c’è solo questo passaggio molto difficile… Ma siamo quasi arrivati, e ci ritroviamo a compiere qualche imprudenza pur di farcela. È una situazione che probabilmente suonerà familiare a diverse persone, ma perché capita? Cosa ci spinge in quelle situazioni? Abbiamo provato a capirlo parlando con Graziano Gigante, psicologo laureato in neuroscienze.

Innanzitutto è necessario fare una premessa importantissima: in psicologia fare delle generalizzazioni è sempre molto difficile, non abbiamo una verità che è applicabile a tutti, non possiamo avere dei modelli efficaci generali, ma possiamo avere degli indizi che ci aiutino a capire meglio le cose. Ogni persona, però, è differente dalla altre, ha delle motivazioni e delle strutture di socialità diverse che vanno a determinare perché ha bisogno della vetta, le ricerche sul campo e i modelli sono utili, ma è importante considerare le differenze individuali.

Il raggiungimento della vetta, così come tutta l’attività dello scalatore, è un modo per mettere alla prova le proprie competenze e abilità in un contesto: arrivare in cima significa realizzare le proprie capacità. Il raggiungimento di questi obiettivi ha dei significati e dei valori molto personali per la persona che li affronta. Alcuni riportano che fare alpinismo è un modo per far emergere alcune delle proprie paure che non si incontrano (più) nel contesto di vita quotidiana – ormai relativamente “semplice”, diversa da quella che affrontavano i nostri antenati. La possibilità di far venire a galla queste paure e di affrontarle è un elemento importante, che a volte però ci porta in alpinismo a commettere degli atti non sconsiderati, ma magari oltre le nostre possibilità.

Dobbiamo poi pensare che chi fa alpinismo si inserisce all’interno della cultura di montagna e di questo sport, con la sua collezione di valori e di aspetti importanti per chi vi appartiene. Nel momento in cui io miro a un obiettivo, quindi, non è più solamente una questione individuale, ma anche di aderenza a valori culturali, che possono essere molto forti e determinanti nei vari comportamenti.

La teoria del comportamento pianificato è un modello che spiega il comportamento umano come qualcosa che deriva da un’intenzione, a sua volta conseguenza dell’interazione tra l’atteggiamento, le norme soggettive e la percezione di controllo. L’atteggiamento si riferisce a quali sono le mie attese rispetto a questo modo di agire, quali conseguenze mi aspetto, etc. Le norme soggettive sono il modo in cui mi relaziono con la società riguardo a questo comportamento e la percezione di controllo si riferisce a quanto si è convinti di riuscirci. Quest’ultimo aspetto in certi casi dovrebbe essere contrario all’attuazione del comportamento: se so che una determinata azione è gravemente rischiosa, che potrei non essere in grado di superare un passaggio, questo dovrebbe spingermi a fermarmi e tornare indietro. Perché, quindi, si continua? Ci sono due possibilità: o gli altri due fattori sono così determinanti e forti da andare a sovrastare questo terzo, oppure questa teoria ha un difetto. La teoria dell’azione pianificata presuppone che le persone ragionino sempre molto attentamente su quello che fanno, ma mentre si fa alpinismo e ci si trova in una situazione a rischio può essere complicato avere il tempo per “mettersi a tavolino” e fare un’analisi costi-benefici. In più, ci si trova all’interno di un contesto, di una sorta di copione, uno scenario nel quale alcuni valori diventano molto più intensi rispetto alle nostre predisposizioni personali.

L’errore fondamentale di attribuzione è appunto il vizio sistematico di attribuire le cause di un comportamento umano alla personalità del singolo piuttosto che alle condizioni esterne. Qui si verifica quello che viene detto errore fondamentale di attribuzione: noi pensiamo che quando gli altri compiono un’azione è molto più rilevante quello che loro hanno deciso di fare rispetto alle condizioni esterne con cui si sono confrontati. Capita di pensare “io in quella situazione non mi sarei comportato in quel modo”, ma così facendo sovrastimiamo i fattori individuali nell’esecuzione di determinate azioni mentre sottostimiamo gli effetti del contesto. Se in questo momento sono seduto sul divano guardando il cellulare, il mio contesto è profondamente diverso da quello di una persona che si è allenata per molto tempo per arrivare in cima, e che in quel momento starà magari pensando: “Se io adesso torno indietro, cosa succede? Ci sono altre persone con me? Cosa pensano queste persone se decido di tornare indietro ora? Se io dovessi rinunciare adesso, quale sarebbe la mia reazione emotiva a questa situazione?”. È lo stesso principio di quando si fa uno scivolone sul ghiaccio e si picchia la schiena in un piazzale pieno di gente o su un sentiero deserto: a livello fisico il dolore è lo stesso, ma sul piazzale “sentirò più male” perché ho fatto una brutta figura davanti agli altri. I fattori individuali contano fino a un certo punto, ma devono essere sempre composti con quelli del contesto in cui si verifica la situazione.

Esiste poi un altro fattore interessante, stavolta relativo alla personalità, ovvero quello del sensation seeking (ricerca di sensazioni). Tutti noi di norma abbiamo un livello di stimolazione sensoriale che quando viene raggiunta ci permette di stare bene. Per qualcuno questo livello è molto basso e può essere raggiunto anche stando sul divano a guardare la tv, per qualcun altro è un po’ più alto, quindi magari dovrà optare per un film horror, per qualcuno è invece necessario uscire a fare sport. Questi livelli diversi ci portano a stare bene o male: se la stimolazione è troppo bassa, volendo raggiungere il benessere, cercheremo di stimolarci maggiormente, se è troppo alta invece proveremo ad allontanarci dagli effetti stimolanti. Una cosa che viene rilevata spesso in persone che fanno alpinismo o altri sport estremi è proprio un livello elevato di sensation seeking, cioè ricerca di attività che causino stimolazioni elevate al punto anche di correre grandi rischi pur di sperimentare queste sensazioni.

Quando andiamo a valutare la personalità di alpinisti che svolgono attività ad alto rischio, poi, viene osservato attraverso il Temperament and Character Inventory di Cloninger che, dal punto di vista del temperamento, hanno un alto livello di novelty seeking, ossia ricerca della novità (cosa che torna anche con il discorso sul sensation seeking), si annoiano facilmente e hanno bisogno di provare nuove esperienze, non amano la monotonia, le cose prevedibili etc. Hanno invece un livello basso di evitamento del rischio: non si aspettano che le cose possano andare male, sono più rilassati, molto ottimisti, carichi di energia, tutti fattori molto funzionali per praticare questo sport. Ora, il temperamento è una caratteristica innata, ereditaria, stabile nel tempo, mentre il carattere è legato a fattori che si sviluppano con la maturazione – apprendimenti, obiettivi, valori, fattori sociali… – e può variare con il tempo. Se si prendono in considerazione gli aspetti del carattere, quindi, si trova un alto livello di autodeterminazione – sono persone molto determinate, con un elevato controllo delle situazioni, che sanno adattarsi alle difficoltà che si presentano. Se da un lato questo controllo è molto importante per quanto riguarda il raggiungimento degli obiettivi e permette di focalizzare i propri istinti in situazioni ad alto rischio – non in maniera impulsiva, c’è un alto livello di consapevolezza e pianificazione -, dall’altro può evolvere in un eccesso di confidenza, che può portare a compiere errori.

Può sembrare che l’alpinismo sia fatto per gli alpinisti e viceversa: lo sport e la persona in un certo senso si “cercano”, le nostre attività infatti sono nate proprio per soddisfare queste nostre complessità e necessità…

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5 Commenti

  1. Una visione molto moderna “dell’andar per monti” dove si confonde tanto.
    Forse l’autore ragiona per esperienza esterna, altrui e poco vissuta personalmente ?
    O forse vede tutto più come sport che disciplina ?
    Forse il ragionamento è solo un figlio del moderno mercato del consumo ?
    Comunque è interessante come conferma .

  2. Insomma la solita storia, gli alpinisti, gli arrampicatori ecc sono una massa di irresponsabili alla ricerca di emozioni forti per non farsi travolgere dalla noia ….. un po’ come i giovanissimi che bevono, fumano e poi finiscono in rissa per dare un senso al sabato sera…….. mahhhhhh.
    Meno male che le cose, come al solito, sono diverse.

  3. Credo che questi studiosi si arrogano troppo il diritto della conoscenza di quello che, innanzitutto, secondo il mio parere e per me, è uno stile di vita, più che sport o disciplina… Non sono questi “professori” che devono parlare per tutti coloro che vanno lassù ma chi ci va, e ognuno porterà le sue motivazioni ed emozioni! Non esistono studi psicologici generalizzati volti a psicanalizzare l’individuo, che qui passa chiaramente per un “drogato incosciente” disposto a rischiare a tutti i costi per arrivare in cima! Quanta fuffa…

  4. Mi ricordo, alcuni anni fa, arrivando in vetta al Kilimanjaro, che superammo un povero giapponese schiantato dalla fatica e dall’ipossia che veniva letteralmente trascinato fin sotto il cartello di vetta dai suoi due portatori che lo trascinavano tenendolo sotto le ascelle, coi piedi penzoloni per terra. Poi spiegarono ai nostri portatori che non avrebbe mai potuto tornare a casa con una “sconfitta”, che non avrebbe tollerato di affrontare la famiglia, gli amici, i colleghi di lavoro senza la foto di vetta…

  5. L’andare in montagna, più che un semplice bisogno, può rappresentare il desiderio e la tensione verso la trascendenza, il mistero e l’armonia. La psicologia è nata 150 anni fa mentre la storia dell’uomo è molto più lunga. La domanda a questo punto sorge spontanea ed è: Quali sono i bisogni della psicologia? Su quali valori e principi si fonda? Cosa anima la sua ricerca?

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