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Viaggio nel mondo sotterraneo dell’Etna, tra grotte effimere dal cuore di ghiaccio

Che sia il Cervino, il Monte Bondone o il Terminillo, ciascuno di noi ha una montagna “di casa” o una montagna “del cuore”, una vetta su cui ci si torna così di frequente da sviluppare la sensazione di conoscerla come le nostre tasche. Una sensazione illusoria anche per i professionisti della montagna, come ci dimostra la storia dei fratelli Dario e Paolo Teri, maestri di sci e appassionati di esplorazione sull’Etna, artefici di un progetto unico nel suo genere: l’Etna Lava Tubes Project. Un censimento delle grotte vulcaniche dell’Etna, in termini più scientifici cavità reogenetiche o singenetiche, che ha portato in una manciata di anni a identificare oltre 60 cavità inesplorate, alcune delle quali di particolare interesse geologico per la presenza al loro interno di ghiaccio.

Dario ci racconta come è nato il progetto?

“Il progetto è nato quasi per provocazione, perché non è raro sentir dire che i più esperti dell’Etna conoscano il vulcano pietra per pietra. Una affermazione che non ci ha mai trovati concordi, nella piena convinzione che, al contrario, ci fosse ancora molto da scoprire e riscoprire sul vulcano. La nostra esplorazione è iniziata come una ricerca in superficie, al di fuori dei sentieri battuti. Siamo andati in un primo momento alla ricerca di antichi sentieri e mulattiere, vie utilizzate in passato, dai nostri nonni, poi cadute in disuso, soprattutto dopo l’avvento delle strade asfaltate, su cui è inevitabilmente ricresciuta la vegetazione. Tra le lave del vulcano siamo arrivati a scovarne oltre 100.” 

E come si è arrivati dalle mulattiere alle grotte vulcaniche?

“Lungo questi sentieri ci siamo talvolta imbattuti in cavità vulcaniche. Grotte che nel passato erano note e utilizzate da chi si spostava lungo queste vie. Potevano servire come niviere, come depositi o come appoggio per un bivacco notturno durante il periodo di transumanza delle greggi. E così è nata la voglia di concentrarci sulla esplorazione delle cavità, sconosciute o semplicemente dimenticate. Ci siamo resi conto che il loro numero andasse oltre le nostre aspettative, da qui l’idea di realizzare un vero e proprio censimento sul nostro territorio, dove si diceva che fossero circa 250-260 le grotte conosciute. Siamo arrivati a identificarne 60 inesplorate. E in alcune di esse ci siamo trovati davanti a delle sorprese.”

Di che tipo?

“Grotte di elevato interesse naturalistico. Abbiamo scoperto la presenza di piante che non si ritenevano presenti in Sicilia, ad esempio. Da evidenziare che noi non siamo esperti di botanica. Per raccontarvi un aneddoto, ci eravamo imbattuti in una felce e ne abbiamo pubblicato l’immagine sui social. Un botanico ci ha contattati dopo aver riconosciuto che si trattasse di una felce spinosa, informandoci del fatto che in Sicilia non fosse ritenuta presente. Ed è stata una esperienza importante, che ci ha fatto comprendere quanto il progetto potesse portare a delle importanti scoperte trasversali. In alcune abbiamo trovato delle forme di vita vegetale, come dei muschi, a 2800 metri di quota, anche in questo caso una presenza mai attestata prima sul vulcano. In altre abbiamo trovato del ghiaccio.”

Certo che parlare di ghiaccio conservato nelle cavità di un vulcano suona come un ossimoro…

“Laddove vi siano delle condizioni morfologiche della cavità che permettano l’accesso di neve, e vi sia un corposo strato di pietra lavica al di sopra della grotta, al suo interno si riescono a raggiungere e mantenere delle temperature molto basse.”

A proposito di ghiaccio, lo scorso anno vi siete imbattuti in quella che attualmente risulta essere la grotta contenente il deposito glaciale più a Sud d’Europa. L’avevate ribattezzata inizialmente “Grotta Polo Nord”, scelta che non aveva convinto del tutto la platea dei social, da cui si è levata la richiesta di chiamarla “Grotta Polo Sud”. Come è andata a finire?

“L’abbiamo chiamata Grotta Polare (ride).”

Prima di tale scoperta il primato di deposito glaciale più meridionale spettava alla Grotta del Gelo, sono simili tra loro le due cavità?

“In realtà c’è una differenza sostanziale tra le due grotte, che ha richiamato l’attenzione dell’INGV. Al contrario della Grotta del Gelo, che non sta attraversando un periodo facile in quanto la massa glaciale si scioglie sempre di più, la Grotta Polare mostra il ghiaccio in aumento. Le ricerche dell’INGV cercheranno di fornire informazioni su come si formi e si conservi il ghiaccio al suo interno.”

Possiamo ipotizzare la presenza di un deposito ancora più meridionale?

“Non possiamo escluderlo. La nostra “scoperta” è stata realizzata nell’ambito di un progetto autogestito che conduciamo nei ritagli di tempo e senza risorse. Magari in futuro, qualora un ente di ricerca avviasse un programma ben strutturato, se ne potrebbero scoprire di nuove.”

Questa miriade di cavità inesplorate, è stata scoperta da voi per caso?

“Di norma seguiamo un metodo che parte dallo studio cartografico. Nella maggior parte dei casi andiamo sul posto con la quasi certezza di trovare qualcosa. Poi, che quel qualcosa si riveli interessante o meno, lo si scopre al momento. Però può capitare anche la scoperta per caso.”

Ce ne può raccontare una?

“Parliamo di una grotta a noi particolarmente cara, che abbiamo ribattezzato “Grotta Teri”, scoperta casualmente su un versante poco esplorato. Dietro il nome non ci sono manie di protagonismo. Abbiamo voluto semplicemente sintetizzare l’essenza del nostro modo di vivere la montagna. Quel giorno ci eravamo incamminati su queste colate laviche, senza mete definite a priori. O meglio, eravamo andati lì per cercare una cosa che avevamo notato da foto satellitari, diciamo un buco, e non l’abbiamo trovato. Rientrando alla base dopo questo bel flop, abbiamo adocchiato una cavità che non era nei piani, che si è rivelata inesplorata. Le abbiamo dato il nostro nome perché possa essere uno sprone per i nostri figli e per chi fa questo tipo di attività esplorativa.”

Quante grotte vulcaniche pensa ci siano sull’Etna?

“Una domanda che in relazione a un vulcano attivo come l’Etna probabilmente non può trovare risposta, in quanto sui suoi versanti cavità reogenetiche compaiono e scompaiono in maniera dipendente dalle eruzioni. Potenzialmente potrebbe essere una ricerca senza fine. Lo stretto legame tra eruzione e nascita di una nuova grotta vulcanica fa sì che sull’Etna si possa stimare con alto grado di precisione – non il giorno ma l’anno sicuramente – quando una determinata cavità si sia formata. Dato che non è possibile ottenere nel caso delle grotte carsiche, come quelle degli Iblei, che semplicemente sappiamo essersi formate in milioni di anni. Di recente abbiamo scoperto una grotta reogenetica giovanissima, che ha circa 8 anni e non è detto che abbia vita lunga: la Grotta 3000.”

3000 sta per 3000 metri?

“Esatto, è stata scoperta in una zona ad alto rischio di natura vulcanica, alla base dei crateri sommitali, e potrebbe facilmente essere sommersa da nuove eruzioni. Potrebbe trattarsi della grotta più alta del vulcano, e anche al suo interno è presente del ghiaccio. Si tratta di una cavità maestosa, con una volta che raggiunge i 12 metri nel punto misurato. Oltre a una massa di ghiaccio notevole sul fondo, probabilmente perenne, è presente un suggestivo laghetto congelato.”

Dall’ultima grotta torniamo al punto di partenza, qual è la prima cavità censita?

“Non ricordo precisamente se sia stata la prima, ma diciamo tra le prime, una niviera sul versante di Nicolosi a una quota molto bassa, meno di 1000 m di quota. Sconosciuta al pubblico nonostante sia posizionata a una quota inferiore rispetto alla celebre “grotta della neve” di S. Alfio, che è oggi una meta turistica. Questo per ribadire che basti uscire dai sentieri battuti per scoprire meraviglie.”

Le nuove scoperte, si sa, incuriosiscono. A potenziali escursionisti che vogliano andare a vedere con i propri occhi questi “lava tubes”, quali suggerimenti possiamo fornire?

“Per prima cosa è necessario avere un buon allenamento di base. Un chilometro di cammino sulla lava, su questo particolare tipo di terreno roccioso, non è paragonabile a un chilometro percorso su un  classico sentiero battuto. A volte per raggiungere una grotta sono necessari 10/15 km di cammino, solo di andata. Chi non è allenato per questo genere di terreno rischia di farsi male, anche semplicemente camminando. Secondo punto è, una volta raggiunta una cavità, come si affronta la discesa. Né io né Paolo siamo speleologi, ma abbiamo fatto dei corsi di arrampicata, abbiamo approcciato con persone più esperte in materia, apprendendo tecniche anche basilari che ci consentono di entrare in grotta con prudenza e responsabilità. Con questo intendo dire che siamo i primi a fermarci se notiamo che il rischio sia troppo elevato per le nostre capacità. Talvolta ci si può imbattere in pareti instabili, con alto rischio di crolli. In questi casi evitiamo proprio di scendere. L’esplorazione è bella ma è anche bello poter tornare in superficie e raccontarla.” 

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