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Quale futuro per le Cave delle Apuane? Per il Consiglio di Stato l’ambiente viene prima del profitto

Sulle Alpi Apuane il raggiungimento di un equilibrio tra salvaguardia dell’ambiente e promozione dell’economia (leggasi industria del marmo) rappresenta una sfida, se non una utopia. Ne è prova lo scontro verificatosi nel mese di ottobre tra Parco e Comuni, a seguito della presentazione da parte dell’Ente di un Piano Integrato (PIP) che prevede l’estensione delle zone tutelate mediante chiusura di alcune “aree contigue di cava”, ovvero riserve di marmo in cui teoricamente si potrebbe scavare. Documento, a detta del Comune di Massa, in contrasto con gli obiettivi definiti dai Piani attuativi di bacini estrattivi (Pacobace), tra cui compare l’impegno alla salvaguardia delle aree contigue di cava e il ripristino ambientale di aree precedentemente utilizzate a fini estrattivi. Documento che ad alcune associazioni ambientaliste è invece risultato tutt’altro che votato a una rivoluzione verde, quanto piuttosto promotore dell’attività estrattiva e dello sfruttamento delle risorse naturali.

Italia Nostra: “Questo PIP è gattopardismo”

Come si legge in una nota indirizzata da Italia Nostra al Presidente del Parco delle Alpi Apuane, Alberto Putamorsi, se da un lato il Piano Integrato prevede infatti la chiusura di alcune aree estrattive, dall’altra propone “l’apertura di nuove cave in aree esterne alle attuali ACC (aree contigue di cava), in area parco, con l’invenzione di nuovi perimetri estrattivi anche in aree vergini.”

Questo PIP è gattopardismosi legge ancora nella nota -. Lei prova a farci vedere il dito che copre la Luna (chiudo le cave), ma il mondo saggio ambientalista non vede il dito, vuol vedere la Luna (un parco che sia Parco con P maiuscola)”.

La riflessione che sorge spontanea, ragionando oggettivamente su una situazione così confusa, è che il Parco si stia impegnando, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, a non scontentare nessuno, e a cercare per l’appunto quell’equilibrio cui si faceva riferimento in apertura, tra salvaguardia della natura e del profitto.

Di recente il Consiglio di Stato ha emesso un parere che dimostra quanto, in merito alle Apuane, il concetto di equilibrio sia poco idoneo. Immaginando di avere infatti sui due piatti di una bilancia l’ambiente da un lato, l’economia del marmo dall’altra, a detta del Consiglio ciò che deve sempre pesare maggiormente è il piatto della natura.

La Regione deve tutelare il paesaggio

Nel dicembre del 2020 una serie di imprese del settore lapidaceo che esercitano attività di estrazione nel Comune di Carrara, hanno presentato ricorso al Presidente della Repubblica contro il “Piano Regionale Cave” della Regione Toscana, ritenuto dagli imprenditori un documento limitante la libertà d’impresa e finalizzato non alla tutela ambientale quanto alla progressiva chiusura delle attività di escavazione. Il Ministero della Transizione Ecologica ha richiesto un parere in merito al Consiglio di Stato.

La risposta è arrivata nelle scorse settimane. Nel documento del Consiglio che dichiara il ricorso infondato e come tale da respingersi, si legge come segue: “le Regioni ben possono introdurre (e spesso introducono) condizioni e limiti alla proprietà privata e alla libera iniziativa economica privata […] che il PRC si colloca gradualisticamente in una scala gerarchica delle fonti nella quale costituisce parte attuativa della sovraordinata pianificazione paesaggistico-territoriale, che ne condiziona e ne conforma i contenuti e le previsioni. La prospettazione di parte ricorrente non considera, dunque, che le finalità di tutela dell’ambiente e del paesaggio, risorse scarse e non riproducibili per definizione, non possono non tradursi – come peraltro normalmente e tipicamente avviene nelle disposizioni, normative e amministrative, poste a salvaguardia di questi interessi – in misure restrittive (e in taluni casi impeditive) di attività economiche di esercizio della libera iniziativa economica privata e del diritto di proprietà.”

“Le Alpi Apuane – si legge ancora nel documento – rappresentano un “unicum” paesaggistico, non solo a livello nazionale ma anche internazionale, in ragione e per la tutela delle quali, nel 2011, hanno ottenuto il riconoscimento come Geoparco dell’Unesco. La peculiarità del contesto apuano non si evidenzia solo in ragione del rilevante pregio naturalistico, paesaggistico ed ambientale, ma è data anche dalla presenza millenaria di attività estrattive, che ivi sono presenti in concentrazione elevata nel medesimo circoscritto ambito localizzativo. Il comprensorio apuo-versiliese del distretto del marmo presenta infatti una peculiare incidenza per numero di cave, contiguità delle stesse e per ritmi e tipologie di estrazione, il che comporta ricadute su risorsa, territorio e ambiente in alcun modo paragonabili con altri comprensori estrattivi presenti nel resto del territorio regionale ed anche nazionale.”

E ancora “la Regione, che è titolare (in compartecipazione paritaria con lo Stato) della funzione di tutela e valorizzazione del paesaggio […] ed ha la competenza diretta per la pianificazione paesaggistica […], ben può (e, anzi, deve) orientare gli strumenti di pianificazione di settore (qual è il PRC) ai fini di tutela e valorizzazione del paesaggio, vieppiù in presenza di un piano paesaggistico che riconosce, enuncia e disciplina il peculiare valore e interesse paesaggistico del bacino delle Alpi Apuane (nella sua interezza, come considerato dalle menzionate parti del piano paesaggistico, indipendentemente dai confini del Parco e dalla sussistenza di specifici vincoli paesaggistici, provvedimentali o ex lege), inserendo in essi tutte le misure e le prescrizioni coerenti con le suddette finalità e utili al perseguimento degli obiettivi di qualità paesaggistica e ambientale e di conformazione delle attività economiche in funzione di compatibilizzazione con i predetti interessi pubblici”.

Legambiente: chiudere le cave del Parco per il bene del paesaggio

Il comunicato di Legambiente Carrara, diffuso in conseguenza del parere del Consiglio, porta nuovamente l’attenzione sui doveri di Parco e Comuni.

“I supremi giudici amministrativi ribadiscono con estrema chiarezza che la Regione e il Comune hanno il diritto, ma soprattutto il dovere, di porre limiti alla libertà d’impresa per tutelare il valore superiore del paesaggio e dell’ambiente si legge – . Per inciso, è proprio su questa gerarchia di valori che si fonda la richiesta di Legambiente di chiudere tutte le cave intercluse nel Parco delle Apuane. Come associazione non possiamo che condividere, quindi, le tesi sostenute nel procedimento dalla Regione Toscana e dal Comune di Carrara che si sono opportunamente costituite e hanno resistito in giudizio a difesa del PRC.

Il Consiglio di Stato, dunque, richiamando la nostra Costituzione e la normativa europea, rigetta radicalmente le tesi delle imprese estrattive, le quali – invece – hanno ancora una volta cercato di sostenere che la libera iniziativa economica è un diritto che non può essere limitato da alcun’altra esigenza, neppure quella di tutelare un ecosistema, le Alpi Apuane, che, come recita la pronuncia ‘rappresentano un “unicum” paesaggistico, non solo a livello nazionale ma anche internazionale, in ragione e per la tutela delle quali, nel 2011, hanno ottenuto il riconoscimento come Geoparco dell’Unesco’.

La spia migliore dell’arretratezza degli imprenditori ricorrenti è però il punto in cui, opponendosi alla fissazione di una resa minima (sebbene il PRC, partendo da una resa in blocchi del 30%, scenda poi al 25%, al 20% e addirittura a meno del 10%), affermano che ‘il pianificatore regionale, secondo criteri di proporzionalità ed adeguatezza, avrebbe dovuto introdurre dei criteri “mobili” di istruttoria da attuare da parte dei Comuni al fine di calibrare il limite minimo della resa alle esigenze ed alle caratteristiche reali delle singole cave’. In sostanza affermano che il PRC avrebbe dovuto tener conto dello status quo e consentire il mantenimento di cave con rese anche minime, purché economicamente produttive.

In effetti la versione originaria del PRC prevedeva la resa minima del 30% di blocchi per autorizzare l’escavazione, considerando che le cave con percentuali di detriti troppo alte (il 17% delle cave produce da 15 anni oltre il 90% di scarti) si configurassero come cave di inerti e, dovessero perciò essere chiuse, per l’eccessivo impatto sul territorio e sul paesaggio. Tuttavia, come abbiamo più volte denunciato, le cose sono andate diversamente e, come emerge anche dalla stessa pronuncia del Consiglio di Stato, nel PRC attuale, comma dopo comma, la percentuale di blocchi da estrarre si è ridotta a cifre da prefisso telefonico.

Il ricorso di questi imprenditori dimostra dunque che sono privi anche del più elementare senso civico ed etico, ben lontani dalle logiche di responsabilità sociale dell’impresa, anni luce distanti dalla transizione ecologica dell’economia e della società.

Noi riteniamo invece che si dovrebbe recuperare lo spirito originario del PIT (Piano di indirizzo territoriale) da cui il PRC discende (consentire le cave solo per usi ornamentali), ripristinando perciò il limite di almeno il 30% di resa in blocchi e prevedendo la chiusura delle cave con percentuali troppo alte di detriti.

Dalla vicenda del ricorso emerge infine un dato incontrovertibile: questa classe industriale è mediocre, volta solo al proprio particulare. Nonostante i goffi tentativi di spacciarsi per green e innovativa, pretende di usare i nostri beni comuni (le montagne) come se fossero di loro proprietà e lascia cadere ogni tanto un “soldino” in elemosina per darsi una riverniciata da “benefattore”: semplice greenwashing.

Le cose devono dunque cambiare e lo si può fare solo bandendo le gare per le concessioni in tempi rapidi. In tal modo, infatti, ponendo come prerequisito per la partecipazione alla gara la lavorazione nella filiera locale di almeno il 50% dei blocchi estratti, si potrebbe aumentare fin da subito anche il livello di occupazione. Purtroppo questa nostra richiesta è stata respinta dal Comune al momento della redazione del Regolamento degli agri marmiferi.

I bandi di gara, se ben strutturati, potrebbero anche limitare o addirittura annullare i ricorsi delle imprese contro il Comune perché l’imprenditore che partecipa a una gara ne conosce e accetta le regole e non può poi rifiutarsi di rispettarle, una volta aggiudicatasi la concessione.

Serve dunque una nuova classe imprenditoriale, più consapevole dell’attuale, che sappia contemperare le esigenze del profitto (che nel marmo è elevatissimo) con il rispetto reale delle regole di tutela ambientale, con la necessità di incrementare l’occupazione e con l’interesse della collettività cui il marmo appartiene.

L’unica ragione che può ancora giustificare la presenza delle cave è un’escavazione di quantitativi limitati a uso ornamentale che limiti davvero la produzione di detriti, eviti sia l’inquinamento di fiumi e sorgenti che il rischio alluvionale, incrementi fortemente l’occupazione e generi ricchezza per la città. Altrimenti la giustificazione manca.”

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