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Symon Welfringer, l’alpinista in camicia

Il suo libro preferito è Magellan di Stefan Zweig mentre non ama leggere gli autori di montagna perché, “sono tutti abbastanza simili”. Quando scala indossa spesso camicie colorate e sgargianti, che lo fanno apparire con un pesce fuor d’acqua sulle verticalità più difficili. A riportarlo nell’ambiente ci pensano la sua tecnica e le capacità dimostrate quando gli appigli si fanno sfuggenti e le pareti sempre più verticali e strapiombanti.

Se da giovanissimo Symon Welfringer, oggi parte del team Millet, si è speso nelle competizioni di arrampicata, crescendo ha maturato l’idea di dare sempre più spazio alla componente esplorativa e all’avventura, lasciando da parte l’agonismo. Francese, classe 1993, Symon ha all’attivo un interessante curriculum di prime ascensioni dove figurano vie come Forum, aperta sulle remote pareti del Mythic Cirque, in Groenlandia, con i compagni Matteo Della Bordella e Silvan Schüpbach nell’estate 2021. Oppure la parete sud del Sani Pakkush (6952 m, Karakorum), realizzata con Pierrick Fine nell’ottobre 2020 che gli è valsa il Piolet d’Or.

Symon, ma queste camicie con cui ti abbiamo visto in azione anche sulle pareti della Groenlandia hanno un valore particolare?

“Non direi, semplicemente mi piacciono molto le camicie originali, creative. In passato indossavo tutti i giorni dei leggins in omaggio a Patrick Edlinger e Patrick Berhault. Mi piace molto lo stile degli alpinisti che hanno segnato gli anni Ottanta, ora sono nella mia fase camicia. Chissà quale sarà la prossima.” (ride)

L’omaggio a Edlinger e Berhault arriva anche come risposta all’ispirazione tratta dalle loro gesta?

“I racconti delle passate spedizioni sono tuttora grande fonte di motivazione, ma ho iniziato tardi con l’alpinismo. Prima i due Patrick, soprattutto Edlinger, sono state le mie figure di riferimento. Con Edlinger ho avuto la fortuna di condividere un’arrampicata quando avevo 15 anni. Mi ha fatto sicura durante la salita di ‘Papy on view’, una delle sue vie.

Con la crescita si sono poi aggiunti diversi nomi, tra cui molti alpinisti. Ho trovato molti punti in comune soprattutto con quelli che condividono la mia stessa visione della montagna: un misto di tecnicità e avventura. Per fare due nomi, tra le mie recenti ispirazioni francesi direi Benjamin Guigonnet e Jerome Sullivan.”

In che senso hai iniziato tardi con l’alpinismo?

“Prima facevo gare di arrampicata e mi allenavo per le competizioni. Sono nato e cresciuto nel nord-est della Francia, ho imparato a scalare nelle palestre e ho partecipato a molte gare, ma non sapevo nulla di montagna fin quando ho iniziato a studiare scienze della terra alla facoltà di ingegneria. Lì ho scoperto l’alpinismo, prima sui Pirenei, poi sulle Alpi. In breve la montagna ha assorbito ogni secondo del mio tempo, amo la varietà che questa è capace di offrire, la ricchezza di attività che spazia dall’arrampicata su ghiaccio a quella in falesia. Poi ci sono le spedizioni in Paesi lontani, la scoperta, quello che amo oggi.”

Hai scoperto la montagna da adulto, ma sei arrivato al Piolet d’Or in tempi rapidissimi… un risultato aspettato?

“Fino a oggi ho sempre ritenuto il Piolet d’Or un riconoscimento irraggiungibile. Era uno dei miei obiettivi, come un sogno che mi sarebbe piaciuto realizzare. Non avrei mai pensato di riceverne uno, soprattutto a 27 anni. Sono felicissimo e prendo il riconoscimento come una fonte di motivazione per i miei prossimi progetti.”

Hai già in mente nuove destinazioni?

“Voglio scoprire posti nuovi e provare a viaggiare in molti luoghi diversi, alla scoperta delle potenzialità dell’arrampicata. Che poi anche questa è una caratteristica che mi piace molto del Piolet d’Or: non premia necessariamente la salita più difficile, ma tiene conto della wilderness in cui si svolge una salita, dell’impegno e dell’originalità della spedizione.”

Quanto conta per te lo stile di una salita?

“È sicuramente importante e va tenuto in considerazione quando si valuta una salita, ma non la vedo in modo estremista. Fino a oggi la maggior parte delle volte in cui ho aperto una via l’ho fatto nel cosiddetto ‘stile alpino’. Ma ammiro molto anche gli altri stili e penso che l’alpinismo non si possa basare unicamente su questo fattore. L’alpinismo è una questione di scoperta. Ci son molte salite, realizzate in stile himalayano, che hanno destato il mio stupore. Un po’ di delusione la provo nel constatare che l’uso dell’ossigeno sia ancora così attuale ad altissima quota, questo penso che debba essere abrogato.”

Torniamo al Piolet d’Or che condividi con Pierrick Fine. Siete stati premiati per la salita della parete sud del Sani Pakkush: 2 scomodi bivacchi in parete, condizioni variabili, difficoltà estreme. Com’è stata l’esperienza?

“Abbiamo giocato contro ogni previsione scegliendo, senza rifletterci troppo, di andare in Pakistan in un periodo in cui si pensava saremmo riusciti a combinare poco e nulla. Al contrario  durante tutta la nostra salita abbiamo avuto condizioni meteo incredibili, con temperature che di notte scendevano fino a meno trenta gradi… menomale che la nostra meta era una parete sud.

C’è stato un momento di grande intensità, giusto sotto la vetta. Eravamo a circa 6900 metri ed ero così esausto ma così attratto dalla vetta. Ogni passo era fatica e gioia allo stesso tempo. Dovevo rimanere concentrato sul respiro, cercando di mantenerlo calmo e regolare. Nel frattempo ogni movimento era estenuante. Una situazione di stress incredibile in cui è stato fondamentale avere al mio fianco Pierrick. Lui ha abilità diverse dalle mie: io ho condotto i tiri tecnici, ma lui era il maestro sopra i 6500 metri diventando sempre più forte con la crescente quota. Così siamo arrivati in vetta, vivendo quello che in francese chiamiamo ‘L’esprit de cordée’. Un sodalizio tra due amici legati da una corda. Partire in spedizione con un solo compagno è rischioso, ma quando tutto va bene crea un legame speciale tra le persone. Abbiamo vissuto un sogno che non dimenticheremo presto.”

La vostra, come tutte quelle del 2020, è stata una spedizione stravolta dalla pandemia del Coronavirus…

“Inizialmente saremmo dovuti andare in Nepal, ma con la pandemia al tempo crescente nel Paese, hanno preso la decisione di chiudere le frontiere agli stranieri. Quindi abbiamo iniziato a immaginare un nuovo piano per trovare la migliore opportunità di realizzare una spedizione gratificante. Ho passato intere giornate su Google Earth e Fatmap alla ricerca di montagne vergini e pareti ripide. Sono rimasto stupito da quante possibilità interessanti ancora esistano tra le montagne dell’Himalaya e del nord del Pakistan. Un potenziale enorme.”

È qui che guarda il tuo futuro?

“Anche! Vorrei dedicarmi alla ricerca di nuove pareti ripide in quota, tra i 7500 e gli 8000 metri. Sono molto attratto dagli Ottomila, ma ancora di più lo sono dalla possibilità di scalare tiri tecnici di misto e roccia. Vorrei provare a trasportare le mia abilità di climber alle quote himalayane.”

Quindi, secondo te, è qui che va la nuova frontiera dell’esplorazione dopo la chiusura del capitolo invernale con la salita del K2 da parte dei nepalesi?

“Il numero di vette e pareti vergini sta diminuendo, ma rimangono molte sfide, specialmente in Pakistan. Il Masherbrum è una di queste, per fare un esempio. Ma anche lo stesso K2 invernale, in qualche modo la sfida è ancora aperta perché si può fare con uno stile più puro.”

Una delle tue ultime esperienze parla di “by fair means” all’ennesima potenza. Kayak, arrampicata e territori inesplorati. Com’è stato in Groenlandia lo scorso agosto?

“25 giorni di natura incontaminata! Penso basti questo per riassumere quanto vissuto con Matteo e Silvan. Con mezzi leali come i kayak ci siamo spinti fino al remoto Mythic Cirque, dove abbiamo vissuto 6 giorni di incredibile scalata sulla Siren Tower! È stata la mia più grande esperienza di apertura su big wall, incredibile. Lo stile più puro, in totale autonomia… il giusto connubio per rendere l’esperienza più intensa.”

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