Alpinismo

Silvan Schüpbach: “Cerco bellezza più che prestazione”

Più volte compagno di cordata di Matteo Della Bordella, Silvan Schüpbach è un alpinista di cui si parla sempre troppo poco. Classe 1982 con una laurea in biotecnologie ha scelto di dedicare la sua vita all’arrampicata e alla montagna. Ama scalare, ma anche l’ambiente e la natura. Dialogando sono emersi aspetti caratteriali che ne dimostrano una gran sensibilità e un’attenzione che va oltre il mero interesse a portare a termine una salita. Ama confrontarsi con la difficoltà, ma più di tutto ricercare un contatto con le mete dei suoi progetti, godere della bellezza e dell’energia che lo circonda.

Con Della Bordella si è più volte reso protagonista di salite estreme ed eleganti, come nel 2013 in Pakistan sulla Torre di Uli Biaho, o in Groenlandia dove hanno dimostrato la visionarietà del loro stile. Nulla di nuovo, anzi un ritorno alle origini pionieristiche dell’esplorazione. 200 chilometri in kayak, 25 a piedi e la vergine parete nord-est dello Shark tooth da superare. Oltre 900 metri verticali e strapiombanti scalati senza lasciare traccia del loro passaggio in parete. Tutto questo senza dimenticare le numerose scalate sulle pareti alpine. Lasciamo che sia lui a raccontarci il suo amore per questo terreno di gioco dove l’effimero si confonde con sensazioni immortali nel tempo.

Silvan, quando nasce la tua passione per la montagna?

“Ho iniziato ad andare in montagna da bambino, con mio padre. Lui era un appassionato di minerali e cristalli e io lo seguivo nelle sue ricerche.”

Quando hai deciso di dedicarti all’alpinismo esplorativo?

“In realtà ho iniziato a conoscere le corde e le tecniche alpinistiche praticando la speleologia. Ho trascorso molto tempo nelle grotte, scoprendone ed esplorandone anche di nuove. È questa esplorazione, unitamente alla parte scientifica, che mi ha sempre attratto verso il mondo sotterraneo. In qualche modo sono sempre stato attratto dall’esplorazione, solo per un paio di anni ho dato precedenza agli aspetti sportivi della scalata mentre ora sono davvero entusiasta di poter scoprire posti nuovi, di muovermi in terreni sconosciuti.”

Com’è avvenuto il passaggio dalla speleologia alla scalata?

“Direi in modo naturale, con l’adolescenza. Ho iniziato verso i 15 anni.”

Nelle tue spedizioni cerchi sempre di lasciare il minimo segno del tuo passaggio… uno stile che incide anche sulla quotidianità?

“Difficile a dirsi. Direi che mi piace sottolineare la bellezza delle cose più che le prestazioni raggiunte.”

Torniamo un attimo all’arrampicata: spit o protezioni mobili?

“Non c’è giusto o sbagliato. Quello che mi preoccupa è che molte pareti vengano chiodate. Questo per due ragioni. Da una parte penso che una parete, oltre a essere il nostro terreno di gioco, sia anche un habitat per piante e animali e non tutte dovrebbero essere pulite e trasformate in prodotto di consumo per l’uomo. Dall’altra parte sono dell’idea che parte del potenziale delle pareti del mondo vada lasciato anche alle generazioni future. Non utilizzando spit una linea può tornare al suo stato originale e in futuro altri esploratori possono riscoprire la stessa avventura.”

Hai tante spedizioni alle spalle, qual è stata la più entusiasmante?

“Non c’è una spedizione specifica. Ognuna ha avuto momenti speciali, anche solo brevi accadimenti. Un orso polare che si infila nel nostro bivacco svegliandoci; raggiungere una vetta quando ormai le speranze andavano scemando; incontrare persone uniche nel loro genere; vivere luoghi incontaminati. Questi sono solo alcuni esempi, ma la lista potrebbe essere infinita.”

Stai preparando qualche nuovo progetto per i prossimi mesi?

“Con Matteo Della Bordella e Symon Welfringer stiamo organizzando una spedizione in Groenlandia. Puntiamo a una parete inviolata, però prima della scalata ci aspettano 400 chilometri di avvicinamento in kayak.”

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