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Luca Mercalli, riabitare le montagne per sfuggire al cambiamento climatico

È dedicato ai montanari per scelta l’ultimo libro di Luca Mercalli e racconta una storia ambientata in alta Valle di Susa. Un racconto personale, autentico come il titolo “Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale” (Einaudi, 2020), dove trova spazio la narrazione di una migrazione verticale condotta in prima persona dall’autore.

Il volume affronta così, con semplicità e schiettezza, il tema molto attuale del cambiamento climatico e di come la montagna possa venir ripopolata. Di come possa passare da territorio di spopolamento a risorsa per il futuro. Non professa una vita da montanaro che si rintana in una casupola povera di servizi, ma racconta la storia del recupero di una vecchia baita in una piccola borgata delle Alpi occidentali, della sua ristrutturazione per renderla moderna e vivibile, senza stravolgerne l’inserimento nell’ambiente. In questo modo vivere in montagna diventa diverso perché apre le porte a nuove possibilità. Da un lato il recupero del territorio, senza costruire da zero ma riprendendo quel che è stato lasciato incolto, dall’altra parte la comodità di poterla vivere svolgendo i mestieri più svariati, dal professore universitario, passando per gli artisti, arrivando ai giornalisti e aggiungendoci qualsivoglia altro lavoro. In poche parole Mercalli ci mostra un’opportunità con i suoi lati positivi e negativi, “ma con un bilancio sostanzialmente positivo in cui qualcuno potrà riconoscersi e calcare le stesse orme”.

Luca, nel libro parla di migrazioni verticali. Un concetto molto particolare, cosa intende?

“Prima di tutto, da un punto di vista geografico, la maggior parte delle migrazioni sono orizzontali e prevedono spostamenti di molti chilometri.

Una migrazione verticale consiste nel salire su una montagna e implica un cambiamento di quota. Probabilmente si compie poca distanza in orizzontale e non si cambia nazione, ma comporta un cambiamento climatico con l’altitudine. Una soluzione per sfuggire alle alte temperature della valle. Negli ultimi anni sentiamo parlare di persone che migrano perché perseguitate o minacciate, persone povere che lo fanno per cercare un futuro migliore, chi perché ha perso diritti e dignità.

Nel caso della migrazione verticale auspicherei che questa fosse programmata e ordinata.”

Cosa intende?

“Che sia un migrazione dignitosa in cui ognuno di noi può decidere in anticipo di cambiare stile di vita non arrivando in quota come rifugiato, ma portando le sue potenzialità. Si sale portando in quota idee di investimento per il futuro. In questo modo la migrazione ha un valore sociale perché quando in una piccola borgata si fa questa iniezione di risorse le case vengono ristrutturate e il centro torna a vivere. Ne guadagna il paesaggio e anche l’economia, dando valore positivo alla migrazione.”  

Una migrazione rappresenta pur sempre un cambio culturale, che necessariamente richiede integrazione con la gente del posto…

“Sicuramente rappresenta un cambio culturale, una trasformazione che dovrebbe attingere a quella rivoluzione da tempo predicata nel rapporto tra città e montagna.

Si tratta di un problema che c’è sempre stato e che oggi è tempo di superare. Siamo nel 2020, basta parlare di retoriche del cittadino e del montanaro. È un atteggiamento tipicamente culturale, diverso in base alle Regioni. Nelle Alpi si trovano esempi di apertura e chiusura. Altri casi raccontano invece storie dove il pensiero è cambiato, aprendosi con il tempo. Un esempio di questo sono l’Alto Adige e il Trentino dove la montagna è diventata luogo di vita attiva con un meticciato tipico della città.”

Secondo la sua esperienza, cosa significa riabitare la montagna?

“Ci sono tanti valori che uno può mettere dentro una scelta di questo tipo. Io ritengo che la montagna, grazie alla tecnologia e alla rete, possa essere un luogo come un altro in cui svolgere il proprio mestiere. Non dobbiamo imbrigliare le terre alte nei tipici lavori del pastore, del maestro di sci o della guida alpina. Possono abitare la montagna anche professori universitari, pittori, ingegneri e chiunque altro svolga lavori intellettuali. Penso che possa essere un valore aggiunto per il territorio.”

Per la singola persona che sale in quota invece?

“È soggettivo. Io non ci trovo una vita più semplice, anche perché spesso sei lontano da alcuni servizi. Nel mio caso però non sento la necessità di una vacanza, del viaggiare, perché sono già in un bel posto.”   

Il lockdown lo ha passato in quota?

“Come racconto negli ultimi capitoli del libro mi trovavo in quella casa quando è stato proclamato il lockdown, ma non sono riuscito a rimanervi per ragioni pratiche. La borgata non una strada invernale accessibile in auto e vista la situazione di emergenza abbiamo preferito scendere in bassa valle. A livello abitativo la casa era pronta e ci avrebbe potuto accogliere, siamo infatti saliti dopo la riapertura di maggio e abbiamo trascorso lì tutta l’estate.”

Vivere in montagna con l’idea di rimanervi in modo stabile durante tutto l’anno, oppure no?

“Con permeabilità. Non vedo perché chi sceglie di vivere in montagna dovrebbe dichiarare di starci 365 giorni l’anno. Io per lavoro ho l’esigenza di spostarmi. Magari sto su una settimana, poi devo andare un paio di giorni in Val Badia e uno a Bolzano e così via.

Penso che la cosa più importante sia quella di non trasformare la montagna in un dormitorio. Io non voglio suggerire di andare in quota per poi fare il pendolare tutti i giorni. Il mio consiglio è quello di trovare un luogo in cui vivere ed esprimersi senza dover partire con la macchina alle 6 del mattino e rientrare la sera, scelta che sarebbe folle per la propria vita e anche per l’ambiente. Come ho già detto vedo una montagna permeabile.”   

Al fondo del volume si trovano sia la “Carta di Vazon per il recupero delle borgate alpine” che “Il manifesto di Camaldoli per una nuova centralità della montagna”. Due documenti chiave per ripopolare in modo governato…

“Esatto, perché questa migrazione va governata. È qui che sta il nocciolo di una migrazione in tempo di pace. Fatta con i tempi giusti e ponendo dei vincoli. Non si costruisce nulla di nuovo, ma si riprende quello che già esiste. Si recupera, badando a non ricostruire una città in montagna. Non si fanno i condomini per ospitare i cittadini. Si recupera un tessuto dove oggi molti si lamentano dell’abbandono.”

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