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“Dimmi che mi ami”. L’alpinismo e i tormenti di Claude Barbier nel libro di Monica Malfatti

Mezzo secolo fa il belga Claude (o Claudio) Barbier è stato un protagonista dell’alpinismo dolomitico. Il libro racconta le sue scalate in solitaria e in cordata, i suoi litigi anche con i compagni di scalata e gli amici. Poi scopre il perché, ed è una spiegazione dolorosa

Non tutti i grandi alpinisti diventano famosi come meritano. Lo dimostra la storia di Claude Barbier, nato a Etterbeek alle porte di Bruxelles nel 1938, e che ha concluso la sua avventura terrena a 39 anni, nel 1977, a causa di una caduta sulla falesia di Freyr, nelle Ardenne.

Anche se nato e morto in Belgio, Barbier ha amato l’Italia (tanto da voler essere chiamato Claudio e non Claude) e le Dolomiti, dove ha aperto una quarantina di vie nuove, e dove ha praticato ad alto livello l’arrampicata solitaria. L’elenco delle sue ascensioni senza compagni, nei primi anni Sessanta, include la via Andrich a Punta Civetta, la Carlesso alla Torre di Valgrande, la Comici alla Civetta e la Ratti alla Torre Venezia. Fuori dalle Dolomiti, nel 1970, realizza la prima solitaria della via Cassin sulla parete Nord-est del Piz Badile.

Il capolavoro di Barbier, il 25 agosto 1961, è però il concatenamento delle cinque pareti Nord di Lavaredo (via Cassin a Cima Ovest, via Comici a Cima Grande, via Preuss alla Piccolissima, via Dülfer alla Punta di Frida, via Innerkofler alla Cima Piccola) in poco più di 7 ore complessive. Un exploit degno di Cesare Maestri, Reinhold Messner, Heinz Mariacher o Manolo, ma che non rende il suo protagonista famoso. Senza una cartolina inviata a Marino Stenico, in realtà, la notizia rischierebbe di perdersi.

Oltre che per le sue ascensioni, da solo o in cordata, Claude Barbier è noto per i suoi litigi furibondi con i compagni di cordata, per i suoi momenti di depressione e i suoi silenzi improvvisi. Monica Malfatti, giovane giornalista e alpinista trentina, racconta la sua storia in “Dimmi che mi ami”, un libro (144 pagine, 20 euro) appena pubblicato dalla casa editrice Versante Sud.

Non si tratta di una biografia classica, ma proprio per questo il risultato è avvincente. La Malfatti inizia con un’introduzione di trenta pagine che è un compendio di storia dell’alpinismo sulle Dolomiti, e prosegue facendosi raccontare il protagonista dai compagni di cordata come Heinz Steinkötter, tedesco di Aachen trapiantato a Trento, Alberto Dorigatti e Almo Giambisi, a lungo gestore del rifugio Vajolet e di un albergo al Passo Pordoi.

Oltre alla forza di Barbier in parete, vengono fuori molti dettagli inediti. “Claudio cantava sempre. In sosta, sulla cima, nel tragitto che portava all’attacco delle vie”. Giambisi si dilunga su un momento difficile, un litigio sulle Pale di San Martino seguito dall’accusa di aver sottratto una cassetta di libri e materiale alpinistico al Vajolet. Quando Almo la ritrova, e la porta a Claude in Val Gardena, la loro conoscenza si trasforma in una vera amicizia.

Molti altri alpinisti famosi intersecano la vita di Claude Barbier, e molti di loro non sono più tra noi. Nel 1955 è Lino Lacedelli, fresco vincitore del K2, a introdurre il ragazzo belga all’arrampicata durante una vacanza di famiglia a Cortina. Nel 1959, mentre scala con un amico in Lavaredo, Barbier assiste alla celebre competizione sulla Cima Ovest tra gli Scoiattoli di Cortina e agli svizzeri Hugo Weber e Albin Schelbert.

Con un altro tedesco famoso, Dietrich Hasse, e con l’amico Steinkötter, Barbier traccia nel 1966 la Via degli Strapiombi a Cima d’Ambièz, nelle Dolomiti di Brenta. Non è facile il rapporto di Claude con Reinhold Messner, che ha sei anni meno di lui, e che negli anni Sessanta inizia a inanellare le sue solitarie.

Nel settembre del 1968 i due si legano per aprire una via al Piz Ciavàzes (Albina, 250 metri, V e V+) e per ripetere dopo un pranzo al Passo Pordoi la via Senoner alla Terza Torre di Sella. Nello stesso periodo, però, l’altoatesino porta avanti la sua polemica contro le “direttissime”, prima intervenendo a dei convegni e poi con un articolo che esce in Germania e poi sulla “Rivista Mensile” del CAI, e che nella versione italiana s’intitola “L’assassinio dell’impossibile”).

Tra i bersagli di Reinhold c’è proprio la Via degli Strapiombi a Cima d’Ambiez, e, secondo Monica Malfatti, “leggendo quel pezzo Claudio rimase proprio scosso”. Lo scritto di Messner si conclude con un invito a “non uccidere il drago” cancellando a forza di chiodi a pressione l’impossibile dall’alpinismo.

Alla fine di settembre del 1969, l’alpinista di Etterbeek risponde a Messner tracciando insieme a Carlo Platter e a Giambisi una magnifica via in arrampicata libera sul Lagazuoi Nord, che comprende una lunga ed esposta traversata. L’autrice la definisce un “capolavoro di arditezza e intelligenza alpinistica”. Non a caso, per rispondere a Messner, il nuovo itinerario viene battezzato Via del Drago.

Come per tutti gli alpinisti, la vita di Claude Barbier non è fatta solamente di roccia. Monica Malfatti racconta la storia della sua vita e dei suoi amori, e si fa aiutare da Anna Lauwaert, la compagna degli ultimi due anni di vita del belga. La incontra a Loco, un borgo del Canton Ticino dove Anna vive, ascolta il racconto di un amore a prima vista, fatto prima di attrazione fisica e poi di comprensione profonda.

Anna racconta a Monica del libro “La via del Drago” che ha dedicato al suo uomo, ma che è stato pubblicato solo in italiano. Poi le racconta di quando ha iniziato a frugare nei suoi 92 scatoloni di libri, “unica vera ricchezza – mai vantata – di Claudio”, scoprendo il suo interesse per Cesare Pavese e Moby Dick.

Solo molti anni dopo, nel 2010, ascoltando la radio, Anna Lauwaert scopre dell’inchiesta che la Magistratura belga ha aperto per gli abusi sessuali compiuti mezzo secolo prima in un collegio dei Benedettini. Si parla di almeno 5.000 ragazzi abusati, vengono alla luce molti suicidi avvenuti decenni più tardi. Il nome di Claude non compare mai, ma Anna si convince che è stato una delle vittime. Non ha prove, non va in tribunale, ma questo la aiuta a capire.

“Claudio aveva compiuto grandi imprese, ci eravamo amati meravigliosamente, avevamo creduto con tutte le nostre forze del futuro, ma nulla di tutto questo bastava a cancellare l’ombra delle atrocità subite” racconta la Lauwaert alla Malfatti in uno dei loro incontri.

Un altro momento che Anna racconta all’autrice vede lei e Claude a letto abbracciati. “Dimmi che mi ami. Dimmi che mi ami per me, non a causa della montagna, non a causa delle mie imprese, non perché ti porto ad arrampicare, non perché ti faccio l’amore. Dimmi che mi ami solo per me stesso”, dice lui prima di addormentarsi. Il libro si conclude qui, con una piccola foto di Barbier, bambino vestito di bianco, su una spiaggia del Mare del Nord. Non c’è solo la montagna, nella vita dei grandi alpinisti.

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Un commento

  1. “Fuori dalle Dolomiti, nel 1970, realizza la prima solitaria della via Cassin sulla parete Nord-est del Piz Badile.”

    Ma non fu Hermann Buhl nel 1952?

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