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“Controstoria dell’alpinismo” restituisce agli alpigiani il ruolo di primi conquistatori delle montagne

Il nuovo libro di Andrea Zannini dimostra, che l’alpinismo non è stato inventato da cittadini e borghesi, ma era già praticato dai montanari. Anche solamente per diletto

Questo libro racconta una storia senza Storia. Quella di coloro che per primi salirono le montagne, senza avere gli strumenti, ma spesso nemmeno l’esigenza, di raccontarlo.

Ribaltare una visione univoca e mettere in discussione la versione ufficiale della storia dell’alpinismo rileggendo le fonti esistenti, senza censurare o trascurare alcun dettaglio, con mente aperta e spirito obiettivo.

Questo lo scopo che si è posto il suo autore Andrea Zannini, che da molti anni si dedica allo studio della storia dell’alpinismo, con alle spalle un bagaglio da appassionato rocciatore e redattore di guide delle Dolomiti, e un presente da giurato in due sezioni del Premio letterario carnico Leggimontagna, oltre che di professore all’Università degli studi di Udine.

La sua Controstoria dell’alpinismo (Editore Laterza, collana I Robinson, 191 pagine, 18 euro), da pochi giorni in libreria, propone con sguardo acuto e con il rigoroso metodo dello storico di professione, la rilettura di quanto ad oggi noto, mettendo in primo piano il ruolo degli alpigiani, e valorizzando le loro sottaciute competenze e il fondamentale contributo dato nella costruzione ante litteram del grande “gioco” dell’alpinismo.

Gli scienziati che si spinsero sulle cime alla ricerca di fossili e minerali, per dare un senso all’origine del mondo e per lo studio delle scienze naturali, non furono, dunque, i veri pionieri delle prime salite alle vette né, tantomeno, lo furono gli avventurosi viaggiatori inglesi fondatori dell’Alpine Club. Tali primati andrebbero messi in discussione o quantomeno riletti sotto una luce diversa.

L’alpinismo – scrive Zannini nel primo capitolo del volume – è un’attività di loisir, di ricreazione e anche di sfida e competizione già praticata nelle valli alpine dagli stessi alpigiani, di tutte le classi sociali, e di cui si ha notizia da molto prima che le montagne fossero “visitate” da coloro che venivano dalle pianure e dalle città”, ovvero dai “turisti”, forestieri non residenti in montagna. Una prospettiva, rileva Zannini, già intuita da altri, Massimo Mila in primis, ma mai affrontata sistematicamente come invece si fa in questo libro.

Si è detto in tutte le storie dell’alpinismo che l’esercizio di un’attività così inutile non poteva interessare i valligiani e i montanari, impegnati nel vivere una vita difficile e faticosa ai piedi dei monti.

Quella del “gioco” e della ricerca del puro piacere contemplativo nel vagare per monti e nel raggiungere una cima, era una dimensione che non poteva appartenere agli alpigiani: ecco la versione ufficiale. Ma perché no, si domanda Zannini?

Il gioco, lo svago, appartengono da sempre a tutti i tipi di società, anche a quelle delle Alpi, basate su un’economia di sussistenza. E dunque anche i valligiani potevano aver avuto la curiosità di salire su una cima per il puro gusto di farlo.

Il lavoro di Zannini ri-indaga l’excursus storico che conduce alla nascita dell’alpinismo fino alla seconda metà dell’Ottocento, con la frequentazione delle montagne fin dalla preistoria. I ritrovamenti avvenuti negli ultimi anni (2003) nelle Alpi Bernesi al Passo dello Schnidejoch, così come, molti anni prima Ötzi e altri siti esplorati di recente dimostrano che “la colonizzazione preistorica delle Alpi è una pagina che viene continuamente riscritta” e che già migliaia di anni fa c’erano percorsi che si snodavano sulle dorsali dei monti, non solo nelle valli.

Dal Rinascimento in poi Zannini riporta vari trattati dell’epoca che dimostrano come la frequentazione delle montagne fosse comune. Il medico e filosofo bergamasco Grataroli a metà del Cinquecento dispensa consigli su come muoversi tra i monti e proteggersi dalla cecità da neve.

Il famoso De Alpibus commentarius dello svizzero Josias Simler riporta informazioni sull’uso dei ramponi, dell’alpenstock e persino della corda per muoversi sui ghiacciai dimostrando che “buona parte dell’attrezzatura di quello che convenzionalmente si considera il ‘primo alpinismo’ – scrive Zannini – era già nel patrimonio della culture on the ground degli alpigiani tre secoli prima”.

I montanari hanno svolto da sempre mestieri che comportavano una elevata esposizione al rischio: cercatori di cristalli, pastori, bracconieri, contrabbandieri, coloro che effettuavano servizi di marronage, ovvero di trasporto di cose e persone da una parte all’altra di passi e montagne.

C’è il caso della scalata al Mont Aiguille, nelle Alpi del Delfinato, ordinata dal re di Francia Carlo VIII ad Antonio de Ville nel 1492: la prima salita veramente alpinistica ad oggi conosciuta, compiuta con metodi artificiali. Anche se passò alla storia come “Mont Inaccessible”, altre fonti nel Settecento, sottolinea l’autore, confutano tale primato, ricordando che la vetta veniva raggiunta dai contadini della zona da più di due secoli.

Similmente le salite di Conrad Gessner al Pilatus (1555) e di Johannes Müller allo Stockhorn, nelle Prealpi Bernesi, documentano, assieme ad altre riportate nel volume, l’interesse degli Umanisti per le montagne.

Anche in Appennino i veri pionieri delle montagne furono i cacciatori, come dimostra la storia della prima salita al Gran Sasso: anche se il merito è andato al marchese e naturalista teramano Orazio Delfico nel 1794, la cima era stata già raggiunta nel Cinquecento dall’ingegnere militare Francesco De Marchi, a sua volta guidato da un cacciatore di camosci di nome Francesco di Domenico: ma la memoria di quella ascensione venne rimossa.

Un ruolo importante ebbero anche monaci e religiosi – il cui rapporto con la montagna Zannini ha già indagato nel libro Tonache e piccozze (CDA e Vivalda editori, 2004) – ricordati con vari esempi intraprendenti: la salita nel 1766 al Monte Titlis del parroco zurighese Konrad Füssli, raccontata con una sua accurata relazione, dimostra come le tecniche di progressione impiegate fossero note già alle popolazioni alpine, ben prima dell’epopea del Monte Bianco.

E il caso più famoso di rimozione del contributo dei valligiani – in questo caso un esponente della media borghesia locale – è quello della gara alla salita del Monte Bianco. Qui la cancellazione dalla memoria dei posteri ha interessato la figura del medico Michel-Gabriel Paccard, più tardi valorizzato con la realizzazione di una statua a lui dedicata a Chamonix, ma ai tempi escluso perché “di troppo” all’interno del cliché che contemplava soltanto i ruoli dell’ideatore illuminato – lo scienziato Horace Bénédicte de Saussure – e dell’esecutore (la guida e cacciatore Jacques Balmat).

La prima presentazione del volume si terrà a Forni di Sopra (UD) sabato 9 marzo alle 17 nella sala consiliare del Municipio, a cura di Leggimontagna e naturalmente alla presenza dell’autore.

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