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L’everesting del Colonnello Carlo Calcagni, una sfida contro un nemico invisibile

Lo scorso 2 giugno ha portato a compimento il suo everesting, sfida ciclistica in cui un atleta affronta consecutivamente più e più volte la salita di una data cima fino ad accumulare un dislivello positivo pari a quello della più alta montagna del mondo. Nulla di nuovo, lo fanno (o almeno ci provano) in tanti negli ultimi tempi. La notizia diventa interessante quando si scopre che a portare a termine l’everesting10k, versione in cui bisogna superare un dislivello di 10mila metri, in 11 ore e 21 minuti (in 293km), è stato il Colonnello del Ruolo d’Onore Carlo Calcagni che entra così a pieno titolo nella hall of fame dell’Everesting.

Carlo, classe 1968, oggi è un atleta del Gruppo Sportivo Paralimpico della Difesa. Si potrebbe quasi dire che il ciclismo sia il suo lavoro, ma non è sempre stato così. Arruolatosi l’8 gennaio 1988 Calcagni inizia la sua carriera come paracadutista per poi diventare, nei primi anni Novanta pilota di elicotteri dell’Esercito. Ha assolto al suo dovere in diverse missioni poi, nel 1996, viene inviato in Bosnia ed Erzegovina. Serve un pilota di supporto per il contingente italiano. Tra i suoi compiti anche l’evacuazione medico-sanitaria, che lo porta a recuperare feriti e morti. Nel frattempo qualcosa succede. Nell’aria si annida un nemico invisibile, più temibile delle bombe e dei proiettili. Qualche anno dopo Carlo si ammala e la sua vita cambia per sempre, diventa una lotta per la sopravvivenza. Ma non solo. Il Colonnello Calcagni, tra pastiglie e iniezioni giornaliere tira fuori una forza che forse nemmeno lui sa di avere. Torna in sella, in tutti i sensi, e ricomincia a pedalare in salita. Nel giro di una manciata d’anni raggiunge i massimi vertici del ciclismo paralimpico, trovando nella passione un nuovo obiettivo di vita. Nel giugno 2020, dopo il terribile incidente che vede coinvolto il campione Alex Zanardi, partecipa alle tappe pugliesi della staffetta solidale iniziata dall’ex pilota di Formula Uno. Nei primi giorni di settembre consegue invece la Laurea Magistrale in Scienze Giuridiche di diritto internazionale. Ma il suo giorno è il 2 giugno, quando decide di compiere l’everesting virtuale. Pedala sui rulli, per ore e ore, senza soste. Una sfida mentale estenuante, il suo modo per omaggiare la Repubblica e ricordare le vittime del dovere. Sulla sua maglia c’è un motto che può apparire scontato, mai arrendersi, scopriamo perché attraverso la sua storia che non è una narrazione di montagna. La sfiora appena la montagna, quando per inseguire la sfida della vita si cimenta in una scalata forse più grande di ogni salita alpinistica. In questo caso l’everesting non è solo un record, ma una sfida alla ricerca della vita.

Carlo, la tua è una storia complessa. Partiamo dall’inizio, chi eri?

“Ero un paracadutista, pilota e istruttore di volo dell’Esercito Italiano con una grande passione per il ciclismo. Prima della malattia la bici era solo una passione, anche se andavo forte e sono riuscito a togliermi delle belle soddisfazioni. Nel corso dell’attività agonistica ho vinto numerose gare internazionali, 15 titoli italiani su strada e tutti i Campionati Nazionali Interforze a cui ho partecipato.”

Come mai non sei entrato nel reparto atleti?

“Mi è stata offerta l’opportunità, ma ho rifiutato. Io ero un pilota, quello era il mestiere che avevo scelto e che per me veniva prima di ogni altra cosa. Il ciclismo era una passione di secondaria importanza. Ovviamente per riuscire a conciliare le due cose il tempo libero da dedicare al divertimento era veramente poco. Finito il turno lavorativo prendevo la bici e iniziavo gli allenamenti. Poca vita sociale, ma quando nei fine settimana gareggiavo e puntualmente vincevo, mi sentivo veramente bene e ripagato da tanta fatica e tanti sacrifici.”

Poi, cosa succede nel 1996?

“Serviva un pilota in Bosnia, una missione di peacekeeping della Nato sotto l’egida dell’ONU. Non era la prima volta, avevo già partecipato a missioni internazionali in Turchia e Albania. Ero l’unico pilota del primo contingente italiano, circa 3000 uomini. Mi occupavo di tutto ciò che era necessario per la componente volo. Solo successivamente, dopo aver individuato le strutture idonee per tutta la logistica necessaria, sono arrivati i nostri elicotteri con gli equipaggi al completo. Era guerra e noi eravamo lì per portare aiuto e soccorsi. Qualche vita l’abbiamo salvata in quell’inferno che nascondeva un nemico invisibile, oltre ai cecchini che ancora sparavano.” 

Un nemico invisibile, di cosa parli?

“L’ambiente era contaminato da particelle di elementi pesanti e altre sostanze tossiche generate dalle esplosioni durante i bombardamenti e durante gli attacchi degli aerei ai carri da mettere fuori servizio. Erano tutt’intorno a noi, in quel territorio in cui dovevamo operare.

Potevi prestare la massima attenzione, mettendo in atto tutta la professionalità possibile. Quando partivi eri preparato a tutto ciò che era noto, che era visibile. Non potevi però difenderti da qualcosa che non conoscevi, che non vedevi e di cui ignoravi l’esistenza. A causa di questo nemico, a oggi, sono morti quasi 400 italiani e altri 7000 si sono ammalati.”

Tu sei uno di loro?

“Sì.”

Eri a conoscenza di quello che si nascondeva nell’ambiente?

“Assolutamente no! Ho iniziato a conoscere questo nemico invisibile quando ormai aveva invaso tutto il mio corpo, quando ho iniziato a sentir parlare dei morti. Ricordo che quando ho iniziato ad accusare i primi problemi di salute ancora non si riusciva a capire il perché di una malattia così devastante, agiva in contemporanea su più organi. Erano più patologie insieme. Qualcosa di difficilmente curabile, di complicato.

Dopo qualche tempo dal mio rientro in Patria, ho iniziato a stare male e mi sono sottoposto a tutti gli accertamenti utili a comprenderne le ragioni. Da allora vivo i miei giorni tra ospedali, centri medici e studi specialistici eseguendo interventi chirurgici d’urgenza, esami diagnostici di ogni tipo, esami bioptici, nonché sottoponendomi quotidianamente a lunghissime ed invasive terapie farmacologiche. Ho sviluppato numerose patologie che nel 2007 hanno portato al mio Decreto Ministeriale di riforma, con riconoscimento della causa di servizio e relativa diagnosi di malattia multiorgano, neurodegenerativa, cronica progressiva e irreversibile.”

Di cosa soffri oggi?

“Sindrome mielodisplastica, panipopituitarismo, distiroidismo, insufficienza renale, MCS (sensibilità chimica multipla), insufficienza cardiaca, fibrosi polmonare interstiziale, con insufficienza respiratoria, degenerazione neurologica con parkinsonismo, disautonomia. Un freddo elenco di difficile comprensione.

Nel mio corpo sono stati trovati 28 metalli pesanti, tra cui due radioattivi: Cesio e Uranio. Valori impressionanti, anche 22mila volte oltre i valori di riferimento. Li hanno trovati nel fegato, nei polmoni, nel midollo osseo, anche nel DNA.

Da 18 anni ogni mia giornata è scandita dai ritmi delle terapie farmacologiche, dall’immunoterapia appena mi alzo, dalle sedute settimanali di plasmaferesi ospedaliere, dall’ossigenoterapia per almeno 18 ore al giorno, dalle flebo quotidiane con centinaia di compresse da ingerire, dal rumore del ventilatore polmonare notturno e da ogni altro strumento necessario al mio corpo per poter sopravvivere. Per vivere ho bisogno di altro.”

Cioè?

“Ho bisogno di correre, di dare fiato a polmoni stanchi e musica a un cuore malconcio. Mi serve scaldare le gambe al ritmo di pedivelle che girano e che veloci mi accompagnano a respirare lungo le strade del Salento, verso il mare, solo con i miei pensieri, o con mio figlio e gli amici al mio fianco.”

Quando hai scoperto di essere malato?

“Nel 2002, quando già la situazione era cronica. L’ho scoperto grazie al volo e alla bici, vedevo che il mio corpo non rispondeva più come prima. Da poco avevo fatto gli esami per l’idoneità al pilotaggio, grazie al lavoro ero costantemente monitorato. Tutto sembrava nella norma, ma io non stavo bene. In volo accusavo molto di più la fatica e lo stesso accadeva in allenamento.

Vedendo che la situazione non migliorava decisi di fare degli accertamenti, dando inizio al calvario. Mi resi conto che la vita può cambiare da un momento all’altro, che non è un tempo scontato.”

Poi?

“Con la scoperta della malattia ho iniziato il percorso che mi ha portato a dimostrare il nesso causale tra la malattia sofferta e il servizio prestato nei Balcani, ottenendo nel 2005 il decreto ministeriale della dipendenza da causa di servizio. Nel 2007 il mio stato di salute peggiora ulteriormente e vengo riformato dalla Commissione medica dell’ospedale Militare di Taranto con il 100% di invalidità permanente con necessità di assistenza continuativa. Provvedimento che viene valutato dal Comitato di Verifica del Ministero dell’Economia e Finanze che conferma il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio, specificando che trattasi di invalidità permanente riportata per le particolari condizioni ambientali e operative di missione fuori area, decretando, contestualmente, il riconoscimento dello status di Vittima del Dovere.

Quando poi nel 2009 vengo iscritto al Ruolo d’Onore, grazie a una legge dello Stato, ho la possibilità di fare domanda per rientrare in servizio a titolo onorifico, rendendomi ancora utile alla forza armata e alla Nazione. Questo mi ha portato al Gruppo Sportivo della Difesa che racchiude i veterani delle varie Forze Armate che hanno riportato danni permanenti, ma vogliono migliorare la propria condizione psico-fisica e tornare ad una vita sociale e lavorativa attraverso l’attività sportiva. Un gruppo con uno spirito nobile perché unisce atleti e appassionati sotto la bandiera dello sport, trovando conforto e aiuto nella quotidianità.”

Si può curare?

“È una malattia evolutiva, che peggiora fino alla morte. Le terapie che seguo servono a rallentarla e contrastarla e devono essere portate avanti fino all’ultimo giorno, altrimenti il processo degenerativo diventa ancora più rapido.”

Qualcuno sapeva di questi metalli pesanti dispersi nel territorio?

“Gli americani erano ben attrezzati e vestiti di tutti punto. Avevano tute particolari e maschere. Avevano informato tutti gli alleati dei rischi ben noti e per questo avevano inviato una videocassetta per informare, ma a noi sul campo non è mai arrivata.”

Con tutto quello che ti è accaduto non hai mai pensato di abbandonare la bici?

“Assolutamente no, sarei già morto senza la bici. Quando, per colpa di alcune terapie, ero costretto a letto e stavo veramente male avevo sempre accanto la mia bicicletta sul rullo. A volte provavo ad alzarmi, a mettermi sulla sella, ma non reggevo oltre i cinque minuti prima di ributtarmi a letto piangendo.”

Come sei riuscito a tornare a pedalare?

“Giorno dopo giorno, insistendo e non mollando. Con il tempo sono riuscito anche a fare un’ora, un traguardo importante nonché un nuovo punto di partenza. 

Ricordo che era un periodo veramente difficile. Mi imbottivano con antidepressivi e psicofarmaci.”

Come mai?

“Penso fosse normale in una situazione come la mia aver bisogno di un supporto psicologico per gestire e tenere sotto controllo una grave depressione. Ma a un certo punto è scattato qualcosa in me e ho deciso di eliminare quelle terapie che annullavano la mia forza mentale e ho ripreso in mano la mia vita.

L’encefalite demielinizzante mi causa dolori in ogni momento della giornata, ma con quei farmaci non avrei potuto riprendere l’attività fisica agonistica. È stato l’agonismo lo stimolo a farmi impegnare nell’allenamento. Ho imparato a sopportare il dolore per riuscirci.”

Quando è avvenuto il tuo debutto come atleta paralimpico?

“Nel 2014 entro nel neonato corpo degli atleti paralimpici della Difesa. All’inizio pedalo su una bici normale, ma nel giro di poco a causa di una forma di sclerosi multipla con parkinsonismo e della necessità di portare con me l’ossigeno devo passare al triciclo. Nonostante le terapie quotidiane a cui devo sottopormi pedalo ogni giorno, spesso sui rulli dove posso portarmi allo stremo delle forze senza rischiare eccessivamente. Così riesco a vincere altri due titoli italiani.

Nel 2015 debutto in Coppa del Mondo, lo faccio come team Calcagni, senza essere ancora un atleta della nazionale. Cercavo di entrarvi da tempo, da quando nel 2007 ho iniziato a chiedere di essere testato, ma l’opportunità non mi è mai stata offerta. In Coppa del Mondo vinco, io che nell’ambiente paralimpico non ero nessuno, e lo faccio sia la prova a cronometro che in quella in linea. Batto i più forti al mondo e questo mi fa guadagnare la maglia azzurra tanto desiderata.“

Cosa provi quando pedali?

“La mia vita è un cammino accanto alla morte. Grazie al ciclismo, alle gare, cerco di staccarla, di andare in fuga lasciandola indietro. Cerco di dimenticarla per quei minuti, quelle ore in cui do tutto me stesso spingendo sui pedali con tutte le mie forze fisiche e soprattutto mentali. Nella bici canalizzo tutta la rabbia e i dolori che diversamente provocherebbero danni irrimediabili.”

Cosa sogni oggi?

“Le Paralimpiadi di Tokyo 2021.”

Un’ultima domanda. Cos’ha significato l’everesting?

“Che tutto è possibile se ci credi veramente, ma soprattutto se non ti arrendi. Se ti arrendi è finita. Devi credere. Io ho una grande fede, una mia cosa personale dovuta alle esperienze di vita. Ma in generale bisogna credere in se stessi, anche quando ti dicono che lassù non ci arriverai mi.

Per questo cerco sempre nuove sfide, come l’everesting. Sembrano difficili e fuori portata, ma di certo non sono impossibili. Impossibile è una parola che ho imparato a cancellare dal mio vocabolario.”

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2 Commenti

  1. COMPLIMENTI ED AUGURI. SPERIAMO CHE I SACRIFICI DEI NOSTRI SoLDATI SERVANO A PORTARE PACE DURATURA, MA MI SA CHE , VEDI RECENTI CONFLITTI IN NAGORNO KARABAKI CON RADICI ANTICHE NELLA STORIA , STANNO CALMI ED INTANTO SI PREPARANO.
    MI CHIEDO SE INVENTERANNO ANCHE UN OVER EVERESTING, UN DOPPIO, TRIPLO, N-PLO EVEREST

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